di Laura Cappon *
Dichiarazione
choc della nuova consigliera per i diritti delle donne del presidente egiziano
Mohammed Morsi che pone come unico problema "l'età troppo precoce".
Ma la pratica in Egitto, Somalia e Sudan riguarda più del 90 per cento delle
bambine. E il problema, spiega un avvocato, "è culturale, non
religioso"
E’ un
fenomeno nascosto, tacitamente accettato e spesso dimenticato. Sono le Mgf – le
mutilazioni genitali femminili – una pratica che in Egitto, Somalia e
Sudan riguarda più del 90 per cento delle donne. A Mogadiscio l’assemblea
costituente ha stilato alcune settimane fa un articolo che proibisce le Mgf,
mentre in Egitto è in vigore già da 4 anni una legge che rende illegale la
pratica. Norme che rischiano di restare sulla carta, impotenti nello
sconfiggere questa “violazione dei diritti umani”, come riconosciuto
dall’Onu sin dal 1979 con la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme
di discriminazione contro le donne (Cedaw).
In Somalia
le femministe temono che il divieto finisca per essere ignorato, come accaduto
nel caso del provvedimento egiziano che – anche se accompagnato dal lavoro
delle organizzazioni internazionali – ha ridotto di pochissimo il numero delle donne
mutilate. L’argomento, inoltre, ha recentemente riconquistato l’attenzione
pubblica anche nel paese dei faraoni, dopo le dichiarazioni rilasciate alla
stampa da Omayma Kamael, la nuova consigliera per i diritti delle
donne del presidente egiziano Mohammed Morsi. La Kamael,
interpellata sull’argomento, ha posto come unico problema l’età “troppo
precoce” – le Mgf vengono praticate quasi sempre prima degli 11 anni di
età – paragonando le mutilazioni a un intervento di chirurgia estetica.
Parole che hanno suscitato diverse polemiche e hanno aumentato il sospetto di
un cambio di rotta della fratellanza che lo scorso marzo aveva condannato le
Mgf.
“Per capire
cosa succede bisognerà attendere il nuovo parlamento – spiega Azza Soleiman,
avvocato egiziano presidente di Cewla, Center for egyptian women legal
assistance – sicuramente il nostro timore è che nel caso dell’ennesima
vittoria dei Fratelli musulmani, un partito che sembra non avere
interesse per la tutela dei diritti delle donne, non si prenda nessuna
iniziativa per combattere questo fenomeno o addirittura si modifichi quel poco
che abbiamo ottenuto”.
Il
radicamento delle Mgf, però, non è soltanto religioso poiché è una pratica che
risale al periodo preislamico. “Spesso i movimenti d’ispirazione islamica più
radicali, come i salafiti in Egitto – continua Soleiman – si sono appropriati
di questa consuetudine facendo appello all’integrità sessuale della
donna e quindi alla sua conseguente possibilità di trovare marito, ma in
realtà questo è un fenomeno culturale, non religioso”. L’Organizzazione
mondiale per la sanità ha individuato quattro tipi di Mgf, che vanno dall’asportazione
parziale al taglio completo del clitoride. Quest’ultimo tipo è il
più diffuso – che prevede anche la rimozione delle piccole labbra e la cucitura
della vulva – ed è conosciuto come infibulazione.
“Le
mutilazioni nel nostro paese riguardano circa nove donne su dieci”,
spiega Amal Abdel Hadi, medico della New women foundation, associazione
egiziana che da venti anni si occupa di combattere il fenomeno. “Per questo non
basta una legge ma un cambio di usanze che può cominciare solo dal
nucleo familiare”. La strada, dunque, è ancora lunga. Secondo Amal Abdel Hadi
uno degli errori fatti in questi anni è stato quello di considerare le Mgf dal
punto di vista medico e non culturale. “Io mi rifiuto di parlare dell’infertilità,
delle infezioni o dei disturbi psichici che le mutilazioni
possono provocare. Che una donna venga mutilata in una capanna rischiando
l’infezione o in un ospedale di lusso da un’equipe medica, si tratta sempre di
una violazione. In gioco, oltre alla salute, c’è prima di tutto il diritto
delle donne di essere libere e padrone del loro corpo”.
Articoli sullo stesso
argomento
* da ilfattoquotidiano.it
, 5 settembre 2012
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