28 novembre 2021

Honduras al voto: la triste scelta tra trafficanti e corrotti

Centro America. Domenica il narco-Stato elegge il nuovo presidente. Zero previsioni: sondaggi inaffidabili. Campagna insanguinata: uccisi 30 candidati al parlamento e ai municipi

di Gianni Beretta *

Non sarà affatto agevole per gli osservatori elettorali della già non particolarmente affidabile Organizzazione degli Stati americani verificare la correttezza delle consultazioni presidenziali che si terranno domenica in Honduras. E per un semplice motivo: stiamo parlando di un narco-stato a tutti gli effetti (manovrato dai cartelli messicani) che garantisce impunemente il transito della cocaina oltre che il lavaggio di una fetta dei suoi proventi. Basti pensare che Tony Hernandez, fratello del presidente uscente Juan Orlando (al governo dal 2013 per il Partido Nacional), si è visto affibbiare l’ergastolo negli Stati uniti per narcotraffico nel marzo scorso. Mentre lo stesso Juan Orlando è da anni nel mirino della antinarcotici Usa.

PER NON PARLARE poi di uno dei favoriti alla vittoria (tra la dozzina di candidati alla guida del paese): l’impresario Yani Rosenthal, segretario del Partido Liberal, condannato in passato a tre anni negli States per riciclaggio di narcodollari. E dire che l’Honduras, tra i paesi dell’istmo centroamericano, è quello che più di ogni altro avrebbe mantenuto le caratteristiche storiche di banana republics del «cortile di casa» del gigante del nord.

NEL TRADIZIONALE schema bipartitico honduregno il contendente nacionalista Nasry Asfura non sarebbe direttamente coinvolto nel malaffare, salvo essere chiacchierato per corruzione. Mentre a fare da terza incomodo (per l’ennesima volta e con scarse possibilità) ci sarà Xiomara Castro, del Partido Libertad y Refundación, moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya rovesciato da un golpe civico-militare nel 2009 per essersi collocato nell’orbita dell’allora leader bolivariano Hugo Chavez.

Come stabilisce la legge elettorale locale, le urne esprimeranno il capo dello stato direttamente al primo turno tra chi prenderà più voti. E di sondaggi affidabili alla vigilia non ne sono praticamente circolati. A conferma di come l’Honduras sia privo di una qualsiasi dinamica politica propriamente detta. La campagna elettorale ha registrato l’assassinio di una trentina di candidati al parlamento e municipali, in un paese dove la criminalità organizzata imperversa al fianco delle maras (bande giovanili). L’essere ambientalista poi è tipificato come uno dei peggiori delitti; basti pensare all’assassinio della giovane militante Bertha Caceres, i cui mandanti sono rimasti nell’impunità.

STIAMO PARLANDO del resto di un paese che contende da sempre al Nicaragua il primato della povertà in America Latina (dopo Haiti). Anche se in quanto a vaccinazione anti-Covid Tegucigalpa raddoppierebbe il 19% di Managua. D’altronde il Centro America (che ha solennemente celebrato nel settembre scorso il bicentenario dell’indipendenza dalla Spagna) è un po’ tutto precipitato in una disperante deriva antidemocratica che (soprattutto dal presidente Usa Donald Trump in poi) non ha neppure più la valvola di sfogo dell’emigrazione.

CON LA VORACE oligarchia guatemalteca anch’essa impregnata nel narcotraffico. Con El Salvador alle prese del rampante twittero Najib Bukele che, oltre a controllare i tre poteri dello stato, si è avventurato (primo al mondo) a introdurre il bitcoin. Per finire in Nicaragua con l’autarchia della neodinastia del clan Ortega.

* da il manifesto – 27 novembre 2021

nella foto: la candidata presidente Xiomara Castro del Partido Libertad y Refundación durante un comizio a San Pedro Sula 

25 novembre 2021

Tutti i colori dell’idrogeno

Se fosse stato facile realizzare una “economia dell’idrogeno”, lo si sarebbe già fatto da tempo. Sono almeno vent’anni che se ne parla, con scarsi risultati (almeno fino ad ora). Eppure sull’idrogeno, dal grigio al blu, dal viola al verde se ne dicono di tutti i colori. Qualche approfondimento al riguardo.

di Pierluigi Argoneto *

Partiamo dalle basi: l’idrogeno, che i chimici amano identificare con la lettera H, è l’elemento più diffuso nell’universo: quasi il 75% della materia è costituita da idrogeno. Può sembrare poetico, e forse lo è davvero, ma parafrasando Dante si potrebbe dire che è l’idrogeno che move il sole e l’altre stelle, perché proprio di idrogeno sono composte, così come pure in gran parte lo sono i pianeti come Giove e Saturno. Sulla Terra, però, questo elemento non ama stare da solo, è tanto socievole quanto abbondante: quando si lega all’ossigeno otteniamo l’acqua, se si associa al carbonio otteniamo gli idrocarburi (dal metano al carbone), quando è legato sia all’ossigeno che al carbonio otteniamo i vari composti organici. Trovarlo da solo, è praticamente impossibile: non esistono miniere di idrogeno sulla Terra! E però ci serve, e tanto: prima ancora di immaginare usi in ottica green transition, dobbiamo prendere consapevolezza del fatto che oggi l’idrogeno viene utilizzato tantissimo per l’agricoltura: serve idrogeno per fare ammoniaca, e dunque sali di ammonio, quindi fertilizzanti. Con l’idrogeno, letteralmente, si mangia.

I colori dell’idrogeno: una questione di produzione

Sulla terra l’idrogeno deve essere prodotto, e qui cominciano i problemi perché per ottenerlo bisogna letteralmente staccarlo dalle molecole in cui è combinato. E farlo richiede energia, a volte tanta energia. Per descrivere in modo veloce in che modo l’idrogeno viene prodotto, si sono iniziati ad utilizzare i “colori”, sebbene non si tratti della tonalità reale dell’elemento, che è del tutto trasparente e, allo stato gassoso, invisibile all’occhio umano.

Nero. Una prima molecola da cui è possibile “staccare” l’idrogeno è quella dell’acqua. Tutti sappiamo, più o meno dalle elementari, che la molecola di acqua infatti è costituita da due atomi di idrogeno (H) e uno di ossigeno (O): la famosa H2O. Facendo attraversare l’acqua da un flusso molto potente di corrente elettrica, cioè usando un processo che si chiama elettrolisi, riesco a staccare i singoli atomi gli uni dagli altri e a ottenere idrogeno da una parte e ossigeno dall’altra. La questione è: come genero la (tanta) energia elettrica necessaria all’elettrolisi? Se la ottengo da centrali elettriche a carbone o a petrolio inquino. E tanto: per fare un 1kg di idrogeno con questa tecnologia serve una quantità di energia pari al fabbisogno di una famiglia media italiana per una intera settimana. Essendo molto inquinante, si identifica l’idrogeno prodotto in questo modo con il colore nero.

Grigio. La maggior parte dell’idrogeno prodotto, per la precisione ben il 97%, è grigio. Il processo tecnologico utilizzato è quello cosiddetto di reforming: si parte cioè non dall’acqua, ma dal metano – costituito da un atomo di carbonio e ben quattro di idrogeno (CH4) – o da altri idrocarburi. Durante questa operazione si libera in atmosfera molta anidride carbonica, la famigerata CO2 che, essendo inodore e incolore, non è mai stata un problema fino a qualche anno fa: l’abbiamo da sempre liberata in atmosfera senza grandi preoccupazioni andando a creare il disastro climatico che oggi iniziamo a percepire.

Marrone. È marrone l’idrogeno estratto mediante il processo di gassificazione del carbone fossile (lignite): anche qui, grande produzione di CO2 che viene liberata in atmosfera.

Blu. Viene definito blu l’idrogeno prodotto come quello grigio, mediante un procedimento che però non butta la CO2 prodotta direttamente in atmosfera, ma la cattura e la immagazzina: una buona idea, sulla carta. Nella pratica però non è così semplice: immagazzinare la CO2 ha un costo, non solo energetico, molto alto. Ad oggi, l’unico utilizzo è quello delle industrie petrolifere che usano questa anidride carbonica per il recupero secondario del petrolio: si spinge dentro i giacimenti la COcon l’obiettivo di fare affiorare il petrolio residuo dai pozzi che diversamente non sarebbero riusciti ad estrarre. Ma questo significa non disperdere in atmosfera la CO2 – generata per produrre idrogeno – per ottenere del petrolio che poi, bruciando, genera altra CO2 che viene dispersa in atmosfera. Un non-sense (in ottica green transition, non di certo da un punto di vista economico per l’industria petrolifera). E poi: per pompare anidride carbonica nei pozzi a 1000 metri di profondità serve energia: una centrale elettrica, e come viene alimentata? Se uso combustibili fossili, c’è un doppio non senso. Se uso le rinnovabili, beh, allora avrei potuto usarle direttamente inquinando meno. Quindi, il blu è un bellissimo colore, ma per l’idrogeno rappresenta solo una bella idea che nella pratica genera più problemi di quanti ne risolve.

Verde. L’idrogeno verde viene generato dall’acqua, come quello nero. Solo che, in questo caso, l’energia elettrica necessaria all’elettrolisi la ricavo non da fonti fossili, ma con l’energia rinnovabile come quella idroelettrica, solare o fotovoltaica. Per produrre idrogeno in questo modo, quindi, serve un surplus di rinnovabile. Attualmente l’Italia – che è tra i primi produttori europei di rinnovabile – ne produce il 40% rispetto al suo fabbisogno. Questo significa che la consumiamo tutta per l’ordinario e non ne “avanza” per produrre idrogeno verde.

Viola. L’idrogeno viola viene generato dall’acqua, come quello nero. Solo che, in questo caso, l’energia elettrica necessaria all’elettrolisi la ricavo non da fonti fossili, ma con energia nucleare. E dunque è necessario prevedere la realizzazione di centrali nucleari che, come sappiamo, sono molto efficienti, tecnologicamente avanzate, non producono anidride carbonica ma residui di lavorazione radioattivi molto difficili da smaltire e trattare e con un alto impatto sociale.

E una volta prodotto, l’idrogeno, come si distribuisce?

Qualunque sia la tecnologia che si utilizza per produrre idrogeno, con i pro e i contro che abbiamo provato a sintetizzare, l’idrogeno ha un altro problema molto serio: è difficile da stoccare e da trasportare. L’idrogeno è l’elemento più leggero in natura, ed è la molecola più piccola dell’universo. Per provare ad immagazzinarlo, attualmente, posso fare principalmente due cose:

·         potrei comprimerlo, ma dovrei portarlo a pressioni elevatissime e non è per niente banale (circa 700 bar) e metterlo in serbatoi;

·         potrei liquefarlo, ma per farlo dovrei essere in grado di portarlo – e mantenerlo – a meno 253 gradi sotto lo zero, quindi dovrei consumare tantissima energia. Non è un caso che ad oggi lo si possa fare solo per lo Space Shuttle.

© NASA Imagery – L’External Tank – Serbatoio Esterno – dello Space Shuttle contiene idrogeno e ossigeno liquidi utilizzati in fase di decollo.

Ci sono poi altre modalità di stoccaggio (sotto forma di ammoniaca, idruri metallici, utilizzando solidi altamente porosi, e via dicendo) ma in molti casi stiamo ancora parlando di ricerca di base non utilizzabile sul mercato. Di certo non è vero che già oggi lo si possa trasportare nelle condotte del metano attuali: in poco tempo andrebbe a corrodere le tubature esistenti, e bisognerebbe cambiare le valvole e i compressori che devono essere diversi da quelli utilizzati per il metano, infatti ne servirebbero di più potenti di almeno tre volte. Servono quindi test molto sofisticati per pensare alla rete distributiva dell’idrogeno e investimenti molto costosi da un punto di vista infrastrutturale.

Conclusioni temporanee

La via della transizione energetica non è banale ed è irta di ostacoli e difficoltà tecnologiche, sociali ed economiche. Lasciarsi fuorviare da semplificazioni “colorate”, che spesso nascondono insidie o interessi marcatamente di parte, è semplice ed è quanto i decisori politici devono assolutamente evitare. Non esiste, ad oggi, una chiara via da percorrere: vanno esplorate tutte con pazienza e buon senso per individuare quella migliore e raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione che ci si è prefissati. Allora, alcune riflessioni e qualche domanda:

·         la ricerca nel settore dello stoccaggio e della distribuzione di idrogeno è fondamentale e va finanziata: non ha senso per il nostro Paese o per l’Europa non investire in ricerca e poi acquistare tecnologia da terzi: cosa stiamo facendo in tal senso?

·         bisogna puntare in modo deciso alla elettrificazione spinta dei consumi finali, all’efficientamento e al recupero energetico, far sì che ci trasformiamo tutti in prosumer energetici. Ad oggi, le centrali termoelettriche convenzionali convertono circa il 30% dell’energia del combustibile in elettricità e il restante 70% viene perso in calore. Se a questo aggiungiamo la dispersione termica a valle (edifici, automobili, elettrodomestici, etc.) ci rendiamo conto dell’enorme assurdità che viviamo. Efficientare. Efficientare. Efficientare. Cosa si sta facendo in tal senso?

Per concludere: la fine dell’era del petrolio e l’avvento di una società dove l’energia per buona parte dell’umanità sarà ricavata dall’idrogeno è una intuizione abbastanza datata. Ne aveva parlato la prima volta Cesare Marchetti, ricercatore dell’International Institute for Applied Systems Analysis di Luxemburg negli anni ’70 del secolo scorso. E poi anche l’economista Jeremy Rifkin, in un suo libro di circa venti anni fa dal titolo “Economia all’idrogeno”, ne aveva descritto tutti gli aspetti positivi. Se però fosse stato così facile come Rifkin sosteneva, lo avremmo già fatto. Ma non è facile. Motivo per cui è necessario impegnarsi, come al solito, partendo dalla consapevolezza che il futuro non può che derivare da scelte politiche coraggiose basate sui dati, sulle evidenze, sulla scienza e la tecnologia. Lasciarsi suggestionare, dicendone di tutti i colori soprattutto sull’idrogeno, ci allontana da quello che dovrebbe essere il nostro vero obiettivo.

nella foto: Lignite. Viene utilizzata per produrre idrogeno cosiddetto “marrone”

Alcuni approfondimenti: - Strategia nazionale Idrogeno https://www.mise.gov.it/images/stories/documenti/Strategia_Nazionale_Idrogeno_Linee_guida_preliminari_nov20.pdf

- Verso un mercato dell’idrogeno per l’Europa: https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/12/11/towards-a-hydrogen-market-for-europe-council-adopts-conclusions/#

* da www.smartgreenpost.it - 8 Novembre 2021

La pubblicazione dell’intervento non comporta la totale condivisione dei contenuti

Andare in bici è economico e salutare. Perché continuiamo a usare l’auto per tutto ?

di Silvia Granzero *      

La bicicletta è uno dei mezzi principali che oggi usiamo per combattere il surriscaldamento globale. Inventata nel 1817 per ovviare alla moria di cavalli dovuta alla carestia del cosiddetto anno senza estate – il 1816 – causata dall’esplosione di un vulcano in Indonesia, che offuscò il cielo sconvolgendo gli equilibri termici e facendo precipitare la temperatura media del pianeta, ora la bici è uno dei nostri migliori alleati per limitare le emissioni inquinanti prodotte dalle auto.

In Europa, tra il 2000 e il 2016, la concentrazione di polveri sottili nell’aria aveva registrato un calo graduale. Considerando che il trasporto su strada è una delle sue cause principali e che il volume dei passeggeri è rimasto costante, questo era segno che stesse migliorando la sostenibilità dei mezzi di trasporto. La strada verso l’obiettivo europeo delle zero emissioni nette entro il 2050 è lunga, soprattutto se è vero che dopo la pandemia anche i millennial stanno tornando a focalizzarsi sull’automobile. E, nonostante l’incremento dell’elettrico in questo campo, già a gennaio 2019, sulla base dei dati del ministero dello Sviluppo Economico, in Italia era già stato registrato un aumento del 3,5% delle emissioni dovute a benzina e a gasolio, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Secondo i dati della European Environment Agency, inoltre, le città italiane sono tra le peggiori, insieme a quelle polacche, per concentrazione di PM2,5. È sempre più urgente trovare allora un equilibrio tra il bisogno di spostarsi in città e la volontà che queste diventino luoghi in cui sia sano – e piacevole – vivere. È la stessa Unione Europea a puntare sulle due ruote con il Master Plan for Cycling Promotion, lanciato a primavera 2021, ma spetta ai singoli Paesi membri seguirne le raccomandazioni per raggiungere gli obiettivi di aumento del ciclismo urbano, con adeguate infrastrutture e integrazione dei servizi. A livello locale diverse iniziative vanno in questa direzione: a Berlino, ad esempio, la campagna Berlin Autofrei attraverso una raccolta firme ha avanzato una proposta di legge per chiudere al traffico tutta l’area della città circondata dal Ring – la linea di metropolitana circolare – per avere uno spazio urbano più vivibile e sicuro; Parigi, invece, è ormai ben avviata sulla strada della ciclabilità, con un piano di espansione delle piste ciclabili per altri 180 km entro il 2026 e l’obiettivo di triplicare i posteggi per le bici.

Persino la fallimentare Cop26 ha sottolineato l’importanza di decarbonizzare i trasporti, privilegiando treni al posto degli aerei e, in città, le due ruote, le linee di metropolitana e i mezzi elettrici. La bicicletta è oggi il mezzo di trasporto più efficiente quanto a rapporto tra distanza percorsa ed energia bruciata e il più veloce per gli spostamenti urbani inferiori a 7,5 km (equivalenti a 30 minuti o meno di pedalata), ideale per andare incontro alle necessità di un cittadino italiano, i cui spostamenti medi sono di 4,2 km. Ma c’è un problema sul piano culturale: chi si sposta in bici deve quotidianamente affrontare non solo i rischi legati al traffico, ma anche la possibilità di essere insultato da parte degli automobilisti: una vera e propria disumanizzazione dei ciclisti – a cui ci hanno abituato decenni di protagonismo dell’auto  – rende più probabile l’aggressione e l’insulto nei loro confronti. Qualcuno poi suggerisce di usare termini diversi per distinguere il “vero” ciclista – che pedala per sport – da chi usa la bicicletta come mezzo di trasporto.

Un altro grosso problema riguarda il bike sharing, ampiamente diffuso e apprezzato anche in Italia: il servizio reso ai cittadini deve scontrarsi con atti di vandalismo tali da aver indotto la compagnia con sede a Hong Kong GoBee a lasciare l’Europa nel 2018, quando il 60% dei loro mezzi erano stati vandalizzati dopo pochi mesi di presenza a Torino, Milano e Firenze. È successo anche a Manchester alle bici della compagnia cinese Mobike. Si tratta di un servizio gestito dagli utenti tramite mobile, per pochi centesimi all’ora e in free floating: una buona opportunità per la nostra mobilità urbana, che però deve fare i conti con un nodo culturale che porta a vandalizzare per passatempo ciò che appartiene alla comunità, che molti interpretano ancora come qualcosa che “non è di nessuno”.

Se è vero che negli ultimi anni è in crescita il numero delle piste ciclabili sul territorio, o almeno di quelle pianificate, e che gli spostamenti in bici sono aumentati di oltre il 27% tra 2019 e 2020, il nostro Paese è ancora lontano dalle vette di Paesi Bassi e Germania. D’altra parte c’è il boom del cicloturismo, che secondo il Rapporto di Isnart-Unioncamere con Legambiente, nel 2020 ha rappresentato il 18% della spesa turistica in Italia, contro il 5,6% del 2019: un grande potenziale anche economico, ancora non sfruttato appieno. L’Italia segue una tendenza che ha già avuto riscontri molto positivi in tutto il mondo. A Copenaghen, le infrastrutture e le decisioni delle amministrazioni hanno spinto i cittadini a cambiare abitudini: grazie al Cykelslangen – un ponte ciclabile sopraelevato presso il trafficato porto della città – aperto nel 2014 e al più recente Lille Langebro, oltre ai crescenti spazi cittadini dedicati, la bici è sempre di più il mezzo preferito dai locali, che fanno a loro volta pressioni sull’amministrazione per ampliare i percorsi ciclabili, in un circolo virtuoso. Ma anche Siviglia, ben lontana dalla realtà danese, in pochi anni ha moltiplicato il numero di ciclisti grazie alle iniziative dell’amministrazione, come piste ciclabili separate dalla strada, integrazione con il trasporto pubblico, bici a noleggio gratuite per una giornata e biciclette prestate agli studenti per l’anno accademico. A Davis, in California, grazie ai collegamenti extraurbani con il treno, all’autobus gratuito per studenti e impiegati dell’università e al divieto per gli studenti universitari di usare e parcheggiare l’auto nel campus, è possibile – contrariamente al resto degli Stati Uniti – vivere senza automobile e preferirle la bicicletta.

Per migliorare l’approccio italiano alla bici, ancora lontano dal suo potenziale, è quindi auspicabile e necessario l’impiego dei 361 milioni di euro stanziati dallo scorso governo fino al 2024 per interventi per la sicurezza della circolazione ciclabile cittadina e le ciclovie turistiche. Nel piano di investimento rientrano i 45 chilometri del Grab (Grande raccordo anulare delle bici) di Roma – il cui progetto sembrerebbe pronto a partire, dopo essere stato recentemente al centro delle polemiche della campagna elettorale – e altri 5.690 chilometri complessivi di nuovi itinerari: dalla Ven-To, ancora in corso di realizzazione, alla ciclovia dell’Acqua da Caposele ad Avellino e ancora la ciclovia da Santa Maria di Leuca a Lecce e quella del Garda, la cui progettazione sarà completata entro fine 2022, per poi concludere i lavori entro il giugno del 2026; e infine la cosiddetta ciclovia della Magna Grecia. Parallelamente alla realizzazione di queste infrastrutture per il turismo e la ciclabilità urbana – che, superate le verifiche di fattibilità, hanno ottenuto i finanziamenti del PNRR – è fondamentale anche spingere le due ruote, come ha fatto il bonus mobilità che nel 2020 ha fatto toccare il record nelle vendite; ora bisogna fare un passo oltre, incentivando l’abbandono dell’auto, da sostituire con mezzi più ecologici e a misura d’uomo: sulla carta prova a farlo il nuovo bonus bici 2021, che stanzia incentivi per l’acquisto di biciclette e monopattini in cambio della rottamazione dell’auto. Ma, nonostante sia già legge, è ancora in attesa del decreto attuativo. 

La bici poi porta anche ricchezza, misurata con il Pib (Prodotto interno bici), ossia la stima degli effetti economici diretti e indiretti degli spostamenti sulle due ruote. Il Pib italiano ammonterebbe circa a 12  miliardi di euro, somma della produzione di bici e accessori, delle “ciclovacanze” e dell’insieme delle esternalità positive generate dai ciclisti (risparmio di carburante, benefit sanitari o riduzione di emissioni nocive). E questo considerando che nel 2020 la bici, con il monopattino, è stata scelta il 4% di volte in meno sul totale degli spostamenti rispetto all’anno precedente. La cifra complessiva, inoltre, non tiene conto di misurazioni più difficili da rilevare come la diminuzione dei tempi di percorrenza, il calo della congestione del traffico e il valore aggiunto generato da una migliore qualità della vita percepita dai cittadini.

A Bi Ci, il secondo Rapporto Legambici sull’economia della bici in Italia, ha incrociato il Pib con la percentuale di territorio ciclabile nelle regioni italiane per stimare la “cicloricchezza” del Paese: la somma di risparmio di carburante, benefici sanitari, contenimento dei costi ambientali e sociali dei gas serra, riduzione di smog e rumore, abbattimento dei costi delle infrastrutture e dell’artificializzazione del territorio determina un bonus ambientale e sanitario pro capite l’anno pari a 179,5 euro in Veneto, 190 euro in Trentino-Alto Adige e quasi 200 euro in Emilia-Romagna. Complessivamente il valore supera il costo delle infrastrutture necessarie: se in tutte le città italiane con più di 50mila abitanti si pedalasse come a Bolzano – dove ogni chilometro di strada ciclabile produce un Pib di oltre un milione di euro l’anno – Pesaro o Ferrara (tra le 12 città italiane che hanno numeri paragonabili alle città del Centro e del Nord Europa), il Pib italiano supererebbe i 18 miliardi e garantirebbe oltre 86mila nuovi posti di lavoro, con la produzione di bici, la loro manutenzione e servizi logistici, invece che importare un numero considerevole di automobili dall’estero.

Poco costosa (almeno nella sua versione base), la bici è democratica perché accessibile a tutti e questo l’ha resa anche un emblema di emancipazione. Forse anche per questo a fine Ottocento era considerata una causa di follia, specialmente per le donne, che per usarla agevolmente dovevano vestirsi in modo più pratico rispetto alla moda dell’epoca. Ancora oggi, in alcuni Paesi non è scontato vedere una donna che pedala. Ma la bici conviene economicamente ed è efficiente. Pedalare fa risparmiare sulla palestra da un lato e dall’altro sulle spese per carburante, manutenzione e assicurazione dell’auto, ma è anche un aggregante sociale e fa bene alle comunità locali: in un’aria più pulita e in un contesto più sicuro, pedonalizzare le città può, tra le altre cose, offrire ai bambini aree di gioco all’aria aperta dopo la scuola e supportare teatri, bar e negozi. Non da ultimo, chi attraversa un centro abitato in bici fa più acquisti nei negozi locali, creando un beneficio per l’intera comunità.

In Italia sono ancora pochi gli esempi di integrazione dei trasporti, con scarse agevolazioni per gli utenti di interscambio e ridotte possibilità di trasporto bici su treni e mezzi pubblici locali. Il rapporto Isfort sulla mobilità presentato di recente sottolinea l’urgenza di un piano nazionale per una mobilità urbana in modo da farla diventare efficiente e integrata su tutto il territorio – se necessario, anche attraverso iniziative di pricing e interdizione al traffico. Le azioni a favore delle bici possono essere impopolari, ma pagano sul lungo periodo. È quel che è successo negli anni Settanta a Groningen, in Olanda, dove l’amministrazione, per arrivare al tasso del 61% degli spostamenti urbani via bici, si è scontrata con i negozianti del centro che temevano una diminuzione degli avventori (che non avvenne). La stessa Amsterdam non è sempre stata la capitale delle due ruote che è oggi, lo è diventata con iniziative dal basso avallate dall’amministrazione. Per il momento il nostro Paese promuove la mobilità ciclistica con un provvedimento entrato in vigore nel 2018, che prevede tra l’altro l’istituzione di Piani regionali per la mobilità ciclistica, parte di un Piano nazionale che dovrebbe essere varato entro fine 2021, e la nascita di Bicitalia, una rete ciclabile nazionale integrata nell’europea EuroVelo. Non abbiamo altra scelta: per frenare la crisi climatica bisogna agire su tutti i fronti, compreso quello della mobilità sostenibile, che non a caso è inclusa nel Green Deal europeo. Per arrivare alla neutralità climatica entro il 2050 bisogna ridurre le emissioni derivanti dal sistema dei trasporti del 90%. È ora di iniziare a pedalare.

* da thevision.com – 23 novembre 2021 ( segui Silvia su The Vision )

 

23 novembre 2021

Venezuela: Come previsto stravince Maduro. Ma va a votare solo il 41,8%

Venezuela. L'opposizione conquista solo tre stati. All'elezione di domenica ha partecipato tutto l'arco politico

di Claudia Fanti *

È stata una vittoria schiacciante quella riportata dal governo Maduro alle elezioni municipali e regionali di domenica in Venezuela. Il chavismo – o, come preferiscono definirlo i settori più critici della sinistra, il “madurismo” – si è affermato in 20 stati su 23, oltre che a Caracas, dove l’ex ministra dell’Interno Carmen Meléndez si è imposta con il 58,9% dei voti.

COME PREVISTO, l’opposizione, che è riuscita a conquistare solo Cojedes, Nueva Esparta e Zulia, benché quest’ultimo sia il più popoloso del Venezuela, ha pagato duramente la mancanza di unità: se si fosse presentata unita, avrebbe potuto giocarsi la vittoria in almeno altri tre stati. Ma, ancor di più, ha scontato il discredito provocato da tre anni di appelli a «restare a casa» e dalla lunga serie di fallimenti, scandali di corruzione e promesse mancate che hanno segnato la stagione del “governo per Internet” di Juan Guaidó.

Non è da addebitare però solo alla rovinosa strategia dell’opposizione la bassa affluenza registrata domenica: la partecipazione di appena il 41,8% degli elettori è il segnale di una disaffezione politica crescente che non può non investire anche il governo Maduro.
E se il presidente ha ragione a ricondurre l’ennesima vittoria alla «perseveranza» e alla «rettitudine» della militanza, ciò non assolve il governo da tutti i suoi limiti ed errori: gli accordi di vertice con la borghesia, lo smantellamento dei servizi pubblici, il burocraticismo, l’inefficienza delle politiche in difesa dei settori più poveri, la concentrazione di potere nell’esecutivo, l’ingresso di capitali privati in diversi settori chiave dell’economia. E più in generale, l’abbandono nei fatti di quel processo di transizione all’ecosocialismo che era stato, pur nelle contraddizioni, il grande sogno di Chávez.

PERCHÉ è di tutt’altro che parlano la controversa Ley Antibloqueo, descritta da più parti come uno strumento per una sotterranea privatizzazione delle risorse del paese, e l’ancor più criticato progetto di legge per la creazione di Zone economiche speciali, le quali, quasi per definizione, finiscono per costituire enclave estrattiviste sottratte al controllo dello stato.
Che il governo non sembri disposto a porre freni al modello estrattivista, lo dimostra del resto non solo la mancata rinuncia al carbone, a cui si deve la contaminazione della Sierra de Perijá, ma anche il rifiuto ad aderire all’accordo globale per frenare la deforestazione firmato, alla Cop 26, da ben 124 paesi.

La vittoria di domenica, stavolta legittimata anche dalla partecipazione di tutto l’arco politico, oltre che dalla presenza degli osservatori elettorali (la missione della Ue riferirà oggi), rappresenta in ogni caso una bella boccata di ossigeno per il presidente Maduro, il quale ha esortato tutti, vincitori e sconfitti, a «rispettare i risultati» e a portare avanti il dialogo politico e «la riunificazione nazionale».

QUANTO ALL’OPPOSIZIONE, tra i pochissimi a commentare il risultato è stato il candidato a sindaco di Caracas per la Mud, la Mesa de la Unidad Democrática, Tomás Guanipa: «Dobbiamo riconoscere la necessità di cambiare la strategia seguita finora. La nostra sfida deve essere quella di stare con i cittadini, perché è innegabile che il paese vuole un cambiamento ed è per questo che dobbiamo lottare».

* da il manifesto -23 novembre 2021

Il Cile si risveglia troppo pinochetista: Kast arriva primo

 America latina. Il repubblicano ottiene due punti in più del progressista Boric. I due candidati presidenti al ballottaggio il prossimo 19 dicembre in uno scenario mai così polarizzato. Ma ora entrambi al lavoro per assicurarsi i voti del centro


di Ariadna Dacil Lanza *

Alla luce dei risultati di ieri, il capitolo finale delle presidenziali in Cile si terrà il 19 dicembre, quando José Antonio Kast del Partido Republicano de Chile e Gabriel Boric, l’attuale candidato della coalizione di sinistra Pacto Apruebo Dignidad, si affronteranno in un ballottaggio. L’occasione sarà un momento decisivo in cui optare per due coalizioni che non sono mai state al governo e che muovono gli orientamenti politici un po’ più agli estremi rispetto alle ultime due cariche presidenziali, quelle di Sebastián Piñera e di Michelle Bachelet.

Antonio e Patricia sono una coppia sposata che odora di profumo importato, portano orologi e cellulari costosi, e si trovano nel quartiere Las Condes di Santiago del Cile dove Kast parlerà di lì a pochi minuti, quando saranno confermati i risultati che gli hanno dato la vittoria al primo turno. Chiedono «cambiamento ma con sicurezza» e di «mantenere la tradizione di un paese con valori familiari e meritocrazia». Con un sottofondo di musica rap che intona «Osa per il Cile, per la tua famiglia e per tua madre», Marcela Ferreira, 50 anni, critica Piñera per aver «ceduto stupidamente il potere a un gruppo di sinistra». Marcela apprezza che Kast sia «politicamente scorretto» e che – riferendosi al conflitto con i Mapuche – il candidato di estrema destra chiami «ciò che sta accadendo in Araucanía per quello che è, terrorismo del tipo più puro in cui si sono infiltrate le Farc e molte altre organizzazioni legate al traffico di droga». E infine, assicura, «il terrorismo non può essere risolto con il dialogo». Andrea Torres, una giovane venezuelana che non vota ancora in Cile ma accompagna il suo fidanzato alla festa, è fiduciosa che «Kast avrà la mano dura» di fronte alla crisi migratoria che il paese ha vissuto recentemente: «Anche se sono i miei connazionali a essere entrati».

La domanda è cosa ne è stato della rivolta sociale di due anni fa e come spiegare queste affermazioni dei sostenitori di Kast, che cantano «Viva il Cile e Pinochet» o «Il Cile non sarà mai comunista», e che replicano il discorso del loro candidato che durante la campagna ha detto: «Se Pinochet fosse vivo voterebbe per me». Ora è il favorito al ballottaggio. Inoltre Kast, che ha punti in comune con Jair Bolsonaro e che ha stretto legami con Vox, propone che al momento del referendum finale si bocci la nuova Costituzione – che la Convenzione Costituente sta elaborando – e si mantenga quella della dittatura. Questa continuità aiuta a ricordare che la transizione democratica in Cile è avvenuta dopo il referendum del 1988 con una minima differenza di voti tra sostenitori e avversari del dittatore.

Un’altra domanda che risuona dopo domenica è quanto i «vincitori» siano in sintonia con le esigenze della società, perché sebbene Kast abbia ottenuto il 27,9% dei voti (nel 2017 ottenne l’8%) e Boric il 25,83%, entrambi hanno raccolto una minuscola porzione di voti: quasi 3,8 milioni su un totale di votanti che ha superato i 7 milioni ma che rappresenta meno della metà dei 15 milioni degli aventi diritto. È chiaro che questi numeri rientrano nella media storica (è la quinta elezione in 12 mesi e in nessuna l’affluenza ha superato il 51%) e all’interno del sistema elettorale cileno un presidente può essere eletto con questi margini. Ma in uno scenario di polarizzazione come questo e con un numero enorme di elettori indecisi e disincantati, chiunque assuma la prossima presidenza avrà davanti a sé una consistente parte della società che non lo ha eletto.

I programmi di entrambi i candidati sono radicalmente diversi, ma nel ballottaggio dovranno reindirizzarsi verso il centro per cercare di catturare voti. Ci sono stati segnali in questo senso nei discorsi di Kast e Boric dopo gli spogli di domenica. Il candidato repubblicano dovrà attenuare alcuni dei suoi programmi economici liberali e sociali conservatori. Finora Kast ha proposto, per esempio, l’eliminazione di alcuni ministeri per ridurre le dimensioni dello Stato, l’abrogazione della legge del 2017 che permette l’aborto per tre causali, è critico nei confronti dell’educazione sessuale nelle scuole, si muove sull’asse legale-illegale per quanto riguarda le questioni migratorie e ha proposto 10 passi per affrontare quella che lui chiama «l’invasione degli immigrati illegali», compresa la creazione di una forza di polizia ispirata all’Immigration and Customs Enforcement (Ice) degli Stati uniti.

Intanto Boric, che ha parlato dopo le 22 di domenica nel quartiere Italia di Santiago, ha chiesto ai suoi sostenitori di andare a fare opera di convincimento in vista del ballottaggio, ma senza scontri perché «nessuno è di troppo». Il programma dell’ex leader studentesco dovrà insomma virare verso il centro, cercando l’appoggio degli elettori della democristiana Yasna Provoste, ex ministra del governo Bachelet. Finora, Boric ha criticato il modello economico cileno, proponendo la sostituzione del sistema pensionistico Afp, una delle principali richieste della rivolta del 2019, oltre a insistere sulla necessità di rendere le tasse progressive. Contrariamente a Kast, la sua idea di Stato è piuttosto espansiva in termini di assistenza e servizi sociali.

Il bunker di Apruebo Dignidad, come quello di Kast, era in strada. L’atmosfera era più ambigua, festosa dal palco in cui suonavano bande musicali, rilassata tra il pubblico, si ballava e si cantava, ma anche incerta perché il ballottaggio non sarà facile. «Siamo venuti qui con un sapore dolce e amaro perché è andato al secondo turno, ma è difficile. Non avrei mai pensato che Kast e ciò che rappresenta potesse essere una forza importante», dice Álvaro. Per Patricia era importante esserci «per motivare un po’ la gente» e perché «se Kast vince la rivolta sociale è stata inutile». Pablo Calixto, 30 anni, dice che non è militante in nessun partito ma che è al bunker di Boric «per affrontare un movimento che è il fascismo e che è presente in numeri troppo evidenti» e per appoggiare le rivendicazioni «ecologiche e femministe».

È fondamentale anche guardare ai risultati delle elezioni legislative perché, essendo Kast e Boric due candidati degli «estremi», oltre che tra gli elettori, dovranno cercare alleati tra i partiti di centro per governare: chiunque sia il vincitore non avrà la maggioranza in parlamento. D’altra parte, il Congresso ha un ruolo decisivo: una volta che la nuova Costituzione sarà stata redatta, se modificherà i punti chiave del sistema politico – potrebbe cambiare la durata delle cariche elettive, eliminare il Senato, o anche andare verso un sistema semi-presidenziale o parlamentare – sarà il Congresso a decidere se convocare elezioni anticipate per rendere vigenti le nuove regole del gioco. Lo scenario rimane quindi molto aperto, soprattutto se Kast diventerà presidente e dovrà governare con una nuova carta costituzionale, che lui e il suo settore rifiutano.

Il Congresso si configura adesso con una maggioranza per l’attuale partito al potere, anche se il suo candidato alla presidenza, Sebastián Sichel, è giunto terzo con il 12% dei voti. Al Senato, dove 27 dei 43 seggi erano in palio, Cile Podemos Más di Piñera avrà 22 seggi e alla Camera dei Deputati, che ha rinnovato tutti i 155 seggi, lo stesso ha ottenuto 53 seggi. Significativo il gesto di Sichel che dopo le elezioni ha detto che «parlerà» con Kast e che non voterà per Boric perché non vuole che «l’estrema sinistra vinca», gesto che lascia presagire una serrata dei ranghi al Congresso. La seconda forza parlamentare sarà l’ex Concertación, che era in maggioranza nel governo Bachelet e che ha sostenuto la candidatura presidenziale di Yasna Provoste, arrivata quinta con l’11,74% dei voti – anche al di sotto di Franco Parisi, un candidato che ha fatto campagna elettorale dagli Stati uniti essendo indagato in Cile per non aver pagato il mantenimento dei figli – che ha ottenuto il 12,8%. Il settore di Provoste non ha ancora dato il suo appoggio formale a Boric, ma lei ha chiamato a «non permettere l’avanzata del fascismo che Kast rappresenta». Boric avrà 37 seggi alla Camera dei deputati e Kast 15, mentre al Senato Boric avrà cinque seggi e Kast uno. Una metafora per analizzare i movimenti politici regionali può essere presa in prestito dalla fisica: «A ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria». Così come in Brasile al grido di «Ele Nao» hanno risposto i conservatori del bolsonarismo e in Argentina la «marea verde» ha risvegliato una «marea celeste», in Cile la rivolta che chiedeva riforme radicali e metteva in discussione lo status quo ha toccato le corde sensibili del pinochetismo, che Kast ha saputo interpretare e a cui ha risposto con un messaggio di «ordine e pace».
Ora la sfida per Kast sarà sedurre coloro che sono d’accordo con queste premesse, ma da posizioni dai valori più democratici. Nel frattempo Boric, pur essendo riuscito finora a tradurre istituzionalmente alcune delle proposte della rivolta sociale, dovrà affrontare la sfida di mostrare governabilità e moderazione, ma dovrà anche essere capace di entusiasmare i disincantati.

* da il manifesto 23 novembre 2021

15 novembre 2021

COP26, il tempo delle parole è finito: ora la partita si gioca sui numeri

di Sergio Ferraris *

Con l’edizione 26, ossia dopo 26 anni, il sistema negoziale delle Cop ha fatto i conti con la realtà ed è uscito, finalmente, da una sorta di metauniverso fatto tutto di meccanismi politici e da eteree quanto inconsistenti ipotesi di riduzione della CO2, ipotesi nelle quali hanno abbondato per decenni le buone intenzioni e i condizionali. Dal 1992, anno dell’assise ecologista di Rio de Janeiro, al 2020, nonostante le negoziazioni abbiamo assistito a un aumento della concentrazione di CO2 da 360 ppm ai 412,5 ppm dello scorso anno. E dire che nel 1992 a Rio era stato fissato l’obiettivo di tornare ai livelli del 1990 entro l’anno 2000. In realtà si toccarono i 372 ppm. Ma torniamo alla Cop26 appena conclusa.

Il primo bagno di realtà la Cop26 lo ha fatto con l’arrivo dell’ultimo rapporto dell’Ipcc che ha smentito l’Accordo di Parigi del 2015 – il quale fissava l’obiettivo al 2100 di 2°C con l’auspicio di arrivare a 1,5°C, valore inserito all’ultimo momento per accontentare i piccoli paesi dell’Oceano Pacifico. Ad agosto 2021, invece, l’Ipcc ha affermato secco: il mezzo grado in più fa la differenza tra la zona sicura e la catastrofe. E l’allarme dell’opinione pubblica internazionale è stato grande.

A ciò, con ogni probabilità, si deve l’inserimento, per la prima volta nella storia delle negoziazioni del clima, di una percentuale di riduzione delle emissioni coniugata con una scadenza temporale stretta, molto stretta: -45% di emissioni a livello planetario al 2030. Una novità importante quanto irrealistica se guardiamo al contesto energetico di oggi. L’80% dell’energia oggi prodotta sul pianeta è d’origine fossile ed emette CO2. E abbattere questa percentuale del 45% in nove anni è abbastanza improbabile visto che dal 1970 – cinquanta anni fa – l’utilizzo delle fonti fossili è diminuito del 7% passando dall’87% all’80% di oggi.

Questa novità è stata smentita, nei fatti, da Cina e India, che hanno bocciato l’ipotesi della neutralità climatica, ossia il 100% nell’utilizzo di fonti energetiche a emissioni zero, entro il 2050. La Cina ha voluto che la data del 2050 fosse indicata in maniera generica come “intorno alla metà del secolo”, mentre l’India ha fissato il proprio obiettivo per il 100% a emissioni zero in maniera secca al 2070, imponendo nelle battute finali anche il rallentamento sostanziale per l’uscita dal carbone. E per capire ciò bisogna leggere i dati di contesto dell’India che è una nazione popolata da 1,38 miliardi di persone, produce il 75% dell’elettricità dal carbone e ha 240 milioni di persone sono senza l’elettricità. E oltre ciò, per quanto riguarda il consumo d’elettricità procapite all’anno, l’India è a 857 kWh, contro i 4.700 dell’Italia, i 6.700 della Germania, gli 11.730 degli Usa o i 13.800 della civilissima ed ecologica Svezia. Mentre la Cina è a 3.991 kWh per abitante. Questi fatti rappresentano il secondo bagno di realtà, ed è esattamente l’indice della contraddizione intrinseca alla negoziazione climatica che non si è mai occupata abbastanza del sociale. E ora che siamo in una vera e propria emergenza conclamata, il sociale presenta il conto.

E l’India è solo il primo capitolo di questo contesto. Di sicuro seguiranno la Cina, che ha disperatamente bisogno d’energia perché se scende sotto a un aumento annuo del Pil del 5% mette a rischio la propria tenuta sociale ed economica; il Sudafrica, che ha già manifestato il proprio dissenso sull’abbandono del carbone; mentre dalle nostre parti la Polonia ha annunciato che di uscire dal carbone prima di 25 anni non se ne parla.

Il tutto in uno scenario nel quale si chiedono sacrifici a Paesi che stanno godendo solo ora dei vantaggi economici delle fonti fossili, mentre è arrivato, proprio durante Cop26, il rifiuto da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti per la creazione di un fondo al quale i paesi più poveri possano attingere per rispondere alla crisi climatica. Tradotto: noi abbiamo emesso CO2 per trent’anni, nonostante gli allarmi, per produrre e sviluppare il nostro Pil – boicottando oltretutto lo sviluppo delle energie verdi a favore delle fossili – ma voi dovete fare sacrifici in nome di una situazione della quale siete solo in minima parte responsabili. E a ciò bisogna aggiungere che il 18% del Pil di India e Cina è prodotto dalle esportazioni e che quindi quasi un quinto della CO2 prodotta da loro, in realtà, è imputabile ai paesi sviluppati che questi beni li acquistano.

“Non è tra i compiti dell’Onu dare prescrizioni circa le fonti energetiche. I Paesi in via di sviluppo come l’India devono avere la loro equa quota di budget delle emissioni di CO2 e vogliono continuare l’utilizzo responsabile dei combustibili fossili”, ha detto il ministro dell’Ambiente indiano, Bhupender Yadav, che è stato appoggiato dalla Cina. Insomma il tempo delle parole rispetto al clima è finito. Ora la partita si gioca sui numeri, specialmente su quelli dell’economia. E quando si parla del portafoglio il gioco diventa duro.

* giornalista scientifico/ambientale - da FQ - 15 novembre 2021

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14 novembre 2021

COP26: La delusione di Greta e dei giovani attivisti: «È un fallimento»

di Andrea Marinelli *

La leader del movimento: attenti al «greenwashing»

Alla fine, secondo Greta Thunberg, non è stato altro che un grande, deludente «bla bla bla». Poche ora prima che gli inviati di quasi 200 Paesi annunciassero il raggiungimento di un accordo, per quanto vago, sulla lotta al cambiamento climatico, la giovane attivista svedese aveva già messo in guardia i suoi 5 milioni di follower su Twitter, ma anche i 100 mila compagni che hanno manifestato insieme a lei a Glasgow e tutti gli altri — i giovani del Fridays for Future e gli adulti — che hanno sostenuto la battaglia a distanza. «Ora che la Cop26 sta volgendo al termine — ha scritto in serata su Twitter la leader delle proteste — fate attenzione allo tsunami di greenwashing e alle giravolte dei media per definire in qualche modo il risultato come “buono”, “un progresso”, “ottimista” o come “un passo nella giusta direzione”».

Non vi fidate, insomma, delle dichiarazioni dei politici e di ciò che leggerete sui media, ha avvertito Greta, che già nei giorni scorsi aveva definito la conferenza sul clima «un fallimento», nient’altro che una campagna di pubbliche relazioni per imprese e politici. «Siamo così lontani da ciò di cui abbiamo bisogno», aveva spiegato a Glasgow, «che potremmo considerare la Cop un successo soltanto se la gente capisse che è stata un fallimento». Mercoledì, insieme ad altri giovani attivisti, la 18enne di Stoccolma ha anche promosso una petizione per chiedere al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres di dichiarare formalmente il surriscaldamento globale una «emergenza di livello 3», la più alta delle Nazioni Unite, la stessa usata per la pandemia e che permetterebbe di inviare risorse ai Paesi più a rischio nell’emergenza climatica.

«Anche se i leader manterranno le promesse che hanno fatto qua a Glasgow, non basterà a prevenire la distruzione di comunità come la mia», ha confermato l’attivista ugandese Vanessa Nakate, 24 anni. «Al momento, con il riscaldamento a 1,2°, la siccità e le alluvioni stanno uccidendo persone in Uganda. Solo un drastico e immediato taglio delle emissioni ci può dare speranza, ma i leader mondiali hanno fallito. Le persone si stanno però unendo al nostro movimento, e sta montando la pressione».

Questa Cop, ha chiarito Luisa Neubauer, 25 anni, della sezione tedesca dei Fridays for Future, «ha fallito nell’introdurre i cambiamenti sistemici di cui avevamo un bisogno disperato. I capi di Stato non hanno raggiunto l’obiettivo, ma il nostro movimento per il clima sta crescendo».

* corriere della sera - 14 novembre 2021

13 novembre 2021

COP26: Un po’ di «colonialismo» verde nascosto nelle pieghe

 Quale energia per i paesi poveri. I paesi del Sud e i poveri del mondo subiscono gli impatti climatici più tragici, e al tempo stesso più di 1 miliardo di persone in 48 paesi dell’Africa sub-sahariana sono responsabili di meno dell’1% delle emissioni globali cumulative di anidride carbonica

di Marinella Correggia  * 

La Norvegia, principale fornitore di gas in Europa dopo la Russia, ha accettato di aumentare le esportazioni di 2 miliardi di metri cubi per alleviare la carenza di energia del Vecchio continente. E il primo ministro Jonas Gahr Støre ha sostenuto che i futuri investimenti nel petrolio e nel gas saranno fondamentali per sostenere la transizione verso le rinnovabili.

Al tempo stesso, fa sapere l’analisi scritta da una ricercatrice indiana e pubblicata su Foreign Policy, Norvegia e altri paesi nordici e baltici hanno fatto pressione sulla Banca Mondiale affinché ponga fine a tutti i finanziamenti di progetti di gas naturale in Africa e altrove a partire dal 2025, e punti invece su soluzioni come l’idrogeno verde e le micro reti intelligenti. Ma è possibile una simile svolta energetica, in tempi così rapidi? No, secondo l’analisi. Intanto l’idrogeno verde è una tecnologia complessa e costosa. E dovunque, anche qualora si accelerasse nel settore eolico e solare, la produzione di elettricità dai fossili sarebbe ancora necessaria per bilanciare queste fonti, dipendenti dalle condizioni atmosferiche.

I paesi del Sud e i poveri del mondo subiscono gli impatti climatici più tragici, e al tempo stesso più di 1 miliardo di persone in 48 paesi dell’Africa sub-sahariana sono responsabili di meno dell’1% delle emissioni globali cumulative di anidride carbonica. Anche se triplicassero la generazione di energia ricorrendo solo al gas naturale, le emissioni globali aumenterebbero di un mero 1 per cento.

Dunque, sostiene l’analisi, i paesi ricchi dovrebbero agevolare progetti di gas naturale (l’Africa ha importanti giacimenti off shore) ancora per i prossimi due decenni in modo che i paesi poveri escano dalla povertà e riescano a costruire le infrastrutture energetiche critiche necessarie allo sviluppo economico e al miglioramento degli standard di vita – compresa l’elettricità per case, scuole e fabbriche. E oltre a ciò, i combustibili fossili sono ancora critici per lo sviluppo dell’Africa. La costruzione di strade ed edifici è ad alta intensità energetica, così come – ad esempio – la produzione di molti materiali. Alternative a basso costo e a basse emissioni di carbonio non sono ancora disponibili.

Pensiamo poi alla cottura dei cibi nelle case povere. Circa 3,8 milioni di persone muoiono prematuramente ogni anno per l’inquinamento dell’aria indoor. Quasi tutti i decessi si verificano tra i 2,6 miliardi di persone nei paesi poveri che ancora bruciano legna, carbone, carbonella o sterco di animali in casa per cucinare. Il fumo tossico penetra in profondità nei polmoni.

L’Onu ritiene che il passaggio al gas da cucina in bombola salvi tante vite nelle case dei poveri. I paesi del Nord, esigenti verso il Sud, sono invece molto pazienti a casa propria. Joe Biden ha chiesto ai principali fornitori di energia di aumentare la produzione per soddisfare la domanda di petrolio degli Stati Uniti. E la Germania ha stabilito una tempistica di quasi 20 anni per uscire dal carbone.

* da il manifesto  - 13 novembre 2021