30 novembre 2014

I grillini, la casta e l'importanza dei soldi



di Massimo Marino


Aleggia nell'aria l'opinione, ben veicolata dai media, che la questione delle mancate o discutibili rendicontazioni di vari eletti nel M5Stelle, con tutto il contorno di ''dissidenti e talebani''   sia questione del tutto secondaria rispetto ai tanti problemi dell'Italia ( il lavoro, la crisi, le tasse, i disastri, i terremoti, la corruzione  etc.) di cui come è noto i partiti e il governo si occuperebbero dal mattino alla sera, tanto da non dormirci la notte, mentre Grillo e compagni si diletterebbero con simili quisquilie che, come l'astensionismo elettorale, sarebbero ''questioni secondarie'' come dice l'uomo solo al comando ed uno stuolo accondiscendente di professionisti dell'informazione di rincalzo. 

Anche fra quelli un po’ più amici ( da Scalzi a Travaglio) o un po’ meno nemici ( da Mentana a pochi altri ), con qualche eccesso di semplificazione si tende a sottostimare la questione che invece ha molto a che fare con i problemi dell'Italia.


I termini della questione sono, solo apparentemente, noti a tutti. Fin dall'inizio gli eletti grillini nel parlamento italiano, i consiglieri regionali e, credo anche gli eletti in europa detraggono dalla propria indennità mensile e dalle spese accessorie una quota, calcolata in modo un po’ tortuoso, che viene versata in un conto comune, la cui gestione è ovviamente centralizzata, con la finalità di riversarla allo Stato. Il che richiede una voce specifica di entrata nel Bilancio con riferimento al Fondo per le PMI della legge 662/96 , e la stesura dei decreti attuativi per le contribuzioni volontarie, di cui faticosamente si è ottenuta una prima attuazione nell'agosto 2013. Il Fondo verrebbe usato per il sostegno alle  PMI ( Piccole e Medie Imprese), al momento come fondo di garanzia, praticamente un prestito agevolato e garantito dal fondo statale fuori dai meccanismi esosi delle banche, per l'avvio di nuove attività artigianali e produttive. 


Un po’ più di 200 persone riversano quindi approssimativamente da 4 a 5mila euro al mese. A regime si tratta di circa 10 milioni  all'anno dei soli grillini ( che sono appunto i soli a farlo).  Come si può immaginare i partiti nazionali ma ad esempio anche il Crocetta in Sicilia, non muoiono dall'entusiasmo di agevolare il percorso perché a tutti è chiaro che l'autoriduzione grillina è, o meglio doveva essere, solo una tappa di una generale riduzione dei costi della politica e dei sui mille rivoli collegati, dalle società pubbliche ai vertici delle ASL, dal finanziamento dei giornali ai magistrati, dai vitalizi alle pensioni d'oro e d'argento, dai vertici delle forze armate fino ai rimborsi elettorali pubblici ma anche privati. Insomma, dare l'esempio per costringere gli altri a seguirlo: tema che può provocare ulcere, convulsioni e infarti specie nei più stressati e deboli di cuore. Che l'esempio grillino provochi crisi di coscienza non sembrerebbe. Anzi, il giusto e abbondante emolumento è un caposaldo della casta, di destra di centro e di sinistra. 


Nel PD ad esempio, che sembra il più favorito dalla sorte e al momento abbonda di eletti grazie ai miracolosi sistemi elettorali dell'epoca odierna,  si sta diffondendo il vezzo della candidatura multipla e ripetuta. Con eccezionali figure di superuomini e superdonne che, a parte gli incarichi di partito, nel giro di pochi anni si sono candidate e fatte eleggere a valanga al parlamento italiano, in quello europeo, e nel proprio consiglio regionale giusto per assistere da vicino i propri elettori che potrebbero sentirne la mancanza. Con l'inevitabile e tormentoso strascico, avendo tolto le incompatibilità,  di ottenere poi non uno ma due e in qualche caso tre vitalizi oltre a tutto il resto.


Che la questione sia seria e non solo italiana lo dimostra il caso Podemos. I 5 eletti al Parlamento europeo, viziati dalla propria origine nelle piazze di occupy-spagna, hanno deciso di ridurre drasticamente la propria indennità,  sembra a circa 2000 euro. Non mi è noto al momento a  favore di chi ma comunque è una bella botta. Che non solo ha fatto scalpore ( più in Europa che in Italia dove poco se ne parla ) con qualche dissenso fra gli altri, sdegnati dalla  così bassa considerazione del loro prezioso e faticoso lavoro per una Europa unita, tanto che se è vero quanto letto da qualche parte, persino i grillini europei avrebbero qualche problema, un po’ spiazzati , dopo l'alleanza con il divertente Farage, dalla scelta degli spagnoli, che sono meno di un terzo di loro ma li hanno un po’ messi in ombra. 


Tornando a noi, alcuni deputati grillini dell'area ''dissidente'' da alcuni mesi, alcuni anche più di sei mesi, non verserebbero il loro contributo nel conto centrale a ciò devoluto, sembra anche contestandone la gestione, ma mostrando con la pubblicazione in rete dopo mesi e dopo gli ultimi tumultuosi giorni della crisi nel gruppo, di averlo comunque accantonato o in parte devoluto alla Caritas. Nella rissa di questi giorni il rendiconto è stato pubblicato in tutta fretta sul blog di Grillo e cliccando sulle faccine si può vedere il dettaglio di ognuno e poi  la situazione aggiornata . E se tutto fosse  come appare i ''dissidenti'' non ci farebbero una straordinaria figura. Speriamo che prima o poi qualcuno faccia capire ai pochi o tanti interessati come stanno esattamente le cose.


La questione non è da poco. Se ho ben capito, e forse non ho capito come qualche decina di milioni di italiani, c'è una bella differenza nelle due ipotesi. Mentre i versamenti di tutti gli altri sarebbero definitivamente accantonati in un conto comune  e quindi non sono più personali, quelli dei dissidenti resterebbero nelle loro attribuzioni personali, quindi possono essere recuperati, ad esempio nel caso che per diversi motivi decidano o siano costretti a cambiare casacca. E comunque non sono disponibili per il fine ultimo, cioè il versamento periodico di sostegno al microcredito delle PMI. Da quanto si legge è stato dato l'ultimatum a una quindicina di loro di riversarli nel conto comune entro mercoledì. Il loro dissenso sulla democrazia interna, che condivido in pieno, che va argomentato con proposte, anche radicali, se tutto fosse in regola avrebbe qualche credito in più. 


Sperando di sbagliarmi clamorosamente va comunque fatta qualche ovvia considerazione. Se passa il principio che dal dissenso interno, ad esempio sul discutibile metodo con cui si amministra la democrazia interna al movimento ( sul quale penso cose più pesanti e più strategicamente dirimenti forse degli stessi ''dissidenti'' grillini ), scaturisce la libertà di comportamento sulle indennità, il potenziale effetto a valanga della questione credo sia evidente a tutti. Detto in sintesi in breve tempo ognuno si farebbe i cavoli ( e i soldi )  suoi. Un film già visto in altre occasioni negli ultimi decenni.


Verrebbe a cadere la credibilità complessiva di un movimento che ha fatto di questo argomento, e io credo giustamente, uno dei due-tre capisaldi della propria diversità. Per i grillini risulterà impraticabile la presenza sui media, dove ovviamente la signora Gruber, il nostro Giovanni, la signora Huffington e tutti gli altri avranno il pretesto per evitare di chiedere ai grillini di altro: es. dei contenuti della loro proposta sul reddito di cittadinanza che finalmente da gennaio dovrebbe essere calendarizzata per discuterne in aula e di tante  altre cosucce che fanno anche con risultati rilevanti. Ma si attarderanno sui loro dissidi interni ( vedi Rizzetto immediatamente invitato dalla Gruber)  per far conoscere agli ascoltatori con quale formula matematica i grillini calcolano i rimborsi chilometrici per andare al lavoro, che non è una battuta ma una delle fondamentali informazioni che ho avuto da una recente domanda fatta a uno di loro. E naturalmente i nostri politici appollaiati in permanenza sugli sgabelli dei talk show avranno tutti gli argomenti per sostenere che alla fine anche loro sono come tutti gli altri e che casomai Grillo fa bene a buttarne fuori qualcuno tanto .. così va il mondo, quindi, ..continuiamo così. Anche questa non è una battuta ma più o meno quanto ho sentito schiacciando per sbaglio un tasto della TV. 


Sia chiaro che qui non c'è nessuna difesa d'ufficio di Grillo, Casaleggio e del fantomatico staff  sempre meno staff e sempre più fantomatico nelle scelte seriamente importanti del Movimento. Il disastro al parlamento europeo ne è un misterioso e tragico esempio, che può essere rimesso in discussione considerando la riverifica della composizione di tutti i gruppi a metà legislatura. Anche perché i Verdi europei  ad esempio sono un po’ meno scapestrati della volta scorsa vista la evidente crisi che stanno subendo in vari paesi.  


Ciò che preoccupa di più nei grillini non è il dissenso, ma la mancanza di proposte seriamente capaci di proporre una articolata revisione critica delle basi culturali, organizzative, democratiche del Movimento che sono chiaramente ormai del tutto inadeguate ad un gruppo ormai uscito dalla fase nascente ma che non ha le gambe giuste  per diventare adulto. Che è cosa ben diversa  dalla continua e reciproca guerriglia interna o le furberie sui soldi; che provocano odio e rottura della solidarietà di gruppo.

E' noto, specie a chi ha qualche anno di troppo, che il passaggio dal combattere con le armi della ragione e della democrazia i propri avversari esterni, alla aggressività interna al proprio gruppo ha prodotto nella storia recente clamorosi e repentini disastri che poi nessuno, anche volendo, è più stato in grado di arrestare . Sarebbe bene rifletterci sopra un pochino. Va infine aggiunto, poiché non tutti lo hanno presente, che nel caso in cui qualche dissidente desse le dimissioni da eletto queste non verrebbero mai ratificate dall'aula, come già è successo in altre occasioni  perché,  paradossalmente, con i subentranti il gruppo sarebbe quasi certamente rafforzato.


In realtà il vero problema sta però  un po’ più in alto. La mancanza cronica e disperata  di soldi e di autonomia, cioè del potere di autogestire le proprie scelte, come è noto provoca rancore e indifferenza sociale. La mancanza di soldi e di potere provoca infelicità. Ma non è vero il suo contrario: non si è tanto più felici quanto più si è benestanti, magari in modo imprevisto, o potenti o addirittura straricchi. Tant'è che ci sono tanti anche fra questi ultimi che sono infelici a volte fino a togliersi la vita. Una famiglia anche modesta, un impegno sociale gratificante, oppure un legame di affetto o di amore, una sessualità soddisfacente,  possono portare più felicità di un inaspettato aumento del proprio reddito, tant'è che quando li si perde o si allontanano possono determinare, a parità di reddito, grande sconforto. 


Ma nell'impegno politico, dove soldi e potere sono, magari momentaneamente o illusoriamente, a portata di mano, il connubio possibile fra soldi, potere e impegno politico ha un potenziale effetto velenoso che oggi spesso prevale e fa perdere sia il senso della comunità che della solidarietà sociale. Per questo tutta la politica e dintorni va pagata meno. Per certi aspetti è una delle cause preponderanti della crisi della nostra epoca. Per questo, per chi dichiara di tentare un altro modello di convivenza sociale, una coerente attenzione ai comportamenti personali è fondamentale e l'importanza dei soldi e del potere, anche in un piccolo gruppo, non è questione di poco conto perché ci si può perdere l'anima.   
      

La Lega Nord di Bossi & Trota sembrava finita ed è oggi in tumultuosa espansione. Dopo i penosi avvenimenti all'epoca della rielezione del Presidente della Repubblica molti esponenti del PD pensavano di essere agli ultimi atti della sopravvivenza del loro partito e così non è stato. Nel bene e nel male gli italiani sono elettoralmente in una continua e disperata mobilità permanente. E' il prodotto di una rapina di pochi che crea insicurezza o vera e propria crisi in tanti spezzoni della società che si pensavano garantiti.

Anche il M5S ha tutte le possibilità di recuperare la crisi che a mio parere è ben più grave di quella indicata dai sondaggi. Per Grillo, Casaleggio e tutti gli altri però il tempo è scaduto. In questo caso  per sopravvivere e riguadagnare consensi è necessario prima di tutto rimarcare la propria coerente diversità e insieme  la propria responsabile umiltà. 

29 novembre 2014

Esce in libreria ''68 volte ti amo'' il romanzo storico che si svolge nei 12 mesi del 1968



Da oggi inizia ad arrivare nelle librerie  '' 68 volte ti amo '' il romanzo storico che si svolge nei 12 mesi del 1968 
Oltre che nelle librerie , dove può essere ordinato se non disponibile, può essere acquistato via internet presso l'editore FioriGialli 
( www.fiorigialli.it   -  info@fiorigialli.it  -  tel: +39 069639055 )
o anche  richiesto all'autore. A San Mauro Torinese è già reperibile presso la libreria ''Il gatto che pesca'' ( 011 8220998) , nei nuovi locali di fronte alla chiesa di Pulcherada.
Di seguito la prefazione al romanzo.

Note di prefazione

E’ complicato definire e spiegare oggi cosa è 68 Volte ti amo.

 Un racconto esile più che un romanzo, ancora troppo vicini gli avvenimenti per definirlo un romanzo storico compiuto. Ma i fatti che coinvolgono i protagonisti sono rigidamente rispettosi della realtà storica, delle date esatte, a volte perfino dell’ora e, in qualche caso, delle condizioni meteorologiche di quel giorno. Non è una autobiografia individuale anche se non si può negare che parte di quanto descritto ha a che fare con me e con persone da me conosciute. Non è un diario sentimentale o una ricostruzione degli amori giovanili del protagonista, ai quali per un attimo può far pensare il titolo. Insomma, siamo lontani da una versione nostrana di un kamasutra in salsa sessantottina, di cui altri, comunque più bravi di me, hanno già abusato abbondantemente  sulla carta, in tv e al cinema. 

Confesso che la voglia di scrivere, in apparente dissociazione con i tempi delle ricostruzioni ufficiali, l’ho avuta nel 2008, anno del quarantennio, nel quale forse per  l’ultima volta, speriamo, mezzi di informazione, ex sessantottini più o meno pentiti, qualche storico e qualche protagonista un po’ più serio hanno cercato di riproporre, specie a chi nel 1968 non era forse neanche nato, che cosa accadde quell’anno contemporaneamente in decine e decine di paesi del mondo, pur in assenza di mezzi di comunicazione globalizzanti come quelli degli ultimi 20 anni. La decisione definitiva di scrivere qualcosa, nell’anno delle rimembranze un po’ eccessivamente ridicole e demolitrici, l’ho presa quando in una delle tante commemorazioni ufficiali venne introdotta una incredibile sfilata di moda, nella quale,  a cominciare dai pantaloni  "a zampa di elefante", si cercò di descrivere "come ci si vestiva"  nel ’68.

Dunque si può concludere che 68 volte ti amo è un resoconto di avvenimenti, di storie personali, di sentimenti e amori vissuti, di gioie e di tragedie avvenute realmente o con poche trasgressioni alla realtà dei fatti, in una città del nord Italia, nel  nostro paese,  in varie parti del mondo, nel periodo che va esattamente dal 1° gennaio al 31 dicembre del 1968. Un anno suddiviso mese per mese in 12 capitoli, ognuno dei quali è a sua volta suddiviso in tre parti. La veridicità degli avvenimenti storici è stata in poche occasioni ritoccata. Ad esempio una canzone di successo ascoltata su un 33 giri citata nel primo capitolo in realtà fu disponibile su vinile in Italia solo alcune settimane dopo il mese di gennaio. La trasgressione maggiore riguarda però la descrizione degli avvenimenti nelle fabbriche come la nascita dal basso di strutture di delegati di reparto e consigli di fabbrica che in realtà si svilupparono gradualmente, un po’ più lentamente e un po’ più avanti rispetto ai fatti descritti.
Confesso che pur avendo vissuto dall’interno e intensamente quell’epoca, la lettura e la ricerca storica per la stesura del libro mi hanno fatto rivedere alcuni episodi  con una consapevolezza diversa, in genere maggiormente tragica. Ad esempio la inspiegabile carneficina di studenti  compiuta in ottobre a ridosso delle olimpiadi dal governo messicano,  senza che questo mutasse minimamente i programmi olimpici, con il particolare che, fra i circa 500 studenti  circondati e uccisi nella piazza della capitale messicana, i leader vennero identificati e quindi subito seppelliti o bruciati, senza possibilità di riconoscerne e recuperarne i corpi. Anche i fatti di Valle Giulia in marzo, come descritti nell’autentico resoconto di una giornalista dell’Unità  ripreso nel racconto e quelli della repressione dei braccianti siciliani ad  Avola, indicano che il nostro più recente G8 della Diaz e di Bolzaneto ha avuto illustri e scellerati precettori in un ministro dell’interno già più di 30 anni prima.

Sono particolarmente affezionato all’episodio che si svolge in Afghanistan davanti ai due Buddha di Bamyan, oggi noti ai più perché più di trenta anni dopo, nel 2001,  vennero distrutti a cannonate dalla follia dei Talebani.  Quando nel 2008 scrissi la prima stesura di questa storia scoprii curiosamente negli scritti di un archeologo che in vecchi resoconti di un viaggiatore cinese  dell’ epoca  della costruzione delle statue, si parlava anche di un terzo Buddha, nascosto dai monaci buddisti più di 1500 anni fa, per preservarne almeno uno dalla distruzione possibile degli islamici. Nel riprendere nel 2013 lo scritto per una eventuale pubblicazione del romanzo, fino ad oggi pubblicato in bozza solo sul web, per caso ho scoperto che proprio nel 2008 il terzo Buddha, sdraiato, venne effettivamente ritrovato sotto terra, proprio nella pianura prospicente i due Buddha dove in settembre si incontrano Matteo e Valentina,  le due figure più presenti nel romanzo.
Mentre Matteo appare superficialmente il protagonista principale della storia, faticosamente scritta attraverso il suo raccontare al tempo presente, sono le altre figure,  quelle di quattro donne molto diverse fra loro, che suggeriscono una ricostruzione ed una riflessione spero riuscita ed efficace su quanto si esprimeva nel mondo giovanile dell’epoca. In tanti era comune, insieme alla scelta di impegnarsi direttamente in prima persona e senza alcun tornaconto prevedibile dal proprio personale impegno, la partecipazione ad una rivolta collettiva che assumeva nei diversi paesi sfumature diverse. Però sempre contro una società autoritaria, ostile a qualunque vero processo di rinnovamento, poco attenta sia alle libertà comuni che a quelle individuali delle persone. In fabbrica, come nelle scuole, nei paesi capitalistici come in quelli cosiddetti socialisti.  

Valentina, intrinsecamente pacifica e non violenta prova a mettere in discussione  i fondamenti autoritari della società in cui vive attraverso una personale esperienza di autocoscienza intimamente vissuta  e,  con una naturale sessualità disinibita,  resta un po’ staccata  dall’impegno politico diretto. Marta la guerriera già come giovanissima liceale si proietta senza riserve, con evidenti connotazioni massimaliste, nel confronto e nella solidarietà con donne immigrate e quasi sprofondate in una condizione di sottoproletariato nella città delle grandi fabbriche che non ha posto per loro. Giulia, giovane e affascinante immigrata meridionale  ha invece rapidamente acquisito ruolo e sicurezza nell’ambiente di fabbrica dove mostra di muoversi con sensibilità in un percorso di spontanea sindacalizzazione di base e partecipazione alle lotte per i diritti nel luogo di lavoro. Infine suor Angela ricorda come anche negli ambienti religiosi  i sentimenti di giustizia sociale hanno silenziosamente fatto breccia.  

Tutte esprimono magari con inevitabile ingenuità che va perdonata,  una volontà di rimettere in discussione i caratteri autoritari della società dell’epoca. E’ un fatto che solo negli anni  successivi al ’68 alcuni significativi processi di riforma sociale vennero avviati in diversi paesi, in particolare nel nostro.

In fin dei conti si tratta ancora oggi di una scommessa che nessuno è riuscito davvero a vincere. 

Massimo Marino

28 novembre 2014

Diario dal Messico ( novembre 2014 )



Questo “diario” non sarà come altri perché in queste settimane io non mi sento come in altre passate in questo paese, perché il Messico di questi giorni non è il Messico di sempre. E’ molto peggio ed insieme molto meglio.
Quello che ha fatto “traboccare il vaso” – solo adesso penso che in questa nostra espressione il vaso può essere il bicchiere, come significa in spagnolo – sono i fatti di Ayotzinapa, di cui qualche eco è arrivata pure in Italia, anche se mi ha colpito il fatto che per parecchio tempo postando sul sito di Repubblica la ricerca della parola “Messico” quando appariva qualcosa eran sempre notizie assolutamente meno significative. Ayotzinalpa è nello stato di Guerrero, quello in cui si trova Acapulco, già nota località di villeggiatura internazionale. Ma Guerrero è anche lo stato in cui negli anni Settanta si era insediata una delle formazioni di guerriglia più attive ed uno di quelli in cui gli squilibri sociali si sentono più fortemente. Lì – ma molto spesso in questi giorni si usa il termine per moi molto più accessibile di Iguala, dove gli eventi in realtà si sono sviluppati – alla fine di settembre si è svolto un fatto sanguinoso che ora sta coinvolgendo tutto il paese. 

Qui è in atto un massiccio disegno di smantellamento di uno dei settori in cui la rivoluzione aveva lasciato i suoi segni più positivi: il sistema di educazione pubblica. Chi viene anche solo a visitare la capitale non si deve perdere la sede della Secretaria de Educacion Publica, corrispondente più o meno al nostro Ministero dell’Istruzione. Lì tutte le pareti di due vasti cortili sono adornate di murales di Diego Rivera, che rappresentano una visione rivoluzionaria della necessità del cambiamento; fa impressione per noi pensare che in una sede ministeriale si possano vedere scritte che costantemente inneggiano alla ribellione contro le ingiustizie, disegni in cui il popolo insorge contro una classe dominante dipinta come tanti maiali alla Grotz. Non so se presto si deciderà di cancellarli o quanto meno di spostare la sede della Secretaria, ma nel frattempo questo governo sta alacremente lavorando a smantellare pezzi di un sistema che ha fatto dell’educazione un terreno di contraddizione sociale e in cui i progetti di trasformazione hanno trovato spazio, se non altro consentendo l’accesso a strati popolari anche ai livelli più alti. Di questo disegno fa parte il progetto di “riduzione” del Politecnico Nacional, presso il quale io lavoro, a una funzione di formazione puramente tecnica, abbassando sia gli standard culturali che il valore dei titoli di studio conseguiti. Questo per facoltà universitarie – qui il Politecnico, ma non solo Ingegneria ed Architettura come in Italia, ma praticamente tutti i corsi tranne quelli più prettamente umanistici, per cui per esempio anche facoltà di Medicina, Legge od Economia, presenti anche all'Unam, la più grande Università del paese. Contro questo progetto il Politecnico è occupato da ormai più di un mese e non ci sono segni di cedimento; va ricordato che per esempio nel 1999 all’Unam una occupazione contro l’aumento delle tasse universitarie è durata dieci mesi, con una vittoria finale che ha consentito che ancora oggi per iscriversi si paghi un peso a semestre, vale a dire poco più di 5 centesimi di euro.

Della stagione riformatrice messicana fanno parte anche le “Escuelas Normales Rurales” diffuse in tutte le regioni ma sopra tutto in quelle in cui c’è una maggiore persenza agricola e, guarda caso, indigena e tra queste lo stato di Guerrero. La scuola “Normal” corrisponde alle nostre vecchie magistrali, in quanto ha come compito quello di fomare i maestri ed ha un corrispettivo in una facoltà universitaria. La versione “rural”, come suggerisce il termine, tiene conto dello specifico contesto in cui i maestri dovranno insegnare; tradizionalmente questo tipo di scuola ha una presenza di forte radicalità politica. Questo vale anche specificamente per la sede di Ayotzinapa, da cui veniva per esempio Lucio Cabañas Barrientos, maestro ma anche leader della guerriglia. Da questa scuola stavano partendo un gran numero di studenti per partecipare nella capitale alla manifestazione del 2 Ottobre, che ogni anno ricorda la sanguinosa repressione di Tlatelolco, la piazza in cui nel ’68 venne soffocato il sogno di ribellione studentesca, con centinaia di morti. Per raggiungere Città del Messico gli studenti si erano impossessati di pullman, che sono stati bloccati sull’autostrada a Iguala ed è iniziata una mattanza: sei i morti sul posto, ma 43 studenti, tra 16 e 20 anni, sono stati sequestrati dalla polizia e, a quanto sembra, consegnati a un consociata banda militare legata al narcotraffico. Di loro si sono perse le tracce e nei giorni successivi sono state scoperte diverse fosse, con decine di cadaveri, nessuno dei quali però corrispondeva ai rapiti. 

Già questa successione di eventi ha qualcosa di spaventoso, perché se da un lato ovviamente poteva essere ragione di speranza, dall’altra indica quanto sia macroscopico il fenomeno delle uccisioni e della scomparsa di persone. Solo recentemente è stata presentata una verità ufficiale: tre componenti della banda narcos avrebbero confessato di aver eliminato loro i 43 scomparsi, bruciandoli quando alcuni di loro erano ancora vivi e disperdendone le ceneri. Dire che questa versione buzza di bruciato non è solo una battuta di cattivo gusto un po’ macabro, perché sembra che così si voglia chiudere la faccenda. La violenza in Messico è un fenomeno che si può considerare endemico e negli ultimi anni la “guerra sporca” proclamata sotto la presidenza di Calderon ha accellerato il processo di disumanizzazione anche sul piano dell’immaginario collettivo, con cadaveri maciullati, appesi, bruciati esibiti quotidianamente su alcuni diffusissimi giornali quotidiani. La microcriminalità che colpisce quasi esclusivamente nei quartieri poveri, dove non c’è la vigilanza pubblica e privata che per esempio caratterizza il quartiere in cui abito, abitua a una gestione della violenza come qualcosa di inarrestabile e che non si può combattere, perché sui pullmini che percorrono in lungo ed in largo il territorio le rapine a mano armata sono all’ordine del giorno. Così si è voluto dipingere anche questo episodio, come un fattore di (dis)ordine pubblico “regolare”. 

Per fortuna non è stato accettato questo gioco. Da settimane la mobilitazione, partita dagli studenti, sembra inarrestabile. Io stesso ho assitito a molteplici azioni di controinformazione di gruppi che, per strada con minicortei e volantinaggio, come alla stazione del metro, indicavano una indisponibilità al silenzio che è un segnale di speranza. Nello stato di Guerrero  le azioni di protesta sono continue e radicali: in questi giorni sono stati volta a volta occupati l’aereoporto di Acapulco e l’autostrada, è stato dato l’assalto al palazzo di governo statale e le manifestazioni sono quotidiane. Mercoledì scorso vi è stata  una giornata di mobilitazione nazionale, in cui si è svolta nella capitale una manifestazione gigantesca, certamente la più grossa che io abbia mai visto da quando son qui. In quella data anche il Cenlex – isola di continuità del servizio, con la motivazione che a servirsene non sono solo gli studenti del Politecnico ma anche un pubblico generale – è stato bloccato al mattino da un gruppo di studenti che hanno occupato l’ingresso.
Io sono andato con tre amici alla marcia e ne sono stato veramente impressionato. Non solo dalla quantità di partecipanti, ma anche dalla varietà di soggettività che si esprimevano. Credevo che avrei visto sopra tutto studenti ma in realtà c'erano persone molto diverse da organizzazioni sociali e politiche – quasi del tutto assenti i partiti, tranne qualche delegazione di Morena, la recente formazione capeggiata dall’ex candidato alla presidenza Manuel Obrador – a reti di quartiere; ma anche monaci e suore, bande musicali. Davvero un popolo, che scandiva slogan fortemente emotivi. Uno ripeteva i numeri da 1 a 43 – e davvero sembrava di sentir fare l’appello dei ragazzi scomparsi – per poi esplodere in un grido che chiedeva “Justicia”. Uno dei tantissimi striscioni recitava una splendida verità: “Ci vogliono sotterrare, ma non sanno che noi siamo semi che generano alberi”. Sono rimasto così colpito da questa ricchezza di umanità che due giorni dopo, sul lavoro, ho voluto esprimere a tutti la mia solidarietà di straniero verso chi cerca d’impedire il silenzio su questo fatto atroce. “Colpevole è lo Stato” veniva ripetuto continuamente, a ricordare che non si tratta di un episodio confinabile in una singola realtà locale ma che va respinto tutto il disegno di attacco ai diritti, a partire dall’educazione. Dal palco nel comizio finale, dove hanno parlato solo esponenti delle associazioni che hanno dato vita alla mobilitazione –  mi ha colpito che le tre che ho ascoltato ed hanno parlato più a lungo fossero donne – si è ricordato come i 43 scomparsi siano solo gli ultimi di una lunga serie ed un’avvocatessa – che difende esponenti dei “Grupos de Autodefensa de Michoacán”, colpevoli di opporsi ai gruppi narcos quanto alle prepotenze dell’esercito – ha  fatto il numero di 200.000 desaparecidos. Fossero anche la centesima parte di questa cifra si tratterebbe comunque di una realtà inaccettabile, che chiarisce come il concetto di “stato di diritto” venga bellamente ignorato. Più di tutti, già nel corteo e poi sul palco, mi hanno impressionato i famigliari dei ragazzi scomparsi, che marciavano con le foto di ciascuno di loro,con scritto il nome e l’età. Alla mattino erano stati ricevuti nella residenza presidenziale, dove era stato loro offerto un indennizzo economico, che loro hanno con estrema dignità respinto in blocco, ricordando quanto li riempisse di sdegno che si sperasse da loro un sentimento di alleggerimento di fronte alla verifica che i cadaveri scoperti non era quelli dei loro congiunti, perché, hanno detto “tutti questi morti senza nome sono nostri figli”. 

Alla fine della manifestazione un gruppo d’incappucciati ha distrutto una stazione della metropolitana, guarda caso proprio nella Ciudad Universitaria, cuore della mobilitazione. Queste tecniche di provocazione non sono nuove qui come in Italia. Qualche giorno dopo, a conclusione di una marcia sugli stessi temi, un gruppo con le stesse caratteristiche ha incendiato una delle porte del Palacio Nacional, sede presidenziale che si affaccia sullo Zocalo, la vastissima piazza centrale. Più che evidente che sia stata un’azione concordata con le forze del (dis)ordine, che in genere presidiano in modo assai attento tutta l’area, protetta da cavalletti. Una fotografia ha documentato come a poca distanza, senza dare alcun segno di voler intervenire, ci fossero in effetti pattuglie di polizia. Che dunque il tutto serva a cercare di screditare la mobilitazione è del tutto pacifico. Per intanto la polizia si è poi gettata invece sulle tracce di manifestanti pacifici – e come non pensare a Genova 2001? – anche a grande distanza dal luogo in cui era avvenuto l’attacco. Un amico mi ha raccontato di suoi colleghi giornalisti che sono stati pestati ed uno è stato anche arrestato e per un’ora se ne erano perse le tracce. Ho capito ancora una volta perché qui quando qualcuno viene fermato urla il proprio nome e chi è intorno lo invita a farlo se non lo fa di propria iniziativa: il nome di un giovane giornalista è presto girato in rete ed anche ai giornali sono arrivate richieste d’informazione  a suo sostegno. Peccato che la testata, “Reforma” sia decisamente filogovernativa ed ora è possibile che, siccome non era inviato dalla redazione ma solo all’ultimo momento aveva ricevuto l’autorizzazione a seguire la manifestazione quando aveva telefonato al suo posto di lavoro – rischi adesso il licenziamento. Costui mi ha detto che almeno quattro erano i giornalisti che sono ricorsi all’assistenza medica convenzionata, ma probabilmente molti di più sono stati picchiati. Mi ha colpito il fatto che quando gli ho chiesto se del gruppo di suoi colleghi qualcuno avesse segnalato al momento dell’aggressione di essere giornalista, l’unico a farlo sia stato lui, perché non si sa se sia un vantaggio o no segnalarsi, ed in effetti fa dubitarlo ancor più il fatto che lui sia stato quello che ha avuto la razione più pesante di botte.

Come dicevo queste manifestazioni, questa volontà di rompere il muro di silenzio e complicità, mi sembrano l’unico vero segno di speranza in una situazione pesantissima, che non si capisce che esito potrà avere. Anche al di là del destino dei 43 scomparsi, perché credo che ben poche siano le speranze di trovarli ancora vivi.
Di fronte alla ricchezza della risposta sociale in realtà il vero problema mi sembra quello della traducibilità in termini politici, perché non mi sembra ci sia alcun percorso dentro le istituzioni che possa rappresentare queste volontà. Anche se giustamente il corteo a gran voce chideva le dimissioni del presidente del PRI colpisce il fatto che sia il governatore statale che il sindaco di Ayotzinapa, pesantemente coinvolti nella responsabilità di organizzare repressione e complicità tra forze addette alla sicurezza pubblica e bande di narcos, sono del PRD, teoricamente forza di sinistra e unica teorica “alternativa” al governo. In questa “inconsistenza” della politica istituzionale come strumento per rappresentare le esigenze sociali vedo una dimensione di parallelismo tra la realtà in cui sto vivendo e quella italiana. La drammaticità della situazione messicana non spinge più in là le mie considerazioni e per questo questa volta il mio diario non tocca altri temi. Ma mi vien da pensare che anche nel mio paese se pure ci sono finalmente segnali di forte mobilitazione sociale non vedo quali possano essere gli strumenti politici che potrebbero davvero rappresentare il dissenso.

Gigi Viola ( corrispondenza dal Messico), novembre 2014