29 ottobre 2020

Perché la Cina tiene a bada il Covid? Un riminese a Shanghai la risposta ce l’ha

 Lasciamo da parte il tema di chi abbia aperto la strada alla pandemia che nel mondo registra 38 milioni di casi e più di 1 milione di morti. Sorvoliamo anche sul dibattito che vede molti osservatori indicare nell'autoritarismo la via maestra dei risultati ottenuti. Ma è indubbio che da quella parte del mondo non sta accadendo quello che si vede in occidente, ancora alle prese con numeri allarmanti di contagi in risalita. Filippo Gamberini, general manager di un'azienda romagnola, spiega cosa sta toccando con mano: un ferreo rispetto delle regole, il senso di responsabilità dei cinesi che si fidano del governo e delle misure, seppure da subito drastiche, adottate. Oltre alla tecnologia applicata al contact tracing.


Sono le undici del mattino in Italia, quando chiamo Filippo Gamberini (nella foto) con messenger, all’incirca le cinque del pomeriggio a Shanghai, città dove lui vive e lavora e dove non vedeva l’ora di tornare, pur conoscendo la severa procedura che il governo cinese ha imposto a chiunque voglia tornare in patria: certificato che attesta il risultato negativo del tampone nel paese di provenienza, quindi un secondo tampone una volta messo piede su territorio cinese, quattro i checkpoint ai quali vieni sottoposto tra “interviste” e controlli sanitari, coi quali il governo cinese scongiura nuovi focolai e il rischio che arrivi una nuova ondata dall’estero. Per concludere 14 giorni in quarantena in una stanza d’albergo in cui ti viene quotidianamente misurata la temperatura. Il tredicesimo giorno, quello prima di uscire, devi sottoporti ad un altro tampone.
“Nessun “miracolo” cinese e nessuna limitazione della libertà. Piuttosto un grande senso di responsabilità da parte degli abitanti della Cina. Qui l’azzeramento dei contagi è la naturale conseguenza dell’uso quotidiano di precauzioni e del tracciamento degli spostamenti degli abitanti fin dall’inizio dell’epidemia”. Racconta Filippo che a Shanghai è General Manager per la “Davi Promau”, azienda romagnola leader nella costruzione di calandre industriali. Ma Filippo è anche un amico di vecchia data.
Mi dice che è partito a fine luglio da Milano ed è atterrato a Nanchino, capitale del paese all’epoca della dinastia Ming e meta da visitare, quando potremo tornare a viaggiare senza restrizioni. Nanchino dista 300 chilometri da Shanghai. Prima di poter varcare la soglia dell’appartamento in cui vive, nella ribattezzata “Parigi d’oriente”, Filippo ha quindi dovuto rispettare la procedura di sicurezza che, stando alle notizie che ci arrivano dalla Cina, risulta molto efficace. In questi giorni tutti si stanno domandando come mai la Cina non registri nuovi casi di Covid-19 e il resto dell’occidente stia, al contrario, vivendo l’incubo della risalita dei contagi e dei ricoverati in terapia intensiva.
Per chi immagina che il successo della Cina nella gestione dell’epidemia sia dovuto a violazioni della libertà personale da parte del governo cinese si sta sbagliando. Di questo Filippo, da 11 anni in Cina e ormai perfetto conoscitore della lingua e della cultura cinese, ne è testimone.
“Gli abitanti della Cina semplicemente mettono al primo posto la loro salute. Sanno che ogni iniziativa del governo serve per aumentare il loro benessere e per rendere la Cina il primo paese al mondo, in ogni settore. E’ molto cambiata la qualità della vita. Per gli abitanti decisamente in meglio. Che differenza… credere in chi ti governa sembrerà fantascienza. Se domani si andasse al voto, il 90% voterebbe ancora Xi Jin Ping.”

Questo spiegherebbe che da voi si è già tornati ad una quasi normalità mentre da noi c’è un aumento costante dei contagi con la necessità di dover adottare nuove misure di restrizione.
“Guarda, il Covid-19 è un virus che qua conoscevano già all’inizio di gennaio di quest’anno. Dal momento in cui si è sparsa la notizia della presenza di questo nuovo virus, forse anche perché memori di ciò che provocò la Sars, la gente ha cominciato ad indossare da subito la mascherina per evitare i contagi. Tuttavia, per la sua diffusione così veloce il lockdown è stato inevitabile.”

Anche oggi leggo sui principali quotidiani di un “miracolo cinese”, ma mi pare di capire che non si tratti di questo. I cinesi sono stati più attenti?
“Esatto è questo il motivo, ma ancora non tutti ci credono, e ormai noi (italiani trapiantati in Cina, ndr) siamo stanchi di doverlo spiegare a tutti quelli che credono in chissà a quale scenario ci sia dietro. L’unico motivo per cui la situazione è migliore rispetto agli altri paesi deriva solo ed esclusivamente dal senso di responsabilità della gente che si fida del governo e delle misure, seppure da subito drastiche ma inevitabili, adottate.”

Filippo ricordo che tu sei tornato dalla Cina prima che ci fosse il lockdown in Italia.
“Per stare vicino alla mia famiglia. Sono partito dalla Cina il 22 gennaio. Perché ancora non si sapeva come si sarebbe evoluta l’epidemia. Ma quando sono atterrato non mi hanno fatto controlli. E così nemmeno agli altri viaggiatori. Forse se si fossero adottate più precauzioni, visto che il governo cinese non ha mai taciuto la propria preoccupazione per la diffusione del coronavirus, si sarebbero potuti limitare i danni. Ti ripeto, la Cina non ha mai nascosto nulla. I governi asiatici che sono i più stabili sono quelli che hanno risposto meglio all’emergenza.”

In molti ritengono che indossare la mascherina sia anche dannoso per la salute. Ci sono molte polemiche da parte di alcuni cittadini che addirittura ritengono alcune scelte del governo una vera e propria “dittatura sanitaria”. Tu che cosa ne pensi? Come hanno interpretato le misure di contenimento del contagio da voi?
“Vedi, qua c’è la cultura della mascherina. Se qualcuno ha la tosse o un raffreddore, per rispetto verso gli altri indossa la mascherina. Soprattutto in treno, in metropolitana, nei luoghi affollati.”

La mascherina è uno strumento utile. Ma i lockdown? Come sono stati gestiti in Cina?
“Le zone sono state chiuse e riaperte gradualmente: prima non si poteva uscire dal distretto, poi dalla città, quindi dalla provincia. La loro riapertura è stata graduale fino a maggio.”

In Italia ancora in tanti non hanno scaricato Immuni. In Cina esiste un’applicazione che traccia gli spostamenti?
“Certo ed è stato un vantaggio avere già un’applicazione integrata in Alipay. Alipay è una piattaforma di pagamento online. Utilizzi il cellulare per tutti i tuoi pagamenti. Io ho eliminato carte e contanti per comodità. Grazie a questa applicazione veniamo sempre tracciati. E i cinesi non la ritengono di certo una violazione della privacy ma uno strumento importante e utile ad evitare che si diffonda ancora una volta il virus. Personalmente ritengo sciocco che in Italia si utilizzi senza alcun problema Facebook, Instagram e poi ci si lamenti del fatto che un’applicazione come Immuni possa violare il tuo diritto alla privacy. Credimi, io sarò troppo pragmatico, ma le regole qua si rispettano e questo controllo che i cittadini cinesi ritengono giusto lo rendono il paese più sicuro in cui io abbia mai viaggiato. E intendo anche come sicurezza personale, la criminalità in molte zone non esiste, per ragioni sia culturali che per la gestione della sicurezza, ma questo è un altro discorso. La gente da fuori immagina un “Grande Fratello” cinese che controlla la vita delle persone. La sensazione impagabile è quella di camminare liberamente di notte o di giorno, ovunque, che tu sia uomo, donna, bambino o anziano.”

Ho letto che c’è stato il national day, una settimana di festa nazionale dal 1 al 7 ottobre. E’ stata un po’ la prova del nove anche per la Cina, visto il numero di abitanti…
“…ed è stato tutto molto sicuro. Se tu vuoi viaggiare dentro la Cina devi usare il codice verde che hai installato nell’applicazione. Quello certifica che se sei stato i 14 giorni precedenti in una location sicura.”

Cioè? Spiegami bene. Come funziona la vostra applicazione?
“Ad esempio, io al momento ho il codice verde per l’area di Shanghai che certifica: 1) che per girare dentro Shanghai e nei locali pubblici a Shanghai non ho problemi 2) che non sono passato in zone a rischio negli ultimi 14 giorni. Se domani volessi prendere un volo per Pechino, domani al check-in e prima di salire in aereo, mi chiederebbero di cambiare la location della app da Shanghai a Pechino e ricevere il corrispondente codice verde.
Se fossi nel distretto o nella città dove c’erano degli infetti nella provincia dello Yunnan (nell’entroterra) due settimane fa, l’app segnalerebbe il codice rosso e dovresti rimanere a casa in attesa del tampone. In ogni caso il risultato arriverebbe in 2 o 3 giorni. Così, hanno tracciato tutti fin dall’inizio ed hanno ridotto di molto anche il rischio degli asintomatici, perché hanno eseguito molti tamponi, ma mai a caso. Solo nei soggetti a rischio! Il punto non è avere il 100% di sicurezza, che nella vita è impossibile per ogni situazione, ma ridurre il rischio dei contagi.”

E nei locali pubblici vale lo stesso?
“Esatto. Per entrare in qualsiasi locale ti misurano la temperatura ma mostri anche il codice verde. La distanza di sicurezza non è possibile in Cina perché sono talmente tanti gli abitanti che il metodo più sicuro è comunque l’utilizzo della mascherina. E comunque qua la gente fa molta attenzione. Senza codice verde non puoi entrare neppure sui mezzi pubblici, in metropolitana ad esempio. Solo per farti un altro esempio: a Novembre ci sarà la fiera CIIE che è la più importante fiera dell’anno Shanghai, Import Export. Xi Jin Ping la promuove e la inaugura come ogni anno. Le misure di sicurezza per una settimana all’anno a Shanghai sono incredibili. Inoltre, per entrare occorre portare il test del tampone negativo di 7 giorni prima dell’inizio della fiera. Codice verde ovviamente sempre. Mascherine all’interno ovviamente indossate sempre. Per 14 giorni dovrò autocertificare che non ho sintomi e dovrò riportare la mia temperatura su un documento ufficiale. Ogni stand verrà inoltre disinfettato ogni giorno.”

Nelle scuole come sta andando?
“Come in Italia, gli studenti usano le mascherine e c’è una distanza di sicurezza tra i banchi.”

Ricordo che con la chiusura delle scuole a febbraio, in Italia, tante famiglie hanno raggiunto mete turistiche e pare che sia stato proprio questo uno dei motivi che ha fatto scoppiare altri focolai. E’ probabile che ancora non immaginassero le conseguenze, ma chiudere le scuole doveva essere un modo per limitare i contagi.
“Tu pensa che durante la settimana di vacanza nazionale, chi aveva i figli a scuola, pur con tutti i controlli e le regole che abbiamo oggi per evitare contagi, ha potuto viaggiare solo all’interno della propria città. Fai conto che Shanghai ha un raggio di 100 chilometri. Nessuno ha protestato ma ha compreso quanto fosse importante salvaguardare la propria salute. Oggi la vita dei cinesi è tornata quasi alla normalità. Certo, la crisi si è fatta sentire. Ogni anno c’era una crescita del 10% oggi il mercato cinese crescerà dell’1%. Ma all’orizzonte non ci sono segnali di un’altra ondata e siamo tutti più ottimisti.”

Filippo abbiamo fatto tardi, ma toglimi una curiosità: cosa ne pensi di chi protesta perché contrario alle misure che vuole adottare il nostro governo e all’utilizzo della mascherina?
“Con il rispetto delle regole la Cina è riuscita a contenere il virus. Ed ora la gente può condurre una vita normale, facendo sempre e comunque attenzione. In Italia tutti esigono il rispetto dei propri diritti ma anche le responsabilità sono importanti.”

Davide Grassi su  www.riminiduepuntozero.it - 15 Ottobre 2020

L’immigrazione oltre gli slogan. Fatti e numeri nel Dossier statistico 2020

 Lo studio. Smentiti i luoghi comuni sull'invasione che non c'è. Crollano gli sbarchi. Aumentano gli irregolari e le persone espulse dal circuito di accoglienza a causa dei decreti Salvini. Migranti più esposti al Covid-19 per le occupazioni che svolgono, il Dossier: «Rappresentano parte della risposta alla pandemia poiché sono loro a lavorare nei settori più critici»

di Giansandro Merli *

Chi pensa che sia in corso un’invasione di immigrati neri, maschi e musulmani dovrebbe leggere con attenzione il Dossier statistico immigrazione 2020. Si accorgerebbe che molte sue credenze sono slogan che si infrangono di fronte a fatti e numeri. È la «divaricazione tra realtà e rappresentazione» descritta dal sociologo Maurizio Ambrosini. Nel suo insieme il Dossier rappresenta un materiale composito, denso, capace di affrontare molti aspetti di un fenomeno epocale. Dentro si combinano opinioni qualificate e analisi rigorose dei numeri. L’inquadratura allarga e stringe il campo di volta in volta. Così – oltre a mostrare che l’immigrazione in Italia è europea al 49,6%, femminile al 51,8% e da paesi di tradizione cristiana al 51,8% – il rapporto aiuta a inquadrare nel tempo e nello spazio dinamiche importanti e strumenti giuridici corrispondenti.

FLUSSI E PRESENZE. Lo scorso anno gli stranieri in Italia erano 5.306.500. In termini assoluti avevano superato i 5 milioni già nel 2018, in relazione al resto della popolazione sono passati dall’8,2% del 2014 all’8,8% del 2019. Dentro il numero complessivo è inserito un dato preoccupante. Riguarda i cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Tra il 2018 e il 2019 sono diminuiti di 101.600 unità, arrivando a 3.615.000. Si tratta in gran parte di un effetto dei decreti sicurezza voluti dall’ex ministro Matteo Salvini che, secondo le stime dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), avrebbero fatto aumentare il numero di clandestini di 120-140.000 unità. Le proiezioni dicono che alla fine di quest’anno sarebbero stati 700mila se non fosse sopraggiunta la sanatoria. La regolarizzazione è stata chiesta da 207.542 lavoratori in nero e 12.986 persone in cerca di occupazione. Meno di un terzo del totale di chi non ha documenti.

ACCOGLIENZA E SBARCHI. Dal combinato delle disposizioni di decreti Salvini e crollo degli sbarchi emerge un altro dato rilevante: i migranti in accoglienza sono scesi da 183.700 nel 2017 a 84.400 a fine giugno 2020. Circa 100.000 persone sono state espulse dai centri in appena 2 anni e mezzo: molte disperse sul territorio tra le fila degli irregolari. Intanto lo scorso anno circa 260mila persone si sono iscritte dall’estero nel nostro paese. Interessante che nello stesso periodo ne siano sbarcate solo 11.471 (dato del Viminale). Lo scarto, scrive nel dossier Angela Silvestrini dell’Istat, «indica come la modalità di arrivo in Italia via mare sia una modalità residua, sebbene gonfiata mediaticamente e politicamente da chi vorrebbe far credere che chiudendo i porti si possano fermare i flussi migratori».

CITTADINANZA. I dati sui «nuovi italiani», poi, mostrano l’inadeguatezza dell’attuale legge che disciplina l’accesso alla cittadinanza. L’anno scorso 227mila persone hanno conquistato il passaporto tricolore. 100mila sono nate e/o vivono all’estero (9mila possono vantare un avo del bel paese, 91mila sono figli di concittadini residenti oltreconfine). 127.001, invece, sono i residenti nello stivale che da stranieri sono diventati italiani. Per loro il percorso a ostacoli è molto più complesso di chi ha un parente italiano, «persino precedente all’Unità».

COVID-19. Nonostante le fake news sui migranti che portano il virus sembrino per il momento arenate, c’è un aspetto importante che il Dossier rileva e va sottolineato: «i migranti, essendo con alta probabilità una fascia giovane, rappresentano parte della risposta alla pandemia poiché sono loro a lavorare nei settori più critici. Ma sono anche più esposti al rischio di contagio, lavorando in settori in cui il lavoro da casa normalmente non è possibile». Su tutti quello della cura, preso in carico principalmente dalle donne.

* da il manifesto 28 ottobre 2020

( La pubblicazione dell’intervento non comporta la totale condivisione dei contenuti )

25 ottobre 2020

La politica degli Stati Uniti non è “polarizzata”, c’è un accordo quasi totale


di Caitlin Johnstone *

"Quando si guarda alla politica degli Stati Uniti, sembra che ci siano due fazioni politiche tradizionali che sono fortemente in disaccordo tra loro. “Diviso” è una parola che viene fuori spesso. “Polarized” è un altro. Ovviamente è vero che tra queste due fazioni scorre un sacco di emozioni, e la maggior parte di esse è davvero negativa. I temi caldi di un dato ciclo di notizie in America coinvolgeranno tipicamente più di una storia relativa all’inimicizia al vetriolo tra di loro. Ma sotto tutti gli insulti e gli accesi dibattiti, queste due fazioni sono in realtà furiosamente d’accordo l’una con l’altra. Sono d’accordo per tutto il tempo.

- Concordano sul fatto che il governo degli Stati Uniti dovrebbe rimanere il centro di un impero globale; si limitano a cavillare rabbiosamente su alcuni dettagli di come dovrebbe essere gestito quell’impero, ad esempio se il principe ereditario saudita avrebbe dovuto ricevere qualche piccola conseguenza per aver smembrato un reporter del Washington Post con una sega meccanica.

- Sono d’accordo che gli Stati Uniti dovrebbero rimanere l’egemone unipolare della terra a tutti i costi; litigano ad alta voce su alcuni dettagli di come dovrebbe apparire, ad esempio se dovrebbero esserci i nomi dei generali confederati nelle sue basi militari.

- Sono d’accordo che dovrebbe esserci una massiccia presenza militare statunitense in tutto il mondo; contestano solo furiosamente piccoli particolari come se qualche migliaio di quelle truppe debba rimanere in Germania o essere trasferito in Polonia. 

- Concordano sul fatto che ci deve essere una violenza militare di massa senza fine per sostenere l’impero centralizzato dagli USA; fanno solo un grande spettacolo nel discutere se quella violenza militare debba essere più concentrata sulla Siria o sull’Iran.

- Concordano che è necessario minacciare l’intero pianeta con armi nucleari mentre si intensificano le aggressioni contro altre potenze nucleari; si infuriano solo avanti e indietro su chi dovrebbe essere il dito sul pulsante.

- Sono d’accordo che è necessario controllare l’economia mondiale con il pugno di ferro; litigano solo sulle sue caratteristiche, come come e quando lanciare una guerra commerciale con la Cina.

 - Concordano sul fatto che l’ambiente dovrebbe continuare a essere distrutto; litigano solo per le minuzie, come se ci dovrebbero essere o meno degli adattamenti per i margini di profitto delle società di energia verde.

- Concordano sul fatto che la disuguaglianza di reddito e ricchezza dovrebbe persistere negli Stati Uniti; sono solo appassionatamente in disaccordo su come dovrebbe persistere, ad esempio se gli americani dovrebbero ricevere un altro misero pagamento di stimolo di $ 1200 quest’anno.

- Sono d’accordo che la plutocrazia dovrebbe continuare a governare l’America; si limitano a superare le caratteristiche minori, come se quei plutocrati dovessero o meno pagare un po ‘di più in tasse.

- Concordano sul fatto che gli americani dovrebbero rimanere aggressivamente propagandati; discutono solo se dovrebbe essere di Fox News o MSNBC.

- Sono d’accordo che gli americani dovrebbero essere sorvegliati da vicino e il loro linguaggio strettamente controllato; discutono solo dei dettagli, ad esempio se gli esperti di destra vengono censurati in modo sproporzionato sui social media.

Su tutte le questioni che colpiscono più gravemente le persone reali su scala di massa, queste due fazioni politiche sono decisamente d’accordo. Versano solo un sacco di suoni e furia nel piccolo uno per cento dello spettro in cui hanno qualche disaccordo.

Non consentono alcuna discussione generale sul fatto che l’impero oligarchico debba continuare ad esistere; tutti i loro problemi, argomenti e istrionici ruotano attorno a come dovrebbe esistere.

Questo è ciò per cui sono progettati. Sono progettati per impedire alla popolazione americana di vedere chiaramente quale sia il vero dibattito, motivo per cui chiunque si affidi a una visione del mondo che favorisce una di queste fazioni tradizionali subirà inevitabilmente confusione e cattiva percezione. Sono filtri percettivi progettati per nascondere l’unico vero dibattito nella politica statunitense.

Il vero dibattito nella politica degli Stati Uniti non è tra le due fazioni tradizionali che sono d’accordo l’una con l’altra praticamente su tutto ciò che conta in ogni misura che conta. Il vero dibattito sono quelle due fazioni insieme contro coloro che capiscono che l’intero status quo americano deve essere buttato nel cesso. Il vero dibattito politico in America è tra (A) coloro che capiscono che l’impero degli Stati Uniti è la singola forza più distruttiva su questo pianeta ed è corrotto dalle radici ai fiori, e (B) coloro che si iscrivono alle narrative partigiane tradizionali che supportano il design l’impero degli Stati Uniti.

Se la politica fosse reale in America, questo sarebbe il dibattito che tutti vedono. Non tra due settantenni assassini che si urlano addosso su chi odia di più il socialismo, ma tra la parte che si oppone all’impero oligarchico e quella che lo promuove e lo protegge. Ma la politica non è reale in America. È uno spettacolo. Uno spettacolo di marionette a due mani per distrarre il pubblico mentre i borseggiatori li derubano alla cieca.

Se vuoi vedere le cose chiaramente, ignora del tutto il finto dramma dello spettacolo di marionette calzino e concentrati sull’avanzamento del vero dibattito: che l’impero oligarchico centralizzato dagli Stati Uniti è corrotto oltre la redenzione e dovrebbe essere completamente smantellato".

* da www.linterferenza.it - 17 ottobre 2020

Caitlin Johnstone è una giornalista australiana

Come negli Stati Uniti i repubblicani impediscono ai neri di votare

 “Sette ore, 45 minuti e 13 secondi. È il tempo che ho impiegato alle scorse elezioni per votare”, dice nel video un cittadino statunitense afroamericano della contea di Fulton, in Georgia. ( qui)*


Negli ultimi anni, in particolare nel sud degli Stati Uniti, esercitare il proprio diritto di voto nelle zone abitate da afroamericani e da altre minoranze è diventato sempre più difficile, una sorta di percorso a ostacoli e di battaglia contro la burocrazia.

Questo accade perché nel 2013 un verdetto della corte suprema degli Stati Uniti ha eliminato una parte del Voting rights act del 1965, che stabiliva il divieto per gli stati di adottare norme che ostacolano il diritto di voto senza l’approvazione del governo federale. Da allora molti governi locali hanno introdotto leggi discriminatorie che hanno reso sempre più complicate le operazioni di voto.

Per capire come funzionano questi metodi il New York Times è andato in Georgia, uno stato storicamente conservatore, dove la popolazione non bianca è in crescita e il boicottaggio del voto delle minoranze è particolarmente forte.

da internazionale.it - 21 ottobre 2020

Stati Uniti, quattro anni senza respiro

Trump alla resa dei conti, dall’introduzione a «L’Autunno americano» di Luca Celada

di Luca Celada *

Mentre volge al termine il quadriennio presidenziale di Donald Trump è lecito dire che i presentimenti più nefasti che accompagnarono la sua elezione si sono avverati. La gestione nazional-populista della vantata «maggiore democrazia» si è rivelata, ben più che una semplice anomalia storica, una minaccia mortale per la sopravvivenza dell’«esperimento americano». Il 2020 in particolare è stato l’anno della resa dei conti. Sono venuti al pettine non solo i nodi del governo Trump ma le crisi strutturali di un sistema già avviato a uno sfascio annunciato sotto il peso di insostenibili disuguaglianze e di uno spietato e arcigno individualismo che si scontra oggi con i propri limiti fisiologici, ecologici – biologici. Debolezze storiche palesate da una congiuntura politica: la tempesta perfetta di una crisi «epocale».

Il paese è in ginocchio, sconquassato dalla pandemia e dilaniato dal conflitto sociale, sull’orlo di una potenziale catastrofe economica. Al funesto primato dei contagi si è accompagnata una disastrosa politica di serrate a singhiozzo e provvedimenti a macchia di leopardo, senza alcuna gestione centralizzata o unitaria. Era evidente anche all’inizio che un sistema fondato su federalismo, governo minimo e privatizzazioni, con una rete sociale stracciata da quarant’anni di deriva conservatrice e 30 milioni di persone senza assistenza medica pubblica, non sarebbe stato favorito nel far fronte a una crisi di salute pubblica di dimensioni pandemiche. Eppure era difficile prevedere l’entità del disastro.

Ascesa e razzismo

Il coronavirus ha esplicitato tutte le debolezze fisiologiche di un sistema fondato su accumulazione capitalistica e darwinismo sociale. La coincidenza con l’amministrazione Trump ha rimosso ogni residua cosmesi di un’ordinaria gestione liberale: il re è nudo e con lui la ferocia del sistema suprematista e finanziario che lo ha espresso. La rabbia e la divisione istigate senza sosta dal presidente per rinsaldare la propria base politica sono infine, e prevedibilmente, debordate nelle strade. Un quadro che sigla, se ce ne fosse stato bisogno, l’epilogo del secolo americano.
Sulla spianata davanti alla Casa bianca e sul selciato della 5th Avenue antistante Trump Tower, cioè davanti alle principali residenze di Donald Trump, campeggiano cubitali le scritte «Black Lives Matter».

Il presidente, ha precisato, le considera «un insulto». E nessuno le ha dipinte lì in segno di elogio: sono l’immagine letterale dell’astio vivo che esiste fra cittadini e presidente, cristallizzato in quello che il New York Times ha dichiarato essere «il più ampio movimento popolare della storia nazionale»1. L’incitamento senza sosta del razzismo su cui Trump ha fondato la propria ascesa, e che già a mezzo termine aveva portato alla rivolta nazista di Charlottesville, ha prodotto i suoi frutti velenosi in un paese che non è mai riuscito a completare un vero processo di riconciliazione dopo la guerra civile. In questi anni di sconsiderata esasperazione, si sono invece moltiplicati gli episodi di intolleranza, aggressioni a sfondo razzista, sparatorie in sinagoghe, omicidi veicolari motivati dall’odio ideologico e razziale.

In molte città milizie di estrema destra sfoggiano armi e veicoli militari e sventolano bandiere di Trump, incitate da siti complottisti o dai tweet che piovono senza sosta dallo studio ovale. Le ultime fasi hanno visto reparti di polizia segreta impegnata in rastrellamenti «cileni» nelle città di un paese in guerra con se stesso e con un presidente che fa le prove di un regime autoritario. Sono le tattiche della famigerata Escuela de las Americas dove gli Stati uniti istruivano i regimi del «cortile di casa» in tecniche controinsurrezionali, specialità tradizionalmente riservate all’export. Il fatto che cittadini vengano afferrati da agenti senza distintivi e gettati in vetture affittate dà la misura dello sprofondamento. In un paese che brulica di armi queste ormai compaiono regolarmente, apertamente esibite in pubblico da entrambe le parti in un’atmosfera surriscaldata e volatile. Non sorprenderebbe a questo punto se si avverasse in qualche forma l’obbiettivo dichiarato dei Boogaloo Boys – una delle numerose formazioni sovversive di estrema destra in campo che auspica una nuova guerra civile.

Il livello di paura, recriminazione e disgusto superano quelli dell’era Nixon e della guerra in Vietnam. E all’interno della Casa bianca le epurazioni, il sospetto e la paranoia rammentano anch’essi i livelli nixoniani. L’America del 2020 è governata, per la prima volta nella sua storia, da una dinastia famigliare che occupa le cariche strategiche facendo sfoggio delle proprie ricchezze, mischiando disinvoltamente affari di Stato e business famigliare fra magioni alabastrate, country club e auto blindate del governo. In una scia di selfie e social post da rich kids, il messaggio dei plutocrati della first family a una nazione che rischia il collasso economico è un inequivocabile invito a mangiare brioche.

Sono arrivate a scadenza nel 2020 le contraddizioni di un eccezionalismo americano anacronistico, di una mitologia che non può più nascondere i problemi strutturali di una postura egemonica oramai insostenibile. Le patologie incancrenite da mezzo secolo di deriva neoliberista e conservatrice. I lasciti della restaurazione reaganiana col suo liberismo giustizialista, declinato in fondo anche da Bill Clinton. Delle sconsiderate guerre e della deriva securitaria neocon seguite all’11 settembre. E anche del mandato di Obama, che non è riuscito a convertire la forza simbolica della sua presidenza in moto propulsivo per una vera inversione di rotta.

Prove fallite

Forbice sociale, «disperazione bianca», collasso del potere d’acquisto, precarietà permanente della gig economy con sottofondo di fanfare a Wall Street, hanno completato la patologia pregressa che ha manifestato appieno i propri sintomi nei miasmi del trumpismo. Nella mefitica primavera del 2020, quando ogni nazione è stata messa alla prova, gli Usa hanno fallito la prova nella maniera più clamorosa.

Gli Stati Uniti d’America si affacciano dunque alle 59/e elezioni presidenziali della loro storia col cuore in gola e il fiato sospeso, un paese claudicante che arriva agli scrutini sfinito da una epidemia fuori controllo e da una crisi profonda di identità. Invece della grandezza ritrovata vi sono a oggi quasi sette milioni di casi e oltre duecentomila morti di covid. E trenta milioni di disoccupati. Nelle prigioni sono pigiati due milioni di detenuti – un quarto del totale mondiale per il tasso di carcerazione di gran lunga più alto del mondo. Attualmente comprendono circa cinquantamila migranti, in un gulag in gran parte appaltato ad aziende di detenzione private, in cui languono anche migliaia di minorenni, molti separati a forza dai genitori. Un mastodontico Vallo di Adriano, o perlomeno le prime tratte di una futile barriera, sorge sul confine meridionale del paese, monumento follemente costoso all’ossessione xenofoba, e come l’antecedente segna il limite di un impero entropico. Ogni anno trentaseimila americani muoiono per ferite d’arma da fuoco, per mille circa di queste vittime a sparare è un poliziotto.

Conflitto permanente

Con questi numeri l’era di Trump giunge al suo apice. Come una scoria tossica introdotta nel corpo politico della nazione, l’attuale presidente diffonde dalla Casa bianca una metastasi velenosa di polemica e cattiverie. Un presidente in guerra con la stampa, la cultura e la scienza e coi propri cittadini che insulta, ricatta e minaccia in maniera inversamente proporzionale all’andamento del suo gradimento nei sondaggi. L’accelerazione degli ultimi quattro anni è stata vertiginosa ma anche parallela a fenomeni sincronici in diverse parti del mondo, compresa la vecchia Europa. Una limpida dimostrazione dei teoremi di Hannah Arendt sulle derive autoritarie, filtrate attraverso la lente della distopia febbricitante di Philip K. Dick e delle nuove tecnologie.

Sfumata la narrazione trionfale che era stata programmata, il candidato Trump ha ripreso la dialettica della «carneficina americana» (American carnage) per fare delle elezioni la battaglia finale della «culture war». D’altra parte lo scontro frontale è quello che Trump vuole, il trumpismo ha bisogno di nutrirsi di conflitto permanente per alimentare la narrazione apocalittica che rinsalda i ranghi dei sostenitori. Non sorprende dunque che di fronte ad uno storico sollevamento popolare il presidente abbia scelto di raddoppiare la posta, scagliando accuse di genocidio culturale contro Antifa e la sinistra radicale, accusando Biden di voler demolire i sobborghi bianchi, la Cina e l’Oms di orchestrare lo sterminio batteriologico degli americani. Trump ha brandito la bibbia e stretto più forte fucili e bandiere. Come è stato segnalato, questa non è la strategia di chi cerchi di ampliare i consensi per vincere un elezione, ma l’azione di chi serra i ranghi e infiamma gli animi in previsione di una manovra volta a confutare gli scrutini. Trump, in svantaggio irrecuperabile nel voto popolare, conterà su un arsenale di «sporchi trucchi», sulla soppressione del voto, la disinformazione a tappeto, sul maggioritario falsato del collegio elettorale per strappare forse una o due vittorie di misura in stati cruciali. Soprattutto ha iniziato da mesi un’azione capillare di delegittimazione preventiva del risultato e avviato il sabotaggio delle poste su cui ricadranno molte delle operazioni di voto, ha preparato cioè il terreno per non dover ammettere una eventuale sconfitta, facendo se necessario appello alle milizie infervorate che da mesi sono in rodaggio nelle piazze. Non c’è nulla, ahimè, nei concitati quattro anni che l’America ha appena attraversato che possa rassicurare sull’eventualità – perfino la probabilità – di una crisi costituzionale provocata ad arte il quattro novembre.

Incognite

Allo stesso tempo il movimento Black Lives Matter ha messo in campo forze sociali fautrici di una visione del futuro e di un cambiamento sociale forse senza precedenti, una risposta propositiva e rivoluzionaria al nazional populismo e al «supercapitalismo» (per usare il termine coniato da Mike Davis) il cui carattere oppressivo è stato simbolicamente rappresentato dalla crisi pandemica. Come il virus, anche la situazione politica ed economica, l’incognita di un mondo del lavoro reso irriconoscibile da distanziamento, gig economy, automazione e piattaforme digitali toglie il respiro. Il movimento Black Lives Matter nasce dalla necessità di affrontare una volta per tutte le perniciose contraddizione del paese, i suoi peccati originari, il razzismo legato al retaggio di pulizia etnica e schiavitù che sottendono gran parte dello sviluppo nazionale. Il movimento chiede di riannodare il discorso sui rapporti fra le razze che ricorre nella traiettoria nazionale in cicli di conflitto e rimozione. Ma da questo punto di partenza il movimento è giunto a riconoscere che non può esserci giustizia sociale senza giustizia economica ed ambientale. Che non ci si può ulteriormente sottrarre dall’affrontare in modo deciso e propositivo l’insostenibile diseguaglianza, la crisi dei rapporti di produzione e consumo che presi assieme costituiscono, ormai è sempre più chiaro, una sfida e una minaccia esistenziale per il l’intero pianeta. «Quello che entusiasma di questo momento», ha detto Angela Davis, veterana di non poche battaglie, «è il numero di persone che adottano una visione progressista della storia. Una congiuntura che apre la prospettiva di un cambiamento radicale».

Di contro, col riflesso bellicoso di un palazzinaro bancarottiere – e l’istinto maccartista istillato dal mentore Roy Cohn – Trump ha dirottato la narrazione nazionale sui binari morti del pregiudizio e dell’oscurantismo, del sovranismo e del suprematismo. Una sbandata epocale dal «lungo arco morale» di Martin Luther King, quello della storia che «s’incurva tuttavia verso la giustizia». King aveva capito che i tratti di alcuni fondamentali flagelli americani, razzismo, diseguaglianza, violenza ed imperialismo, erano inestricabilmente legati. Il suo lavoro negli ultimi anni, prima di venire stroncato, era stato proprio il tentativo di collegarli in una lotta intersezionale (volendo ricorrere ad un termine in voga oggi). Cinquantadue anni dopo il suo martirio, un presidente spinge per smantellare la riforma elettorale che King aveva ottenuto per garantire il diritto di voto. Di più: invoca apertamente la segregazione razziale e promette di difendere l’omogeneità dei sobborghi bianchi. King aveva allargato la sua lotta alla povertà come manifestazione palese di ingiustizia universale. Trump ha ufficializzato la guerra ai poveri.

Allo stesso tempo la mobilitazione di Black Lives Matter ha manifestato concretamente le speranze espresse da King nel «discorso della montagna» sulla possibilità che giovani bianchi e neri «unissero le mani» anche nei luoghi di antica discriminazione. Oggi i sondaggi dicono che il 70% di millennials americani voterebbero per un candidato socialista.

La storia di Trump è anche quella del fallimento delle istituzioni democratiche, incapaci di contenerlo come promettevano gli avversari «moderati». Molte delle vantate sponde istituzionali che avrebbero dovuto assicurare che mai l’America sarebbe stata suscettibile all’ascesa di un demagogo si sono sciolte come neve al sole, una volta che il demagogo ha assunto lo smisurato potere che l’ordinamento presidenziale riserva all’esecutivo. Quei limiti si sono in gran parte rivelate norme meramente formali – un galateo di noblesse oblige. Il «gentlemens’ agreement» con Trump però non ha tenuto, dalle dichiarazioni dei redditi occultate al dirottamento di fondi all’uscita unilaterale da trattati internazionali.

I limiti del tiranno sono diventati la vera posta in gioco di questo quadriennio, che ha dimostrato oltre ogni dubbio e mal riposta certezza come sia possibile per un demagogo, in era post-politica, scardinare e sovvertire dall’interno una democrazia pur matura e compiaciuta di sé. Il paese «guida del mondo libero» si trova a navigare a vista una crisi globale senza precedenti guidata da un leader autocratico, vicino per sostanza e stile a tiranni come Lukaschenko o Berdymukhamedov, con cui condivide la passione per il kitsch monumentale e le statue equestri.

Dietro Trump c’è un partito repubblicano complice e acquiescente, che dopo aver valutato la presa del demagogo sul proprio elettorato si è allineato per calcolo cinico ingoiando ogni oltraggio alle istituzioni, alle norme e alla Costituzione per assecondare gli interessi della plutocrazia, incassando, in un bieco tornaconto, deregulation, mastodontici regali fiscali e centinaia di nomine di giudici federali reazionari che promettono di viziare politicamente sentenze valide per generazioni. (…)

* da il manifesto 24 ottobre 2020 dall’introduzione a «L’Autunno americano» di Luca Celada