29 gennaio 2022

Egitto. L’ultimo regalo di al-Sisi all’esercito: 37 isole del Nilo

Da tempo nel mirino per una speculazione di lusso, ora quei territori vengono assegnati dal presidente alle forze armate e al loro impero economico. Rischio sgombero per centinaia di migliaia di egiziani poveri, contadini e pescatori, che da anni si battono per restare


di Chiara Cruciati*

Con un decreto presidenziale, Abdel Fattah al-Sisi fa un altro regalo alla fonte della sua legittimità: all’esercito assegna la proprietà di 37 isole del fiume Nilo, riserve naturali. Cresciuto nelle forze armate, nominato prima generale e poi ministro della Difesa (da un ignaro Morsi che poi da quell’uniforme fu deposto), nel 2013 ha guidato le forze armate verso i vertici delle istituzioni egiziane: (ri)preso il potere, è ripartita spedita la scalata all’economia.

Un oligopolio puntellato da riforme legislative che hanno ulteriormente ampliato le capacità commerciali delle forze armate (che già producono di tutto, dalla pasta ai fertilizzati fino alle tv), una fetta di Pil che si aggira sul 40%, grazie anche alla disponibilità di manodopera a basso costo (decine di migliaia di reclute pagate poche decine di dollari al mese) e alla garanzia di appalti milionari per le mega infrastrutture tipiche della strategia economica di al-Sisi. Ora si aggiudicano 37 isole su cui da tempo hanno messo gli occhi, luogo ideale per una speculazione edilizia di lusso. Ma quelle isole non sono vuote: ci abitano centinaia di migliaia di egiziani, per lo più poverissimi, pescatori, contadini, lavoratori a giornata. Hanno costruito spesso da soli le loro case, con mattoni di fango e lamiere, uno sviluppo urbano che le autorità hanno finto di non vedere per decenni, incapaci di fornire alternative. E così ormai da anni quelle isole sono divenute terreno di scontro, politico e fisico.

Operazioni di demolizioni e minacce di espropri hanno provocato proteste e ribellioni, a partire dall’isola al-Warraq che il governo vorrebbe destinata a ben altri scopi (il progetto Horus), un grande hub turistico e residenziale dedicato alle classi alte e finanziato, pare, anche con i soldi del Golfo. Il decreto presidenziale, una paginetta, cita un documento del ministero delle Risorse idriche, come riporta Middle East Eye, che suggerisce di trasferire la proprietà delle isole all’esercito «per proteggerle da diverse minacce». Non è chiaro quali siano. Dal 1998 – al potere c’era ancora ben saldo Hosni Mubarak – erano state tutte catalogate come riserva naturale, di proprietà dunque dello Stato.

Tra le 37 isole c’è Badrashin, la più grande, e Qursaya, appena 5mila abitanti. Pescatori e contadini, da tempo minacciati di sfratto: nel 2007 l’isola era stata promessa a una grande compagnia perché la tramutasse in un fiore all’occhiello turistico, con lo zampino delle forze armate. Un tentativo fallito nel 2010 quando i residenti di Qursaya vinsero in tribunale contro il governo: avevano il diritto di rimanere. Diritto ribadito di nuovo in tribunale nel 2013. Ora temono che il trasferimento della proprietà all’esercito, finora bloccato dalle corti egiziane – si legge sull’agenzia indipendente egiziana Mada Masr – permetterà gli sgomberi e la costruzione di case con prezzi impossibili da pagare per i poveri di Qursaya.

***

Ramy Shaath: «Egitto Stato terrorista» A 20 giorni dal suo rilascio, dopo due anni e mezzo in detenzione cautelare, l’attivista palestinese egiziano Ramy Shaath rilascia la sua prima intervista alla Cnn. E nonostante le minacce alla sua famiglia, racconta i lunghi mesi nelle carceri del regime: «L’Egitto sta diventando uno Stato terrorista».

Per lunghi periodi in isolamento o in celle da 23 metri quadrati con altri 32 prigionieri e un buco a terra come «bagno», Shaath ha descritto i suoi compagni di prigionia: all’inizio attivisti della società civile o membri dei Fratelli musulmani, ma poi le celle si sono riempite di persone arrestate anche solo per un like sui social. «Non posso andare a dormire la sera pensando a migliaia di innocenti egiziani che marciscono all’inferno».

nella foto: il presidente egiziano al-Sisi

* da il manifesto 2022

27 gennaio 2022

«Un vaccino per decolonizzare il mondo»

 Intervista. La scienziata Maria Elena Bottazzi che ha sviluppato il Corbevax, a proteina ricombinante, poco costoso e accessibile a tutti. Da produrre a chilometri zero. Senza brevetto.

di Andrea Capocci *

Maria Elena Bottazzi è la scienziata honduregna (ma chiare origini italiane) che ha sviluppato il vaccino Corbevax insieme a Peter Hotez, con cui collabora al Baylor College e al Texas Children’s Hospital di Houston. I due scienziati non hanno chiesto alcun brevetto sul vaccino, in modo che possa essere prodotto ovunque e accessibile a tutti. I primi a produrlo su scala industriale sarà l’azienda indiana Biological E., ma altri Paesi potrebbero presto seguire la stessa strada. La raggiungiamo via Skype quando a Houston sono le otto del mattino. Disturbiamo? «La mia giornata è iniziata da un pezzo», ride Bottazzi. «Non mi ricordo quante cose ho già fatto».

Professoressa, ci spiega come funziona il vaccino Corbevax?

Per vaccinarsi, il nostro sistema immunitario deve entrare in contatto con l’antigene (cioè la proteina “Spike”, ndr). Invece di portare nelle cellule il codice genetico che lo codifica come nel caso dei vaccini a mRna o in quelli adenovirali, per Corbevax queste proteine vengono prodotte in laboratorio in modo convenzionale. Uno dei metodi più conosciuti è basato sul lievito, come avviene nella birra. Invece dell’alcool, il lievito sintetizza la proteina che poi entra nella formulazione del vaccino.

Perché è considerato un vaccino più «sicuro»?

Sono tecnologie già utilizzate e più conosciute. Si usano nei bambini da quarant’anni. Anche le agenzie regolatorie li conoscono bene. I componenti sono già usati in altri vaccini e se ne conoscono gli effetti collaterali.

Quali vantaggi hanno?

I vaccini prodotti in questo modo si conservano più a lungo e alla temperatura di un normale frigorifero. Le proteine sono più stabili dell’Rna e del Dna. Inoltre, ci sono tante aziende in grado di produrli, mentre la produzione di vaccini a mRna richiede di creare nuovi impianti. Per vaccini come Corbevax l’infrastruttura necessaria è già disponibile.

Nei test clinici il vaccino si è dimostrato efficace nei confronti delle varianti Delta, Beta e Gamma. È efficace anche contro Omicron?

Stiamo aspettando i dati proprio in questi giorni. Credo che l’efficacia sarà abbastanza simile ad altre varianti. Per valutarlo in India, si è esaminata la produzione di anticorpi neutralizzanti che sappiamo essere un indice del livello di protezione dei vaccini, anche se approssimativo. Nei test, Corbevax si è dimostrato statisticamente superiore a Covishield, il vaccino AstraZeneca prodotto in India.

I vaccini Pfizer e Moderna costano più di venti dollari a dose. Il vaccino Corbevax ne può costare due. Perché così poco?

Varie ragioni: le economie di scala, i pochi investimenti necessari, l’assenza di brevetti. Noi non chiediamo soldi ai produttori. Ognuno dei partner del consorzio di ricerca è tenuto a trovare fondi propri per sostenere le attività scientifiche. Inoltre, i componenti del vaccino si possono già comprare a costi bassi e produrre grandi quantitativi di vaccino è facile. Biological E., l’azienda indiana con cui abbiamo già un accordo, prevede di produrre cento milioni di dosi al mese. L’azienda con cui collaboriamo in Indonesia stima numeri simili.

Ha parlato di «decolonizzazione», a proposito di Corbevax. Cosa intende?

Il vaccino Corbevax può essere prodotto laddove serve. Noi ci limitiamo a fornire un cosiddetto «starter kit», con tutti i dati e i report necessari ad avviare la produzione. Ma poi tutto può avvenire a livello locale. Stiamo collaborando con India e Indonesia, ma anche Bangladesh, Botswana e altri Paesi.

Il vaccino Corbevax potrebbe essere prodotto anche nei Paesi ricchi, come Usa e Unione europea?

C’è una domanda anche da questi Stati, per superare la diffidenza nei confronti dei vaccini a mRna. Ma ci sono pochi incentivi economici e molte barriere regolatorie. Servono test clinici che oggi sono difficili da realizzare, perché laddove altri vaccini sono disponibili è difficile trovare volontari. Quindi l’attenzione è soprattutto rivolta ai Paesi poveri. C’è un accordo per distribuire Corbevax anche attraverso il programma Covax, ma prima occorre l’approvazione da parte dell’Oms.

Perché i vaccini a mRna sono arrivati prima degli altri?

Per due ragioni. Creare una sequenza di Dna o Rna è più facile, anche se poi creare la capacità produttiva per produrre miliardi di dosi non lo è. Mettere a punto una proteina ricombinante invece richiede due o tre mesi. L’altra ragione è che i produttori di vaccini a mRna hanno ricevuto tantissimi soldi. Sin dall’inizio le agenzie pubbliche non hanno mostrato interesse per i vaccini a subunità proteica: si è puntato tutto sulla velocità di sviluppo e sull’innovazione, senza porsi il problema della capacità produttiva e della distribuzione dei vaccini. Ora se ne parla come di «vaccini di seconda generazione» ma valutarne l’efficacia è diventato più difficile e costoso e non ci sono più investimenti. Eppure potremmo averne bisogno: non sappiamo se ulteriori richiami con i vaccini a mRna saranno efficaci. Però sappiamo che le vaccinazioni a vettore adenovirale non possono essere ripetute. E che un booster basato su un vaccino proteico dopo un primo ciclo basato su un vaccino adenovirale fornisce un’ottima risposta immunitaria. Nel creare un ambiente di sviluppo di nuove tecnologie vaccinali, investire così tante risorse in poche tecnologie vaccinali è stato un errore.

* da il manifesto – 27 gennaio 2022

23 gennaio 2022

Nuke e gas fonti nocive, la tassonomia «verde» di Bruxelles nella bufera

 Fuori l'Europa dalla scoria. La Commissione di esperti Ue stronca la bozza von der Leyen che vorrebbe classificare come green il nucleare e il gas metano. Lettere incrociate alla Commissione, anche S&D dice no. L’Austria minaccia azioni legali

 di Anna Maria Merlo *  


Lettere e contro-lettere, pro e a sfavore, da parte di stati e gruppi parlamentari europei, minacce di ricorsi in giustizia, pressioni dei lobbisti fino all’ultima ora, denunce delle ong, parere negativo degli esperti Ue, persino forti dubbi da parte di gestori di grandi patrimoni: c’è confusione attorno all’ultima scadenza, ieri, per la bozza della Commissione sull’«atto delegato complementare» che riguarda l’inserimento dell’energia nucleare e del gas naturale come energie di transizione nella tassonomia europea, la classificazione dell’attività economiche giudicate sostenibili che ha lo scopo di indirizzare gli investimenti (la Commissione prevede investimenti annuali necessari intorno ai 520 miliardi per la transizione energetica della Ue).

IL PARLAMENTO EUROPEO È furioso, per il rifiuto della Commissione di consultare i parlamentari sull’ultima stesura e denuncia l’assenza di un’analisi costi-benefici sulle due fonti di energia. Ieri era l’ultima data limite, dopo che la Commissione non era riuscita a trovare un’intesa l’anno scorso e anche la nuova scadenza, il 12 gennaio, era stata sorpassata.

L’EUROPARLAMENTO CHIEDE più tempo. Tanto più, che un ultimo parere di esperti Ue sostiene che l’energia nucleare, pericolosa, non rispetta il principio di «non nuocere», mentre il gas potrebbe passare come energia di transizione, ma solo a condizione di abbassare ancora il tetto permesso di emissioni di Co2. I ministri dell’Ambiente e dell’Energia sono riuniti a Amiens, in un vertice informale organizzato dalla presidenza francese della Ue, e anche qui le divisioni sono all’ordine del giorno.

LA COMMISSIONE DICE che una soluzione sarà trovata «il più presto possibile». La presidente Ursula von der Leyen ha detto qualche giorno fa che le due energie sono «necessarie per la transizione». L’esecutivo di Bruxelles ha ricevuto varie lettere. Una da parte dei presidenti delle commissioni Ambiente e Affari economici del Parlamento europeo. Una dei gruppi S&D, Renew, Verdi e Left che si dicono «profondamente preoccupati dal processo relativo alla tassonomia delle attività durevoli», ma c’è anche una lettera a favore del nucleare. S&D e Verdi si dicono «preoccupati per il crollo del regolamento europeo sulla tassonomia, dove le parole non hanno più senso e dove il meccanismo inizialmente destinato a mettere in atto la regola d’oro per gli investimenti durevoli e lottare contro il greenwashing perde ogni credibilità». Ieri, il gruppo S&D ha proposto di mettere gas e nucleare «in una categoria a parte», non dentro la tassonomia, ma solo come energie che possono temporaneamente contribuire, in casi particolari, a tagliare le emissioni, per rispettare l’impegno di una diminuzione di Co2 del 55% entro il 2030 e della neutralità carbonio nel 2050.

C’È POI UN’ALTRA LETTERA, proveniente da 4 stati, dichiaratamente ostili al nucleare. «Troviamo la nuova bozza problematica – scrivono Austria, Lussemburgo, Spagna e Danimarca – sia dal punto di vista politico che tecnico». L’Austria minaccia un ricorso alla Corte di Giustizia: «nessuna delle due fonti di energia, nucleare e gas, è sostenibile», ha affermato la ministra austriaca dell’Ambiente, Leonore Gewessel. Il Lussemburgo potrebbe aderire alla denuncia. Ma la coalizione di stati contraria non ha i numeri per bloccare la bozza: è necessario un accordo tra il 72% dei paesi (cioè almeno 20), che rappresentino almeno il 65% della popolazione. Più possibilità al Parlamento, che voterà in blocco sul testo e non potrà presentare emendamenti, ma potrà respingere la proposta della Commissione a maggioranza semplice (almeno 353 voti).

I DUBBI ATTRAVERSANO persino i governi, a cominciare da quello tedesco, tra Spd, Liberali e Verdi. «Consideriamo il nucleare una tecnologia pericolosa – ha detto il portavoce del cancelliere Olaf Scholz – ma per il momento il governo è d’accordo sul fatto che abbiamo bisogno del gas naturale come tecnologia di transizione» (ma ora sul North Stream 2 si addensano le nubi della tensione con la Russia sull’Ucraina). Nelle scorse settimane si è parlato di un deal tra Germania e Francia, per far passare sia gas (voluto da Berlino) che nucleare (difeso dalla Francia, con una manciata di alleati dell’est). Martedì Emmanuel Macron è a Berlino, per incontrare Scholz. Il presidente francese, mercoledì nel discorso al Parlamento europeo, ha precisato: «Dobbiamo riconoscere che l’energia nucleare è un’energia decarbonata, il testo della Commissione è buono perché riconosce anche che dobbiamo dare una mano ai paesi che passano dal carbone al gas». Ma anche tra gli investitori ci sono dubbi, «restiamo fortemente contrari all’inclusione del gas nella tassonomia» fa sapere l’Institutional Investors Group on Climate Change, che gestisce un pacchetto di 50mila miliardi.

LE ONG E GLI ESPERTI SONO delusi. Al Club di Roma, la co-presidente Sandrine Dixson-Declève, sostiene che la bozza della Commissione «non tiene conto di 4 anni di analisi scientifiche e finanziarie» e ricorda che la Cina ha escluso il gas dalla propria tassonomia, la Corea del Sud il nucleare e che persino la Russia, pur essendo produttore, sta preparando una tassonomia senza gas.

GREENPEACE PROPONE una consultazione pubblica, «senza, c’è il rischio di un disequilibrio dei voti» all’Europarlamento. Ma la Commissione non ne vuole sapere: «non siamo tenuti». Le lobbies premono: la produzione di Co2 del nucleare nel lungo periodo è uguale all’eolico, dicono gli uni, il gas ha un ruolo importante per rispettare l’impegno di una diminuzione del 55% delle emissioni entro il 2030, dicono gli altri (e chiedono di alzare il limite a 340 grammi di Co2 per kWh mentre la bozza lo fissa a 270).

 nella foto: una protesta anti-nuclearista a Francoforte (Germania)

* da il manifesto 22 gennaio 2022

 

17 gennaio 2022

Taubira, icona a sinistra, si candida alla presidenza in Francia

Christiane Taubira ha annunciato la sua candidatura a Lione

 di Anna Maria Merlo * 

L’obiettivo è dare una scossa alla sinistra, per ottenere una candidatura unica alle elezioni presidenziali. Christiane Taubira, ex ministra della Giustizia di Hollande, che gode di un’aura di «icona» della sinistra, ha annunciato ieri ufficialmente la sua candidatura.

Per il momento, Taubira è solo una candidata di più a sinistra, che conta ormai almeno 8 pretendenti, che si fanno concorrenza per spartirsi non più del 25% degli elettori, mentre nessuno supera attualmente nei sondaggi il 10%. Taubira ha promesso che si sottometterà al verdetto della «primaria popolare», un’iniziativa di un gruppo di cittadini e militanti che farà votare dal 27 al 30 gennaio gli iscritti sul web (sono 120mila) per scegliere tra i diversi candidati. Il problema è che praticamente nessuno dei principali candidati della sinistra accetta la «primaria popolare»: Anne Hidalgo (Ps), che in un primo tempo sembrava favorevole, adesso ha cambiato idea, Jean-Luc Mélenchon (France Insoumise) ha mandato tutti al diavolo, «lottate tra voi e lasciatemi in pace», Yannick Jadot (Verdi) ripete «io non ci sono, l’ho già detto cento volte». Ma i promotori della «primaria popolare» hanno comunque candidato sette pretendenti, tra cui i recalcitranti Mélenchon, Hidalgo e Jadot, accanto a dei semi-sconosciuti (Anna Agueb-Porterie, Charlotte Marchandise, Pierre Larrouturou). La star della «primaria popolare» è Christiane Taubira, che probabilmente arriverà in testa del sistema di voto organizzato sul «giudizio preferenziale»: ogni elettore darà un «voto» a tutti i candidati, da «insufficiente» a «molto bene», passando per «passabile», «abbastanza bene», «bene».

L’accoglienza della candidatura di Taubira ha gettato nello scompiglio i principali concorrenti. Mélenchon, che ha anche difficoltà a trovare i 500 patrocini di eletti, necessari per convalidare la candidatura, è convinto di essere l’unico ad avere la possibilità di arrivare al ballottaggio. Jadot pensa la stessa cosa. Hidalgo si sente messa all’angolo: il Ps è sempre più a pezzi, di fronte a sondaggi che la danno intorno al 4% (cioè al di sotto della soglia minima, il 5%, per ottenere il rimborso delle spese di campagna dallo stato), e già il sindaco di Marsiglia, il socialista Benoît Payan (eletto dalla coalizione del «printemps marseillais») e la presidente Ps della regione Bourgogne, Marie-Guite Dufray, hanno affermato che sosterranno il o la vincitrice della «primaria popolare» (quindi molto probabilmente Taubira). Arnaud Montebourg, ex ministro di Hollande ma «frondista», dovrebbe ritirare la candidatura e schierarsi con Taubira. Il programma dell’ex ministra originaria della Guyana non è ancora ben definito: ieri, nell’ufficializzazione della candidatura a Lione, nel quartiere della Croix-Rousse (nel XIX secolo al centro della lotta dei tessili della seta, ma oggi quartiere bobo), Taubira ha parlato di «collere», di «giustizia sociale», di aumento del salario minimo, di assegno di 800 euro per i giovani universitari per 5 anni, di tasse sui patrimoni superiori ai 10 milioni di euro, ha definito l’ecologia «l’affare del secolo», ma la politica economica promessa è ancora confusa, mentre sull’Europa – uno dei principali punti di discordia tra i candidati di sinistra – l’unica cosa che si sa è che al referendum sul Trattato costituzionale del 2005 aveva votato «no».

Ieri, è stata una giornata calda della campagna elettorale. La candidata di destra dei Républicains, Valérie Pécresse, era in Grecia, per difendere i muri contro i rifugiati. E Marine Le Pen, che già si vede al ballottaggio contro Macron, ha diffuso un video filmato di fronte al Louvre (dove Macron aveva fatto il discorso della vittoria nel 2017): ma il museo ha protestato e ha fatto sapere che la registrazione è stata fatta senza autorizzazione.

* da il manifesto , 16 gennaio 2022

8 gennaio 2022

Talk show politici in crisi di ascolti: “Pubblico saturato da discorsi sul Covid e virologi che giocano con la scienza”

Talk politici in crisi di ascolti. Sarà la fine del sovranismo, sarà l’avvento del governo guidato dal super tecnico Mario Draghi ma il 2021 per i talk show si è chiuso nel peggiore dei modi. I dati Auditel di questa prima parte di stagione (da settembre fino a fine anno) sono impietosi con chi affronta il discorso politico ancora con questo formato. Una disaffezione generalizzata che attraversa titoli e reti, metodi argomentativi più o meno aggressive, modelli di conduzione più o meno facinorosi, anche se sul punto è difficile trovare il meno.

 di Marco Antonellis *

“Questo allontanamento dei pubblici è conseguenza della saturazione di tanti dai discorsi sul Covid-19, da virologi che giocano con la scienza, da chi rappresenta una politica che riunisce tutti i partiti meno uno/due al Governo e li separa nelle dichiarazioni. Un gioco delle parti che sembra più appartenere a logiche di marketing che a convincimenti politici” spiega Francesco Siliato, già docente di Sociologia della comunicazione al Politecnico di Milano e partner dello Studio Frasi.

Ma a dire il vero tutto il consumo di televisione vede scemare i propri spettatori. A parità di giornate nelle ore dei talk show, un anno con l’altro, sono svaniti in media 2,8 milioni di spettatori. Constatare che tutti i talk perdono dimostra che non sono stati in grado di trattenere i loro pubblici, quei pubblici presenti nelle stesse settimane dello scorso anno. I talk insomma non sono resilienti. Ma hanno un costo molto contenuto, difficile rinunciarci anche a fronte di perdite d’ascolto considerevoli. Il problema però è che così fatti non servono nemmeno ai loro scopi essenziali, da una parte informare cittadine e cittadini, dall’altra favorire il consenso. Gli editori broadcaster sono però impreparati all’innovazione, lo sono in generale, figurarsi su un format così conveniente, al punto che anche a fronte di un minor rendimento, hanno aumentato di cento ore la presenza in palinsesto del format talk show.

A perdere più ascolti in termini assoluti, rileva un’elaborazione realizzata dallo Studio Frasi basata su dati Auditel, sono 8 ½ su LA7 (-408.881 spettatori) e Stasera Italia (soprattutto la seconda parte) su Rete 4 (-371.801 spettatori). Nonostante una perdita di ascolti del 19,7% il programma di Lilli Gruber rimane comunque il più seguito ma ha orari diversi e soprattutto una diversa durata. Tra i talk che coprono in tutto o in parte la sua mezz’ora 8 ½ produce comunque un ascolto di oltre mezzo milione di spettatori in più rispetto a Stasera Italia che perde tra prima e seconda parte il 21,44% e il 28,6% dei propri spettatori, una delle peggiori performance in assoluto. Figurarsi quale ulteriore calo d’ascolto avrebbe comportato il paventato arrivo del programma di Lucia Annunziata su Rai Tre nella stessa fascia pre-serale. Tra i programmi con inizio tra le 21:20 e le 21:35 la sfida è tra Di Martedì e Carta Bianca. Si tratta degli unici a superare il milione di spettatori medi in questi primi 91 giorni della stagione 2021-2022. Tra i programmi in tardissima serata male Linea Notte che su RaiTre perde il 15,16% di audience rispetto al 2020. La mattina invece, emorragia di ascolti per Omnibus su LA7 che perde il 25,60% di audience. A questo punto la domanda è d’obbligo: cosa devono fare reti e broadcaster per superare la sempre maggiore disaffezione da parte pubblico?

* da  tpi.it – 8 gennaio 2022

7 gennaio 2022

Aiuti di Stato e gestione autoritaria così sopravvive il nucleare

L'atomo fuggente. Già nel 1986 Forbes lo considerava il più clamoroso fallimento industriale degli Usa. E per questo i grandi partiti motivarono il loro Sì al referendum

di Gianni Mattioli, Massimo Scalia *

I recenti articoli del manifesto sul nucleare non potevano non evocare i versi di Tennyson, rivolti da Ulisse ai compagni ormai vecchi: “… ma può qualche opera compiersi prima. D’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi! … Venite: tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.”

I contributi, come sempre ottimi e abbondanti, vengono infatti da cari amici dei quali il più giovane è in vicinanza di quota 100. E si è di nuovo costretti a parlare di nucleare, dopo la campagna di “distrazione di massa” che Cingolani ha portato avanti per mesi – generazione III+, generazione IV, nucleare “piccolo e sicuro”, fusione “come per le stelle”. In realtà è una cortina fumogena, diffusa da questo appassionato press agent, per nascondere la feroce determinazione dell’Eni a non modificare i suoi asset fondati sugli idrocarburi, ora e sempre, come testimoniano gli obiettivi al 2030: 25% di riduzione delle emissioni climalteranti a fronte del 55% della Ue, 15 Gw di rinnovabili (BP 50 Gw, Total 100 Gw).

Il rilancio della questione ha però percorso tutta la Ue. La Francia è riuscita a tirarsi dietro, nella richiesta di nuovi investimenti sul nucleare come fonte “verde”, oltre a Belgio, Danimarca e Svezia, i pezzentoni di Visegrad con i loro reattori Vver ancora di stampo sovietico. Incombono sulla Francia i costi del fallimento dell’industria nucleare di Stato, Areva, e, peggio dell’ombra di Banco, i costi del decommissioning del surdimensionato parco nucleare francese. Perché non approfittare del Recovery fund? Far pagare alla Ue la grandeur de France, che fa rima con force de frappe, cioè avere la propria bomba atomica. Un capolavoro!

Astuta, poi, la mossa di unire alla richiesta per nuovi investimenti anche il gas. La Germania, infatti, dipende ancora significativamente dal carbone per la sua produzione elettrica e conferma la chiusura del nucleare entro l’anno. Ragionevole, quindi, una transizione a gas – favorita dalle forniture del North Stream 2, il metanodotto del Baltico che bypassa Ucraina e Bielorussia – anche se con un ritardo di almeno trent’anni rispetto a quel che ottenemmo per l’Italia. Insomma, la consueta vicenda complessa delle grandi strategie energetiche, sulla quale è opportuno fissare qualche punto.

Il nucleare è un’industria morente, i cui rantoli vivono di sussidi di Stato e gestioni autoritarie. I tempi e i costi di costruzione sono divenuti incontrollabili, come il caso, a Flamanville, del reattore Epr – sì, quelli che Sarkozy voleva rifilare all’ingenuo Berlusconi, ma ci pensò il “popolo sovrano” col referendum del 2011 – divenuto materia d’intervento della Corte dei Conti francese. E il contratto dell’Edf per il reattore Epr di Hinkley Point costerà al governo inglese, nei prossimi 35 anni, dieci volte di più del solare fotovoltaico. L’industria di Stato, Areva, può caricare il suo fallimento sul Bilancio francese, ma l’AP1000 della Westinghouse, il reattore americano di terza generazione “avanzata” come l’Epr, ha portato alla bancarotta la ditta costruttrice, che ha passato la mano alla Cina, l’unico Paese in cui – vedi sopra – sono entrati in esercizio anche due Epr. Il nucleare copre neanche il 2% dei consumi finali d’energia su scala mondiale e la sua quota di produzione elettrica è scesa dal 17% al 10%: una prospettiva obsoleta, non all’altezza della lotta globale contro il cambiamento climatico.

Del resto, già nel lontano 1986 la rivista Forbes lo aveva configurato come il più clamoroso fallimento industriale degli Usa. Cosa che era arrivata non solo al nostro orecchio, ma, a quanto pare, a quello degli uffici studi dei grandi partiti, quando esistevano, a motivare molto concretamente il loro assai travagliato No al nucleare, cioè il Sì al referendum del 1987.

Last but not least, anche i mitici progetti di IV generazione prevedono miglioramenti soltanto ingegneristici, niente a che vedere con la “sicurezza intrinseca” – qualcuno ricorderà il “Pius” della Asea-Brown Boveri, partito alla fine degli anni Ottanta e mai arrivato, o, qui in Italia, il Mars dell’ottimo Maurizio Cumo, mai sceso in pista. Insomma, il nucleare è vecchio come il cucco o, secondo Giorgio Parisi, “è più vecchio del transistor”. Il dispositivo usato nelle radioline degli anni ’60, ignoto dai quarant’anni in giù.

Il nucleare in Italia “no esiste”, direbbe il Lorenzo di Corrado Guzzanti. Come ha confermato non Cappuccetto Rosso, ma l’Ad dell’Enel, Starace. Qui da noi il problema vero è il gas. La protervia dell’Eni a farci restare nell’era dei fossili ha trovato il suo sacramento nel Ccs, il progetto di sequestro della CO2 nella produzione di idrogeno da metano, da localizzare a Ravenna. Le richieste di finanziamento pubblico sono state battute in Regione Emilia-Romagna, umiliate nella gara Ue e sonoramente sconfitte giorni fa nella sessione di Bilancio. Le Istituzioni elettive hanno saputo raccogliere una mobilitazione, non clamorosa ma efficace. E incombono, ora, 48 progetti a turbogas per un complesso di 20 Gw!

Dopo il cedimento della Commissione Ue alle pressioni orchestrate dalla Francia, la battaglia sulla “tassonomia verde” per nucleare e gas si sposta sugli atti delegati che verranno inviati al Parlamento Ue. Lì lo scontro è del tutto aperto e la punta di diamante saranno i Verdi, ma non mancherà un convinto supporto da tutti coloro che hanno continuato a militare e mobilitarsi in questa grande battaglia.

nella foto: la centrale nucleare di Nogent gestita dalla Edf a Nogent-sur-Seine, Francia

* da il manifesto – 6 gennaio 2022

5 gennaio 2022

Parlamento Europeo: «Maggioranza Ursula a rischio per un abbaglio clamoroso»

L'atomo fuggente. Parla Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al parlamento europeo

di Giuliano Santoro  *

Tiziana Beghin, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al parlamento europeo, giudica l’inserimento del nucleare nella tassonomie Ue un «abbaglio clamoroso». «Questa decisione ci riporta indietro di almeno trent’anni – prosegue – e rischia di rallentare gli investimenti nella produzione di energia solare, eolica e idroelettrica, le uniche fonti infinite, pulite, sicure e non soggette a speculazioni».

Su cosa hanno deciso di puntare con questa scelta?
La Commissione europea scommette sugli impianti nucleari di terza generazione dimenticando però che l’ultima centrale di questo tipo, inaugurata in Finlandia quest’anno, ha avuto ben dodici anni di ritardo e costi triplicati. Inoltre, si propongono depositi geologici profondi per le scorie altamente radioattive che allo stato attuale non esistono in nessuna parte del mondo. A Bruxelles sanno che l’Italia non ha una centrale unica di stoccaggio per le scorie prodotte prima del 1987? I cittadini non le vogliono vicino casa e a loro la politica deve rispondere.

La Germania potrebbe alla fine astenersi, il che esclude che il nucleare possa essere fermato in Consiglio.
Probabilmente hanno vinto altre logiche, difficilmente d’altronde l’atto delegato della Commissione sarebbe stato bocciato in sede di Consiglio dove serve una maggioranza di almeno 20 paesi. Ricordiamo però che la Germania sulle fonti rinnovabili parte un passo avanti rispetto agli altri: nel 2020 infatti hanno superato i combustibili fossili nella produzione di energia e il nuovo governo ha fissato un obiettivo di raggiungere l’80% dell’energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2030

Resta dunque solo la possibilità che il nucleare venga bocciato dal parlamento europeo. Ma come si schiererà la maggioranza Ursula della quale fate parte insieme a popolari, liberali e socialisti?
Su questo tema Ursula Von der Leyen si sta comportando come Meryl Streep nel film Don’t look up: anziché concentrarsi sulla principale minaccia, in questo caso i cambiamenti climatici, asseconda gli appetiti delle potenti lobby del gas e del nucleare. La tassonomia rischia di spaccare la cosiddetta maggioranza Ursula, visto che noi, i Verdi, gran parte dei socialisti e persino i popolari austriaci sono contrari. Il testo così com’è rischia di passare al Parlamento europeo solo grazie ai voti dei sovranisti. Davvero l’Europa è ridotta così male da elemosinare i voti di chi la vuole distruggere? Io penso di no e quindi chiediamo alla Commissione europea di ascoltare le critiche costruttive di chi propone un sistema di classificazione degli investimenti che sia realmente sostenibile.

Ma dal fronte italiano il primo a parlare di nucleare fu Roberto Cingolani, ministro espressione del M5S…
Non mi risulta che Cingolani sia iscritto al M5S, su questo tema abbiamo sensibilità diverse e non lo nascondiamo. Il nostro petrolio sono il sole e il vento, concentriamoci su queste due fonti e sulle politiche di efficientamento energetico come il Superbonus.

La Lega di Matteo Salvini, schierata su posizioni nucleariste, sostiene che anche Luigi Di Maio abbia una posizione ambigua e che il suo personale diplomatico abbia lavorato in concordia con la decisione della Commissione.
Anziché tirare per la giacchetta il corpo diplomatico italiano che onora tutti i giorni la Repubblica tutelando l’immagine e gli interessi dell’Italia nel mondo, Salvini spieghi come mai è pronto a votare un provvedimento europeo che non fa gli interessi dell’Italia visto che non abbiamo centrali nucleari né giacimenti di gas. Il M5S, e Di Maio più di tutti, ha sempre lavorato per rafforzare la transizione sostenibile e non per indebolirla come fa Salvini. Con questa tassonomia rischiamo di finanziare con i fondi europei, e quindi con il contribuito anche degli italiani, le ristrutturazioni di obsoleti impianti esteri che invece andrebbero chiusi. È nell’interesse dell’Italia dunque dire no al nucleare, anche perché i criteri della tassonomia potrebbero determinare quali investimenti verdi scorporare nelle nuove regole del Patto di stabilità. Sarebbe assurdo e paradossale se il nucleare venisse esentato, noi ci batteremo invece per inserire il Superbonus nella golden rule.

* da il manifesto 5 gennaio 2021