31 maggio 2021

Israele, addio Netanyahu? Se Bennet è a un passo dal governo


di Ferruccio Michelin *

Dopo quattro elezioni in due anni e 13 anni di potere, Netanyahu potrebbe perdere il posto di premier in Israele. Pronto il governo del cambiamento per escluderlo. Ecco gli scenari che si aprono.

Tra poche ore l’era di Benjamin Netanyahu — primo ministro israeliano con vari governi sin dal 2009 — potrebbe terminare. Alle 8 di sera ora locale (le 19 in Italia) Naftali Bennett rilascerà una dichiarazione in cui annuncerà la sua intenzione di formare un “cambio di governo” con il leader dell’opposizione Yair Lapid per estromettere l’attuale premier. Un passaggio storico, che chiude un travaglio elettorale che dura praticamente da due anni — e quattro votazioni — ormai dato per sicuro. Secondo la Reuters, Netanyahu starebbe ancora “manovrando” per cercare di dissuadere gli oppositori dal formare il “governo del cambiamento”, ma i media israeliani rilanciano sull’annuncio imminente.

Lapid è individuabile al momento come il leader dell’opposizione, che ha tempo fino a mercoledì per mettere insieme una coalizione. Quella che si sta formando è un’alleanza di partiti di destra, centristi e di sinistra. Il collante principale è probabilmente la volontà di estromettere “Bibi” Netanyahu dal circolo del potere — leader di una destra sempre più aggressiva, e per altro sotto processo per accuse di corruzione che lui nega. Bennett ha convocato i legislatori del partito che rappresenta, Yamina (di destra), per discutere i suoi prossimi passi: i legislatori del suo partito, che hanno una più stretta affinità politica con il Likud di Netanyahu, avrebbero accettato.

Nell’accordo in discussione, Bennett dovrebbe prendere il posto di primo ministro e in seguito cedere il posto a Lapid in un accordo di rotazione tipico della politica israeliana (salvo difficilmente arrivare a compimento per via delle continue elezioni anticipate). Una simile intesa era già stata segnalata come potenziale quando la violenza è scoppiata tra Israele e militanti di Gaza il 10 maggio, il che ha spinto Bennett a sospendere le discussioni facendo guadagnare tempo e spazi politici a Netanyahu. I combattimenti si sono conclusi con un cessate il fuoco dopo 11 giorni. Bennett finora ha mantenuto il silenzio pubblico. Una coalizione anti-Netanyahu sarebbe fragile e richiederebbe il sostegno esterno dei parlamentari arabi che si oppongono a gran parte dell’agenda di Bennett. Ci si aspetta una concentrazione sulla ripresa economica dalla pandemia Covid-19, mettendo da parte le questioni su cui i membri non sono d’accordo, come il ruolo della religione nella società e le aspirazioni palestinesi alla statualità.

Netanyahu ha fatto la sua controfferta a tre per farsi da parte a favore di un’intesa politica di destra: Gideon Saar avrebbe servito come primo ministro per 15 mesi, Netanyahu sarebbe tornato per due anni e Bennett poi subentrato per il resto del mandato del governo. “Siamo in un momento fatidico per la sicurezza, il carattere e il futuro di Israele, quando metti da parte ogni considerazione personale e fai passi di vasta portata e persino senza precedenti”, ha detto Netanyahu in un video dichiarazione sulla proposta. Saar, un ex ministro del governo del Likud, ha respinto l’offerta, scrivendo su Twitter: “La nostra posizione e il nostro impegno sono immutati: porre fine al governo di Netanyahu”. I rivali di Netanyahu hanno citato il suo caso di corruzione come una delle ragioni principali per cui Israele ha bisogno di un nuovo leader, sostenendo che potrebbe usare un nuovo termine per legiferare sull’immunità e proteggersi. Se Lapid, 57 anni, non riesce ad annunciare un governo entro mercoledì, è probabile una nuova elezione, la quinta dall’aprile 2019. Bennett ha detto che intende evitarlo.

* da formiche.net – 30 maggio 2021

L’Afghanistan torna ai talebani? I dubbi di Bertolini

di Marco Bertolini *

I talebani stanno costringendo al ritiro le forze di sicurezza afghane da alcune città ad est, mentre la Turchia si propone come pacificatore finale. L’analisi del generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore, primo italiano al capo di Stato maggiore della missione Isaf


È ancora presto per definire un insuccesso il piano concordato tra governo afghano e talebani a Doha, in Qatar, per il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan, ma non c’è dubbio che si sperava in un passaggio con meno frizioni tra le parti sul campo. Un segnale non positivo in questo senso era già stato dato con la posticipazione sine die a dopo la conclusione del Ramadan della prevista conferenza ad Ankara che avrebbe dovuto tenersi per la fine del mese di aprile scorso tra le parti. Evidentemente, a parte ogni considerazione sul rispetto del mese di penitenza dell’Islam, pare chiaro che ci fosse ancora bisogno di tempo per chiarire tutto il necessario, anche all’interno del campo talebano.

Certamente, chi sperava in un semplice “cambio di governo” da concordare tra le parti, col conferimento della responsabilità a una nuova coalizione, “più inclusiva” per usare il linguaggio iniziatico dei nostri politici, resterà deluso. Non si è trattato, infatti, di una semplice riedizione in salsa afghana delle “consultazioni” alle quali ci ha abituato la liturgia quirinalizia, per designare il nuovo temporaneo reggitore delle sorti del governo. Piuttosto, si trattava di trovare un compromesso accettabile per entrambe le parti per far scorrere meno sangue possibile durante un cambio annunciato che si sapeva comunque drammatico. Sul campo, infatti, dove dall’invasione sovietica nel 1979 i conti si regolano con la forza delle armi, le logiche dei compassati colloqui effettuati nel ricco paese del Golfo fanno fatica a passare ed evidenziano una specie di cesura tra i “Talebani di Doha” e quelli “sul campo”.

Si sofferma su questa inedita situazione un reportage sul New York Times che descrive la crisi morale che si manifesta in una ondata di diserzioni e di abbandono di posto in alcune località del paese, da parte di militari e poliziotti afghani.

In particolare, la cronaca si sofferma su alcune province della regione est del paese (Wardak, Baghlan, Laghman e Ghazni), quella da sempre mantenuta sotto il diretto ed esclusivo controllo statunitense al confine col Pakistan, nelle quali si muoverebbero dei “Comitati di Invito ed Indirizzo” Talebani con lo scopo di convincere le varie postazioni delle Forze di Sicurezza afghane ad abbandonare le armi e il posto.  Da quello che si riferisce, sembrerebbe che tali Comitati utilizzino una procedura consolidata, stringendo in un primo tempo i presidi delle Forze di Sicurezza in un assedio che li costringe a consumare tutte le risorse necessarie per il funzionamento e la vita (munizioni e viveri), per poi mandare gli anziani dei villaggi dai Comandanti per convincerli alla resa. Colpisce la scelta simbolicamente significativa dell’attribuzione di questo ruolo di ambasciatori agli anziani del posto, con un ritorno ad una prassi che sembrava parzialmente superata dopo l’insediamento di un Governo impegnato ad affermarsi come moderno e democratico. Ma preoccupa soprattutto la facilità con la quale i talebani riescono a sfruttare la crisi morale di forze che si sentono abbandonate dall’alleato che si sta ritirando dal paese, nonché dal proprio Governo stesso, in difficoltà ad inviare rinforzi con i quali tamponare le molte falle che si stanno producendo. Insomma, la prospettiva di essere rimasti soli, in un territorio immenso nel quale nessuno ti può aiutare, e soprattutto il sospetto di essere gli ultimi difensori di un regime che sta passando la mano ad altri, crea in molti il comprensibile dubbio sul da farsi. Non sono isolati, a quel che sembra, episodi di eroismo da parte di presidi che rifiutano la resa, ma non c’è dubbio che i Talebani si stanno dimostrando capaci anche nel condurre quella che in campo Nato viene definita Strategic Communication (Stratcom), lanciando i messaggi necessari per ottenere nel campo avversario gli effetti voluti. E nel far ciò dimostrano anche lungimiranza, nel non abbandonarsi per ora a quegli atti di violenza cieca di cui è stato testimone anche il nostro paese in una fase altrettanto drammatica della sua storia. A minacce e ad azioni di forza, vengono infatti alternati atti di liberalità e pacificazione, come il rilascio di chi si arrende, nel tentativo di tranquillizzare la società civile afghana.

Si potrebbe osservare che questa situazione riguarda soprattutto l’Afghanistan orientale, esposto a quel permeabilissimo confine col Pakistan dalla cui “area tribale” arrivano da sempre le principali minacce a Kabul, da parte dei Talebani della Shura di Qetta, ma anche dalla rete di Jalaluddin Haqqani centrata su Miram Shah e da Hezb-i Islami di Gulbuddin Hekmatyar. Niente di sorprendente, si potrebbe dire, quindi.

Ma è certo che i segnali di una crisi morale tra le forze di sicurezza afghane si registra anche in altre aree del paese, come la regione nord, un tempo sotto controllo tedesco e quella ovest, di nostra precipua responsabilità. In quest’ultima, aree nelle quali le nostre unità hanno operato a lungo, come la provincia di Farah, sono in parte tornate sotto controllo talebano, mentre in altre, come Bala Murgab e il Gulistan le unità afghane soffrono le difficoltà di alimentazione e di rinforzo dovute anche a una rete viaria difficile ed esposta alle iniziative avversarie.

Insomma, non c’è dubbio che nonostante il tentativo di un passaggio concordato tra le parti, i talebani che operano sul campo non resistono alla tentazione di trasformare in vittoria quello che i colloqui tuttora in corso a Doha vorrebbero si limitasse ad un “pareggio”, ancorché solo formale.

Certo è che il tentativo di esportare il modello occidentale in Centro Asia, come in altre parti del Globo (si pensi alla Somalia, all’Iraq e alla Libia) è miseramente fallito. E questo forse non è un male se ci aiuterà a considerare con il giusto rispetto e col dovuto realismo un mondo che è molto più vario di quanto una visione puramente globalista vorrebbe ammettere. Un mondo che non si inchina alle ragioni del politicamente corretto con le quali noi spesso sacrifichiamo la realtà all’ideologia, fino al punto di negare (o cancellare) la storia per adeguarla alle nostre fissazioni e infatuazioni.

Per quel che riguarda il ritiro del nostro contingente, per ora non pare ci siano problemi ed il tutto sta procedendo secondo la programmazione elaborata dal COI. La base di Herat è ancora sicura e comunque l’area è relativamente tranquilla e sotto controllo delle forze afghane. Inoltre, la vicinanza di Herat all’Iran, tradizionale nemico dei talebani, potrebbe rivelarsi utile anche in questa delicata fase.

Ma più in generale, la tenuta dell’Afghanistan dipenderà in larga misura dalla capacità del Governo di Kabul di ribaltare la percezione di un ritiro americano di tipo “vietnamita” che lasci spazio a una serie di vendette senza fine, rinforzando invece il morale delle unità dedicate al controllo del territorio. Ma per questo dovrà continuare a contare sul supporto statunitense, soprattutto per il controllo dell’area dallo spazio aereo. Soprattutto, poi, dovrà fare affidamento sulla Turchia, che ha già annunciato di voler rimanere nel paese per aiutare la transizione con una operazione di pace. Le truppe di Ankara potrebbero certamente svolgere un ruolo di intermediazione importante per la loro natura, diversa da quelle del resto degli “infedeli” della Nato; e non si malignerebbe troppo nel sospettare che Erdogan si stia fregando le mani di fronte ad una realtà che lo conferma di giorno in giorno protagonista assoluto di un’area nella quale – dalla Libia, al Mediterraneo centro-orientale, al Medio Oriente, alla Somalia, al Caucaso e all’Asia Centrale  – la Turchia si propone, se non come potenza egemone, come interlocutore obbligatorio e ineludibile. Non sarà una riedizione dell’Impero Ottomano, certamente, ma comunque è una grande affermazione per un paese pieno di ambizioni e con risorse in termini di popolazione e di postura strategica adeguate a cavalcare un futuro problematico.

* da formiche.net – 30 maggio 2021

23 maggio 2021

Decreto Semplificazioni, cresce il fronte dei contrari

Deregulation. Oltre ai sindacati anche Libera si schiera contro la deregulation su appalti e bandi. Si apre un nuovo fronte: la «rigenerazione urbana» permetterà di «allungare» gli edifici nei centri storici


 Massimo Franchi *

Ministri che spiegano e minimizzano, sindacati e ambientalisti ancora all’attacco. La bozza del decreto Semplificazioni – che dovrebbe andare in consiglio dei ministri la settimana prossima – continua a portarsi dietro polemiche e contrapposizioni anche nella stessa maggioranza che appoggia il governo Draghi.

ANALIZZANDO MEGLIO le 45 pagine del testo – ancora non definitivo – e i suoi 44 articoli si scopre che per «accelerare per mettere a terra il Pnrr» (ministro Cingolani dixit) non c’è solo la deregulation del subappalto e il ritorno delle gare al massimo ribasso.
Un nuovo capitolo viene criticato dalle associazioni ambientaliste: quello sulla rigenerazione urbana. All’articolo 18 si prevede una bella colata di cemento anche nei centri storici: «Nelle zone omogenee A, nei centri e nuclei storici consolidati» e altre aree «di particolare pregio storico e architettonico» rispettando i parametri pre-demolizione con «appositi piani urbanistici» e rispettando i palazzi vincolati, si potrà così ricostruire anche con «ampliamenti fuori sagoma o innalzamento dell’altezza» purché «nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti».

Con il decreto si istituiranno poi una serie di strutture ad hoc per dare una corsia preferenziale alle opere del Recovery Plan, dalla Soprintendenza unica alla supercommissione tecnica per la valutazione di impatto ambientale, ma anche dotando di un «Comitato speciale» il Consiglio superiore dei lavori pubblici e rafforzando la banca dati nazionale dei contratti pubblici dell’Anac. Tra i settori oggetto di semplificazioni quello delle Tlc, con il taglio dei tempi per la posa della banda larga, ma anche quello dei servizi digitali della pubblica amministrazione: ci saranno, ad esempio, degli «avvisi di cortesia» delle notifiche digitali per chi non ha la Pec, mentre sarà «attribuito» un domicilio digitale a chi non ce l’ha. Oltre alla revisione delle norme sugli appalti, per le opere che saranno individuate come di «particolare complessità o rilevante impatto» ci sarà una ulteriore procedura accelerata che taglierà i tempi che intercorrono tra la presentazione del progetto da parte della stazione appaltante e la gara per far partire il cantiere. Saranno anche dimezzati i tempi per il dibattito pubblico e riviste le soglie che vi devono essere sottoposte obbligatoriamente.

PER TUTTE QUESTE RAGIONI il giudizio espresso ieri da Libera è molto duro. «I contenuti delle bozze del decreto semplificazioni sul codice degli appalti suscitano grande preoccupazione. Nel provvedimento si prevede una proroga fino al 2026 delle deroghe al Codice degli appalti, con un ulteriore innalzamento delle soglie per affidamenti diretti senza gara. La pericolosa logica emergenziale della “fuga dalle regole” allarga così il suo raggio di applicazione e si estende all’intero arco temporale di gestione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Torna nella bozza il cosiddetto “appalto integrato”, in cui progettazione ed esecuzione dei lavori sono oggetto della stessa gara e quindi affidati allo stesso aggiudicatario, con una pericolosa commistione di ruoli che depotenzia la funzione pubblica di programmazione e controllo. Per le opere del Recovery viene infatti abrogato il divieto di affidamento congiunto previsto dal Codice degli appalti e l’aggiudicazione può avvenire sulla base del criterio del prezzo più basso. Un meccanismo dagli effetti negativi ben noti: deresponsabilizzazione delle stazioni appaltanti da un lato, dall’altro gli incentivi per le imprese a recuperare sui costi con accordi collusivi, perizie suppletive e varianti d’opera, oppure allentando le tutele alla sicurezza dei lavoratori. Illudersi di velocizzare le procedure per questa via è una strategia miope e rischiosa, che apre la strada ad una liberalizzazione di fatto potenzialmente criminogena delle gare d’appalto, un vero e proprio “liberi tutti” per mafie e corruzione», conclude Libera.

E NELLA MAGGIORANZA ad appoggiare le critiche di Cgil, Cisl e Uil che con due categorie – edili e terziario – hanno minacciato lo sciopero generale, arriva il capogruppo alla camera di Leu Federico Fornaro: «Liberalizzare l’utilizzo senza limiti dei subappalti per velocizzare le opere pubbliche è un rimedio ben peggiore del male. Con il Codice degli appalti si era regolamentata la materia con risultati positivi nella lotta alla corruzione e nella sicurezza del lavoro. La velocizzazione necessaria per rispettare i tempi del Recovery non può e non deve significare meno sicurezza per i lavoratori e abbassare l’asticella nel contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Si riducano i tempi delle procedure di aggiudicazione ma si continui a tenere la barra dritta della lotta alla corruzione e alle mafie e della massima tutela della sicurezza di chi lavora», conclude Fornaro.

* da il manifesto 23 maggio 2021