31 luglio 2018

Alta Voracità


di Marco Travaglio * 

L’aspetto più comico dell’opposizione politico-affaristico-mediatica al governo è che gli rimprovera contemporaneamente di non cambiare nulla e di cambiare troppo. E, delle due critiche, almeno la seconda fa ridere perché gli elettori di 5Stelle e Lega proprio questo chiedono: di cambiare. Sennò avrebbero rivotato Pd e FI. 

Ora, per esempio, i giornaloni scrivono che il Nord sarebbe in “rivolta”, sull’orlo della guerra civile, per la pretesa del M5S di fare ciò che ha promesso agl’italiani fin da quand’è nato: sbaraccare il Tav Torino-Lione, la più inutile e dannosa e costosa fra le grandi opere progettate negli anni 80 del secolo scorso e rimasta allo stato larvale dopo 1,6 miliardi di sprechi e 17 anni di studi e carotaggi. Siccome per completarla servirebbero sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25 (le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%), il minimo di un “governo del cambiamento” è riunire i protagonisti – quelli ancora in vita – e annullare un’impresa nata già morta quando fu pensata, figurarsi oggi dopo trent’anni e passa. Ma il fatto che si osi discutere il dogma della Santissima Alta Velocità semina il panico fra i prenditori e scatena le fake news dei loro giornaloni. La propaganda terroristica del partito-ammucchiata Calce& Martello, che affratella la “sinistra” di scuola Marchionne (il Pd dei Chiamparini), FI, Lega, triade sindacale, Confindustria, coop bianco-rosse e mafie varie, minaccia “penali” da pagare e “miliardi” (2, anzi 3) da “restituire” non si sa bene a chi, nonché “referendum” da bandire contro l’“isolamento del Nord-Ovest”, il “rischio Brexit per l’talia” e altre cazzate.

Il contratto. Nel contratto M5S-Lega, sul Tav Torino-Lione, si legge: “Ci impegniamo a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”. Quindi, quando Salvini dice che “il Tav si farà e basta”, viola gli accordi da lui stesso firmati. E quando il suo sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri (grosso esperto del ramo: 18 mesi patteggiati per bancarotta fraudolenta) spiega che “i costi di uno stop sarebbero superiori ai benefici”, dovrebbe spiegare perché ignora i veri costi dell’opera e perché è entrato in un governo con un programma opposto al suo.

Merci e passeggeri. Quando partì l’idea della Torino-Lione, si pensava a un supertreno per passeggeri sullo snodo italo-francese del Corridoio 5, da Lisbona a Kiev. Di quel progetto, mai realizzato (il primo paese a sfilarsi fu nel 2012 quello di partenza: il Portogallo), restano due reperti archeologici.
E cioè: un tratto di pennarello su un dossier nel cassetto; e un solo cantiere aperto, il Torino-Lione. Infatti, pur di non ridiscutere il dogma, anni fa si virò disinvoltamente dall’“alta velocità” (persone) all’“alta capacità” (merci). Chi, come La Stampa o l’ineffabile Siri, favoleggia di “treno per persone e merci” non sa che dice: il Torino-Lione riguarda solo le merci, mentre le persone viaggiano serene da decenni sul Tgv o su comodi aerei. Il Tav sarebbe una seconda linea ferroviaria da affiancare a quella storica (la Torino-Modane, inutilizzata all’80-90%), scavando 57 km di tunnel dentro montagne piene di amianto e materiali radioattivi e devastando l’intera Valsusa. Il tutto per soddisfare un fabbisogno che non esiste: il previsto boom del traffico merci su quella direttrice si è rivelato una bufala colossale.

Merci fantasma. L’ha riconosciuto a fine 2017 persino l’Osservatorio della Presidenza del Consiglio: “Molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Ue sono state smentite dai fatti”. Sulla Torino-Modane i treni merci viaggiano carichi di container perlopiù vuoti. La linea è utilizzata per un quinto delle potenzialità: che senso ha affiancargliene una nuova? Anche l’aumento dei Tir nel traforo del Fréjus è una panzana: nel 2017 l’hanno attraversato 740mila mezzi pesanti, stessa cifra di vent’anni fa. Come ha scritto sul Fatto il professor Francesco Ramella, “l’attuale capacità disponibile è sovrabbondante e sarà ulteriormente incrementata a breve con l’apertura al traffico della seconda canna del traforo stradale del Fréjus. Anche qualora l’attuale ripresa dovesse proseguire, non si verificherebbero criticità per almeno mezzo secolo. Ogni giorno percorrono l’autostrada tra Torino e il confine francese poco più di 11.000 veicoli contro i 33.000 della Torino-Piacenza: si tratta dunque di una infrastruttura poco utilizzata”.

Ce lo chiede l’Europa. Secondo Aldo Grasso, ottimo critico televisivo del Corriere di cui si ignoravano (e si continuano a ignorare) le competenze in materia di Tav, questa “è una delle opere più importanti che l’Europa aspetta da anni”. Nell’ambito di una non meglio precisata “piattaforma logistica del Nord Ovest”. Ma – come spiega non il movimento No Tav, ma il sito lavoce.info, molto apprezzato quando c’è da difendere il fondatore Tito Boeri – “la Commissione Ue non ha mai chiesto che l’attraversamento delle Alpi avvenga su una linea ad alta velocità: sia a Est sia a Ovest le merci possono tranquillamente continuare a viaggiare su reti ordinarie, come da Lione a Parigi”.
L’occupazione. Alta velocità, bassissima occupazione: le previsioni più rosee indicano 4 mila nuovi occupati. Visto quanto ci costerebbero pro capite (in soldi e in danni ambientali stimati dall’Agenzia nazionale per l’ambiente francese e dai migliori atenei italiani), è molto più conveniente mandarli a spaccare pietre e poi a reincollarle.

I costi. La delibera 67/2017 del Cipe (governo Gentiloni) stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi. Di questi, il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (disparità incredibile, tantopiù che il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano, e spiegabile solo con l’ansia di convincere Parigi, da sempre renitente all’impresa). Non solo: la delibera Cipe autorizza la spesa dei 5,5 miliardi per 5 “lotti costruttivi non funzionali” del tunnel di base che, presi singolarmente, sono inutilizzabili se non a opera ultimata. Lavori inutili in caso di revisione o annullamento dell’opera. Infatti il Cipe avrebbe potuto finanziarli solo se anche la Francia avesse stanziato la sua quota: cosa che Parigi non fa, né si sa se e quando la farà. Dunque la delibera è in forte odore di illegittimità.

Penali e restituzioni. Stampa, Repubblica, Corriere e Grasso vaneggiano poi di “penali”, “multe” e “restituzioni” miliardarie. Anche se avessero ragione, varrebbe comunque la pena sborsare 2 miliardi per risparmiarne 10 o 20. Ed è curioso che tutti s’interroghino quanto costerebbe non fare il Tav, e mai su quanto costerebbe farlo (l’operazione al completo, per i docenti Andrea Debernardi e Marco Ponti, produrrebbe una perdita economica di 7 miliardi, che salirebbe a 10 con le lievitazioni all’italiana). In ogni caso, non è vero niente. Non c’è un solo contratto o accordo col governo francese, con l’Ue o con ditte appaltatrici (per il tunnel di base non è stata bandita alcuna gara) che parli di penali. L’Italia, nel tracciato italiano, può fare ciò che vuole. La legge 191/2009, art. 2, comma 232 lettera c prevede che “il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto alla Ue, finanzia solo lavori ultimati: dunque, se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro, al massimo non incassa fondi per un’opera annullata. Quando il Portogallo si sfilò, non sborsò un cent alla Spagna né all’Ue. Idem la Francia: si finge interessata al Tav, ma ha sospeso i cantieri sulla tratta nazionale (anche per i fulmini della Corte dei Conti) e per quella internazionale – il tunnel di base – non ha mai erogato i finanziamenti (come l’Ue). Senza l’ombra di una penale. 
I fessi che prendono sul serio la patacca stanno tutti Italia (“prima gli italiani”, direbbe Salvini). Se avessero intascato tangenti e temessero di doverle restituire, almeno li potremmo capire. Ci facciano sapere.

* da ilfattoquotidiano – 31 luglio 2018

30 luglio 2018

Lega e PD si oppongono sui migranti. Ma vanno d’accordo quando si parla di petrolio



Due flussi importanti scorrono dall’Africa all’Europa, da Sud a Nord. Il primo flusso porta persone a decine di migliaia, almeno un milione di migranti provenienti dall’Africa subsahariana a partire dal 2010, il secondo flusso porta idrocarburi, sia gas che petrolio per il valore di circa 50mld di dollari al mese (cifre del 2017).

Le sinistre neoliberiste europee (tipo Pd) e le destre nazionaliste (tipo Lega) hanno opinioni molto diverse sulla gestione del flusso dei migranti e sull’accoglienza, ma hanno lo stesso approccio sul flusso di petrolio (così come sul flusso di altre risorse naturali). Neoliberisti e nazionalisti hanno in comune una sostanziale indifferenza rispetto all’interazione tra flussi di materie prime e movimenti migratori. La storia suggerisce invece che i popoli africani hanno tratto alterni benefici dal flusso delle risorse naturali del continente africano, con ricadute importanti anche sui movimenti migratori.
I movimenti nazionalisti prevalenti in tutti gli stati postcoloniali africani fino agli anni 70 sono riusciti ad imporre alle società straniere il controllo statale sulle risorse naturali

La produzione di petrolio, per esempio, è stata nazionalizzata per la prima volta in Algeria nel 1971 e poi nel resto dell’Africa (così come nel resto del mondo). Il controllo sull’industria petrolifera, combinato con l’aumento dei prezzi delle materie prima negli anni 70 ha giovato alle entrate statali e all’occupazione. A sua volta ciò ha favorito una stabilizzazione dei flussi migratori dall’Africa (la maggior parte dei movimenti migratori dopo il 1973 prese la forma di ricongiungimento familiare).

Flussi migratori non controllati sono invece ripresi dalla seconda metà anni 80 insieme all’esplosione del debito pubblico, alla diminuzione repentina dei prezzi del petrolio (il “controshock”) e all’imposizione di politiche di “aggiustamento strutturale” che hanno indebolito la capacità degli Stati africani di sostenere una popolazione in crescita.
Il legame esistente tra flussi di petrolio e flussi migratori è stato riconfermato anche di recente. Il flusso dei migranti da un Paese esportatore di petrolio come la Nigeria verso l’Europa si è impennato a partire dal 2014, insieme alla dimezzamento al contemporaneo dimezzamento dei prezzi del petrolio. In generale, il processo di globalizzazione neoliberista a partire dagli anni 80 ha generato due tipologie di effetti negativi sul flusso di idrocarburi, e di riflesso sui movimenti migratori.

Il primo è stato un’inversione del rapporti di forza tra Stati e capitalismo internazionale che ha aiutato le società multinazionali a corrompere, aggirare regole, approfittare della debolezza e dell’impreparazione delle burocrazie statale, facendosi scudo di un diritto internazionale strutturalmente favorevole agli investitori privati.
Nel caso dell’Italia questo è dimostrato dagli episodi di corruzione di Eni in Algeria e in Congo, fino al caso clamoroso delle “madre di tutte le tangenti” di 1,2 miliardi di euro per il giacimento Opl 245 in Nigeria. Queste tangenti monumentali servono ad ottenere condizioni, non solo fiscali, a tutto vantaggio delle imprese multinazionali e a discapito degli interessi di breve e lungo periodo delle popolazioni locali.

L’altro effetto deleterio è stato l’instabilità dei prezzi internazionali delle materie prime, in particolare del petrolio. Dagli anni 80 le oscillazioni di prezzo sono state molto più repentine che in passato. Il prezzo del petrolio, una volta monopolizzato dalle multinazionali e poi dall’Opec, non ha più avuto punti di riferimento (è scomparsa una “struttura del prezzo”). Queste oscillazioni distruggono la capacità degli Stati produttori di pianificare e di investire, e hanno come conseguenza cicli di arricchimento rapido, seguiti da fasi devastanti di immiserimento.

Qualsiasi politica dei flussi migratori che non prenda di petto anche la regolazione del flusso delle risorse naturali poggia su fondamenta fragili. Alcune soluzioni, in parte già pensate dalla stessa Comunità europea (oggi Ue) negli anni 70, opportunamente ripensate, potrebbero tornare utili. La prima soluzione è che l’Ue promuova accordi statali di lungo periodo per la fornitura di materie prime, non solo di idrocarburi.
Per fare questo i Paesi Ue dovrebbero creare delle società totalmente pubbliche (quelle private non si fanno dettare i termini commerciali) che firmino contratti di lungo periodo per la fornitura di varie risorse naturali. In alternativa l’Ue potrebbe favorire la creazione di un meccanismo che stabilizzi i redditi dalle esportazioni di risorse naturali e minerarie dei paesi africani (come aveva già fatto, sia pur in modo incompleto, negli anni 70 con l’introduzione dello Stabex e del Sysmin). L’idea sarebbe quella di convertire gli aiuti allo sviluppo (che hanno condizionalità politica, e dunque sono meno allettanti degli aiuti cinesi) con misure strutturali che garantiscano continuità di reddito ai Paesi africani e capacità di pianificare il proprio sviluppo.

Per regolare i flussi di risorse naturali tra i due continenti servirebbe anche un quadro di regole che scoraggi l’arbitrio delle società multinazionali. Ue e Unione africana potrebbero stabilire un “codice di condotta per gli investimenti” che tra l’altro impedisca il controllo da parte di società straniere di quote maggioritarie dei giacimenti, che imponga studi fattibilità ambientale e blocchi il “rimpatrio” dei profitti ottenuti in Africa.
Per impedire che l’ipnosi collettiva per ogni sbarco di migranti si trasformi sempre di più in razzismo diffuso bisogna offrire alternative radicali di cooperazione politica ed economica a lungo termine tra i due continenti. Se non superiamo il dogma europeo del libero commercio e della protezioni degli investimenti privati come unica soluzione alle questioni dello sviluppo una cooperazione di lungo periodo non ci sarà mai.

* Storico, esperto di politiche energetiche
 da ilfattoquotidiano  - 30  luglio 2018

19 luglio 2018

Il mercato del corpo delle donne


di Alessandro Graziadei *

 “Smettiamo di fingere che queste ragazze siano apparse dal nulla. Smettiamo di fingere che non ci sia una chiara e riconosciuta catena di sfruttamento delle donne. Queste ragazze vengono da qualche parte. E noi sappiamo da dove”. Con queste parole suor Annie Jesus Mary Louis, delle suore francescane missionarie di Maria (Fmm), ha denunciato la struttura logistica dietro la tratta di esseri umani. L’occasione per questa sua testimonianza è stata la conferenza “Preventing Human Trafficking among Rural Women and Girls: Integrating Inherent Dignity into a Human Rights Model”, tenutasi il 13 marzo nella Sala Conferenze del quartier generale dell’Onu, a New York. Suor Annie è una persona "informata sui fatti" semplicemente perché lavora in una zona rurale dell’India centrale, nel Chhattisgarh, fra le popolazioni tribali di un’area che, insieme a molte altre zone rurali dell’Indocina, è l’origine della catena di approvvigionamento del commercio sessuale. Ha collaborato per anni con Ong impegnate nella lotta contro la tratta degli esseri umani, sforzo che nel 2016 le è valso il riconoscimento del governo indiano come “Miglior operatrice sociale”. 
Non siamo davanti ad un caso isolato. Le popolazioni in molte zone povere dell’Asia non hanno istruzione, accesso alle cure sanitarie e a molti altri servizi pubblici di base. I trafficanti sanno che i genitori dei bambini in un contesto di ignoranza e povertà sono facili da imbrogliare, e a volte così disperati da vendere spontaneamente i loro figli. “Miei cari amici, - ha spiegato suor Annie all’Onu -  sono qui per dire che queste donne e ragazze non si sono svegliate un giorno e hanno deciso di spostarsi in città per entrare nel giro della prostituzione. Sono state manipolate e convinte con l'inganno a lasciare le loro case. La nozione di libertà di scelta qui è un’illusione”. Per suor Annie, quindi, “Lo sfruttamento spesso minorile del sesso è solo un grande business. Ed è governato dagli stessi principi di qualsiasi altra attività commerciale: domanda e offerta”. Se hai un prodotto qualcuno compra e qualcuno vende anche se il prodotto è l’accesso sessuale a un altro essere umano. Di fatto, oggi, la tratta di giovani donne esiste perché “ci sono molti uomini - giovani, di mezza età, vecchi - che vogliono i loro servizi. La vera soluzione è la conversione dei cuori, tagliare la domanda e prosciugare il mercato”.
Per suor Annie però “non si sta facendo abbastanza per impedire che queste ragazze vengano vendute” e all’Onu ha lanciato un invito ad agire, per combattere le catene di approvvigionamento dello sfruttamento sessuale con serietà visto che “I lavori di prevenzioni in zone come la mia sono quasi inesistenti. Queste famiglie hanno bisogno di accompagnamento amorevole. Hanno bisogno di opportunità. Hanno bisogno di sentire che la società ha cura di loro”. Una situazione non diversa da quella che esiste in molte zone della Cambogia. Qui accanto allo sfruttamento della prostituzione è drammaticamente attuale il ricorso allo sfruttamento di genere per fini commerciali attraverso la maternità surrogata. Nonostante questa pratica sia illegale dal 2016, la Cambogia resta una destinazione popolare per le coppie sterili per lo più cinesi che cercano di avere figli e lo scorso mese le Forze di sicurezza di Phnom Penh hanno scoperto 33 donne cambogiane che portavano in grembo bambini per conto di clienti disposti a pagare migliaia di dollari Usa. Per Keo Thea, direttore dell'ufficio anti-tratta di Phnom Penh, “Le autorità hanno già incriminato le persone fermate per tratta di esseri umani ed intermediazione in maternità surrogata” mentre le donne incinte, come spesso accade, sono le prime vittime di questo commercio e “al momento non dovranno rispondere di alcuna accusa”.
Come ha spiegato Thea normalmente ad ogni mamma “vengono promessi 10mila dollari Usa”. Una volta incinta, ciascuna donna riceve 500 dollari e dopo il parto e la consegna del bambino, i termini dell’accordo prevedono 300 dollari al mese, fino al raggiungimento della cifra pattuita, che raramente però viene saldata. La rete criminale aveva già portato a termine 20 gravidanze e anche se non vi sono dati ufficiali sul numero di bambini cinesi partoriti da madri surrogate, gli esperti affermano che ogni anno nella sola Cambogia è possibile siano circa 10.000. Paesi come Thailandia e India impediscono già da alcuni anni agli stranieri di accedere ai servizi di maternità surrogata commerciale in seguito a una serie di scandali e conflitti sulla custodia dei neonati, per questo le agenzie di maternità surrogata si sono spostate con rapidità nella vicina Cambogia, che solo tre anni fa ha vietato un business che ancora oggi continua illegalmente

Negli ultimi mesi il mercato della maternità surrogata sembra essersi spostato in Laos, un Paese al momento ancora senza restrizioni in materia. Le autorità laotiane solo un anno fa avevano ordinato la chiusura di una clinica della capitale Vientiane accusata dello sfruttamento di alcune donne thailandesi per servizi illegali di maternità surrogata per coppie sterili. La clinica, che offriva “servizi di consulenza” a ricche coppie e donne incinte, è ancora oggetto delle indagini dei reparti della polizia nazionale con l’accusa di "tratta di esseri umani". Le autorità thailandesi hanno cominciato a sospettare che la clinica di Vientiane fornisse servizi di surrogazione transfrontaliera in seguito ad alcuni arresti eseguiti tra l’aprile e il maggio del 2017. Da tali fermi è emersa l’esistenza un traffico internazionale di liquido seminale, ovuli e madri surrogate diretto in Laos e, si suppone, alla clinica incriminata un anno fa. In attesa di una legislazione che definisca il tema della maternità surrogata anche in Laos, il ministero della Sanità continua a vietare qualsiasi pratica di fecondazione artificiale e ha comunicato l’intenzione di costituire una specifica unità per impedire che cliniche ed agenzie offrano tali servizi, spesso a scapito di donne e madri non sempre al corrente del loro ruolo in questo autentico mercato del corpo delle donne.
 
* da www.unimondo.org , 13 Luglio 2018 - foto: Avvenire.it

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