30 settembre 2017

I primi scontri tra i due governi in Libia



di Lorenzo Carota                ( 12 settembre 2017) *

Nella giornata di domenica ( 10 settembre) in Libia le milizie che fanno capo al governo di Tobruk (guidate dal Generale Aftar e sostenute da Egitto ed Emirati Arabi), hanno attaccato e conquistato i porti di Ras Lanuf ed Es Sider, tra Sirte e Bengasi. Questi due porti hanno una certa importanza, perché è da qui che continua a partire – seppur in maniera molto minore rispetto al periodo prima della guerra civile – il petrolio estratto nel Paese.


A difesa degli stabilimenti c’era la Guardia petrolifera libica, guidata da Ibrahim Jathran. La Guardia petrolifera, a dispetto del nome “istituzionale”, è nei fatti una vera e propria milizia autonoma. Questa milizia a luglio era arrivata ad un accordo con l’altro governo – quello stanziato a Tripoli e sostenuto dalla comunità internazionale, guidato da Fayez Serraj – per la ripresa del commercio e delle esportazioni petrolifere.

I governi di Tripoli (che controlla l’ovest del Paese) e di Tobruk (che controlla la parte est) sono entrambi impegnati nella lotta contro le fazioni islamiste e contro l’Isis, ma non sono mai riusciti a giungere ad un accordo che potesse contemplare la formazione di un governo di unità nazionale capace di operare su tutto il territorio. Fino ad oggi, però, non si era mai giunto allo scontro armato tra i due governi libici.

Questo nuovo sviluppo potrebbe decretare il fallimento della missione Onu che aveva affidato al governo di Tripoli di Serraj il compito di riunire la Libia, e a cui il Generale Aftar si era sempre opposto. La presa dei due porti – in altri due, Brega e Zueitinasi, si sta ancora combattendo – potrebbe inoltre complicare quella che secondo Reuters sarebbe l’unica possibilità per la Libia di ricostruire le fondamenta dello Stato, e cioè la ripresa dell’esportazione stabile del petrolio estratto nel Paese, che da solo varrebbe il 95% delle entrate statali.

Intanto nella giornata di oggi è stato comunicato dal governo italiano l’invio in Libia di 100 medici e 200 militari della Folgore. Il loro mandato sarà quello di costruire un ospedale da campo nei pressi di Misurata e sostenere l’esercito del governo di unità nazionale di Serraj, che da tempo chiedeva aiuti in questo senso.

 * da     www.thezeppelin.org 

27 settembre 2017

Germania: Il dilemma dei Verdi divisi tra realisti e radicali



Verso la coalizione Giamaica. Tetto ai migranti e austerità, i Grünen stretti tra due partiti che spingono a destra





Il potere logora chi non ce l’ha. La speranza dei Verdi tedeschi, dopo il voto di domenica, è che l’aforisma di andreottiana memoria sia vero, ma la paura che le cose possano stare diversamente è molta. Dalle urne i Grünen sono usciti con un soddisfacente 8,9% che li proietta nella «coalizione Giamaica» con i neri democristiani della Cdu/Csu e i gialli liberali della Fdp. Tornare al governo dopo 12 anni di opposizione è certo cosa da rendere allegri, ma le condizioni in cui gli ecologisti si apprestano a farlo sono le peggiori possibili: nell’eventuale prossimo gabinetto di Angela Merkel sarebbero non solo la forza minore, ma soprattutto dovrebbero convivere con due partiti che spingono verso destra. I bocconi amari da inghiottire potrebbero rivelarsi troppi, e il conto da pagare alle elezioni future – sia regionali, sia politiche tra quattro anni – rischierebbe di essere salatissimo.

I democristiani, in particolari i bavaresi della Csu, vogliono a tutti i costi riconquistare l’elettorato perduto a vantaggio dei nazionalisti di AfD: è da attendersi un ulteriore giro di vite sulla questione-profughi, da Monaco il governatore Horst Seehofer è subito tornato a chiedere in barba alla Costituzione di fissare per legge un tetto massimo di persone da accogliere. I liberali si ergono a guardiani dell’ortodossia in campo economico: l’austerità deve restare un dogma intoccabile, in patria ma soprattutto in Europa. 

I Verdi, dal canto loro, sostengono con forza l’apertura ai migranti e una svolta sociale nell’Ue: le contraddizioni in seno alla probabile coalizione di governo non potrebbero essere più grandi. Esistono ovviamente anche punti in comune. La «protezione del creato» sta a cuore anche ai democristiani che difendono il patrimonio naturale del Paese come elemento-chiave dell’identità tedesca, i diritti civili sono il terreno d’incontro con i liberali. E ci sono le esperienze dei Länder: la coalizione con la Cdu funziona in Baden-Württemberg e in Assia, e da tre mesi c’è un’alleanza «giamaicana» nello Schleswig-Holstein, la regione al confine con la Danimarca. Ma rischia di non bastare. Soprattutto se da sinistra incalzeranno le opposizioni «rosse» della Spd e della Linke, magari facendo sponda con il sindacato: la confederazione unitaria Dgb si è già detta preoccupata di un ritorno al governo dell’ultra-liberista Fdp, che tra le promesse elettorali aveva quella di annacquare la legge sul salario minimo legale.


I Grünen affermano di essere un partito della giustizia sociale, e la combattiva corrente della sinistra interna prende molto sul serio questa auto-definizione. Malgrado il partito sia stato guidato in campagna elettorale da due esponenti moderati, Cem Özdemir e Katrin Göring-Eckardt, la base e i gruppi dirigenti sono sostanzialmente equamente divisi fra «realisti» e «radicali», e questi ultimi non resterebbero senza farsi sentire di fronte a compromessi inaccettabili. Ma anche i «realisti» sanno di non dover mettere a repentaglio il tesoretto elettorale: la storia recente della Repubblica federale mostra che una legislatura al governo può rivelarsi fatale per il partner minore della coalizione. È ciò che è appena accaduto ai socialdemocratici della Spd, mai così in basso, ma soprattutto ciò che capitò alla Fdp nel 2013: dopo quattro anni nell’esecutivo segnati da polemiche continue, precipitarono dal 14,6% al 4,8%, restando clamorosamente fuori dal parlamento.


( nella foto  i leader dei Verdi Katrin Göring-Eckardt e Cem Özdemir )


* da il manifesto 27 settembre 2017


Esito del referendum curdo




Arbil 26 settembre 2017. Seggi chiusi per lo storico referendum del 25 settembre nella Regione autonoma. 


Nessun problema particolare, nemmeno nelle aree contese, tra cui la città di Kirkuk, dove si temevano scontri tra milizie peshmerga e arabe. Il risultato era scontato e non ha tradito le aspettative: i “sì” per l’indipendenza da Baghdad e, quindi, allo Stato curdo hanno stravinto. Secondo i primi dati della Commissione elettorale con oltre il 78% di affluenza i “sì” ottengono circa il 93% dei voti.

Del resto, buona parte del mito dei curdi e dei peshmerga è nato proprio qui, nella resistenza contro il regime di Saddam, che li ha a lungo repressi. E nelle strade della Regione autonoma, già nelle settimane che hanno preceduto il referendum, il clima era di grande euforia. La stragrande maggioranza di uomini e donne è convinta che la separazione da Baghdad permetterà di superare la crisi economica e sociale nella quale la Regione si dibatte ormai da anni, tanto per ragioni contingenti, come la guerra contro lo Stato islamico (oltre ai costi militari c’è da tener presente l’elevato numero di rifugiati iracheni che la Regione automa ha dovuto ospitare: a oggi sono oltre il 30% della popolazione), che strutturali (il bassissimo prezzo del greggio, in un’economia che vive quasi esclusivamente della vendita del petrolio, ha negli ultimi anni azzerato le entrate del governo).

Quali scenari apre questo referendum? Forse, al di là delle dichiarazioni degli ultimi giorni dei leader politici curdi e di quelli internazionali, questo voto sembra caratterizzarsi esclusivamente come una manovra interna alla Regione autonoma, che rischia di cristallizzare gli attuali rapporti di forza interni, impedendo un’evoluzione del contesto politico verso forme più mature, democratiche e autenticamente rappresentanti delle nuove istanze che pure stanno emergendo, ad esempio tra i più giovani.
Innanzitutto il referendum: al centro c’è l’indipendenza, ma di quale Kurdistan? Quello del sud, il Kurdistan iracheno, in pratica dell’attuale Regione autonoma, costituita dai tre governatorati di Arbil, la capitale, Dohuk e Sulaymaniyya (in pratica il nord dell’attuale Iraq), tutt’altra cosa dal “grande” Kurdistan, lo Stato promesso dagli Inglesi dopo la Prima guerra mondiale, che riunificherebbe tutti curdi, compresi quelli che attualmente vivono in Turchia, Siria e Iran, e che pure campeggiava su gran parte dei manifesti elettorali. Nemmeno è ipotizzabile la nascita di un movimento pancurdo, innanzitutto proprio per le rilevanti e profondissime divisioni nella compagine politica curda, con il partito attualmente egemone ad Arbil, il Partito democratico del Kurdistan (PDK) del presidente Barzani che ha più volte represso gli stessi curdi del PKK turco ed è con gli anni diventato un alleato e un sicuro partner commerciale del governo di Ankara.

Dunque, l’indipendenza è da Baghdad, con la quale i curdi condividono dal 2005 la Costituzione, che ha garantito loro lo status di Regione autonoma: nei fatti sono quasi una realtà statuale autonoma, con milizie proprie (i peshmerga che, sostenuti da americani ed europei, hanno svolto un ruolo centrale nella lotta contro lo Stato islamico) e istituzioni quasi sovrane. Perché, dunque, scegliere di effettuare proprio ora il referendum?
La decisione è stata assunta dal presidente Barzani, la cui legittimità è contestata da altri partiti curdi: il suo mandato è scaduto nel 2013 (dopo il limite dei due mandati) ma è stato prorogato per due volte, illegittimamente a sentire le opposizioni. Tuttavia, nel corso della guerra allo Stato islamico, Barzani ha potuto giovarsi della più classica delle situazioni di emergenza, rinviando la soluzione della crisi istituzionale alla fine della guerra. La liberazione di Mosul, però, ha allontanato la minaccia dello Stato islamico, almeno per gran parte dei confini curdi.

Il presidente curdo ha allora scelto di utilizzare la questione nazionale per proporsi come unico leader curdo in grado di trattare con Baghdad e dar vita a uno Stato curdo. L’annuncio ha funzionato: in maggioranza il popolo curdo, che desidera ardentemente non avere più niente a che fare con Baghdad, il governo che per anni lo ha represso in modo spietato, si è schierato con Barzani e i partiti di opposizione hanno potuto fare ben poco. Inizialmente avevano tentato di contestare la legittimità stessa del referendum (convocato dal presidente della Regione e non dal parlamento, i cui lavori sono stati bloccati dallo stesso Barzani per anni), hanno dovuto infine accodarsi. Un uso quantomeno spregiudicato della questione nazionale, permette al presidente curdo di prorogare l’emergenza istituzionale per i prossimi anni, facendo del suo partito il motore politico della Regione: lo si è visto anche a Sulaymaniyya, storica sede dei partiti alternativi al Pdk (Il Partito democratico del Kurdistan), quando Barzani ha radunato per un suo comizio miglia di curdi, palesando così, plasticamente, l’unità del popolo curdo. Barzani può ora tentare di capitalizzare il successo al referendum per vincere anche le prossime elezioni per il Parlamento (che ha fissato per novembre) e poter guidare le trattative con Baghdad.
Il referendum, infatti, ha un valore simbolico – altissimo, per i curdi, che da giorni festeggiano quello che è un giorno atteso da decenni – ma è un fatto interno, che, a detta dello stesso Barzani, non ha effetti immediati nel rapporto con l’Iraq e la comunità internazionale. Il modello è quello della Brexit: saranno, quindi, aperte trattative con il governo centrale che dureranno, parole dello stesso Barzani, non meno di due anni.
Ecco quindi che il referendum mette una seria ipoteca sulla possibilità di trasformazione ed evoluzione del sistema politico curdo: contiamo di essere smentiti, ma il rischio è di una prosecuzione del conflitto politico tra le storiche forze politiche del Kurdistan meridionale, incapaci sin qui di individuare proposte valide per uscire dalla crisi come pure sempre più distanti da una nuova generazione di curdi che, nata dopo il 1990, dunque dopo la liberazione della Regione, non vive più l’indipendenza come un elemento centrale (perlomeno non l’unico) per affermare i propri diritti e la propria cultura.

Tra i grandi problemi, oltre a quello dei proventi del greggio degli ultimi anni, sui cui da tempo si registra una lite tra il governo di Baghdad e quello di Arbil, quello che più peserà nelle trattative ci sono le aree contese, zone forzatamente arabizzate da regime di Saddam e reclamate dai curdi, tra cui Kirkuk, ricchissima di petrolio. Tante incognite restano, dunque, ancora da verificare: ed è probabile che nelle prossime settimane all’euforia di questi giorni si sostituirà il ritorno della contingenza pressante della crisi economica e sociale. Il popolo curdo, tuttavia, potrebbe sorprendere nuovamente. Nel frattempo, però, i curdi iracheni, almeno per qualche giorno, possono festeggiare. Ne hanno tutto il diritto.