30 aprile 2017

La Francia seppellisce la speranza di un’altra Europa



di Carlo Clericetti *

Il successo di Macron sulle ceneri del Partito socialista. 
 


Marine Le Pen pensava a un referendum sull’euro, e queste elezioni presidenziali ne sono state una sorta di surrogato. Il fronte critico con l’Europa ha preso circa il 45% (il 21,5 di Le Pen più il 19,6 di Melenchon, più qualcos’altro dei sovranisti), gli altri una netta maggioranza. Il risultato finale, quello che si saprà il 7 maggio dopo il ballottaggio, appare a questo punto scontato: se pure tutti coloro che hanno votato il candidato di sinistra convergessero sulla leader del Front National – cosa improbabile – e si aggiungesse quel  5% circa di altri partitini, la destra europeista resterebbe comunque in grande vantaggio. Un risultato a sorpresa tipo Brexit sembra al di là delle ipotesi plausibili.
Tre dei candidati a questa prova elettorale provenivano dal Partito socialista francese. Hamon, il candidato ufficiale del partito; Macron (ex ministro dell’Economia nel governo Valls) che ne è uscito l’anno scorso; e Melenchon che l’ha abbandonato già da molti anni.  Niente meglio di questo fatto illustra la deriva di quello che fu il partito della sinistra riformatrice e che oggi va ad aggiungersi alla lunga lista dei partiti socialisti che hanno imboccato la truffaldina “terza via”, la via del cedimento al liberismo che porta inevitabilmente al suicidio, come questo risultato prova ancora una volta.

Melenchon è uscito quando è apparso chiaro che il Psf aveva scelto quell’orientamento; Macron – uomo di destra già quando fu scelto come ministro – ha abbandonato la nave non per dissensi ideologici (come prova l’immediato appoggio offertogli ora da Hollande), ma perché aveva capito che sarebbe miseramente naufragata. Hamon, che quando a sorpresa vinse le primarie fu definito “radicale”, è un Bersani d’oltralpe: i suoi propositi progressisti non poggiano su una analisi dell’errore storico compiuto dalla ex sinistra quando ha aderito all’idelogia di quelli che fino ad allora erano stati considerati avversari politici. Troppo tardi e troppo poco, hanno sentenziato gli elettori: il candidato del partito che nella scorsa tornata ha conquistato la presidenza della Repubblica ha ottenuto stavolta poco più del 6%, 2.300.000 elettori su 33 milioni di votanti.

Le cartine con cui "Repubblica" ha proposto un confronto visivo sulla conquista dei distretti elettorali cinque anni fa e oggi sono impressionanti: l’arancio che segnala i collegi attribuiti ai socialisti nel 2012 è completamente scomparso, le tre sparute macchie rosse nella cartina del 2017 sono di Melenchon. Non molto meglio è andata ai gollisti di Fillon (blu), che tengono in soli 5 collegi: hanno ceduto quasi dappertutto al Front National (viola), che però ha dilagato anche in zone che prima erano arancio. Tutto il resto è di Macron (rosa): la Francia ha votato quasi unanimemente a destra, dividendosi solo tra europeisti e sovranisti. In realtà la sinistra-sinistra, grazie al successo di Melenchon a cui si possono sommare i voti di formazioni minori, sfiora un quarto dell’elettorato, ma con il sistema maggioritario di collegio rischia, alle prossime legislative di giugno, di ottenere un bottino di deputati assai magro."

Nella storia si verificano a volte eventi improbabili. La vittoria di Melenchon, a differenza di quella di Trump e della Brexit – per cui si erano manifestate condizioni che le rendevano possibili – sarebbe stato uno di questi. Se ci fosse stata, la via della riforma dell’Europa sarebbe diventata praticabile. Era questo, giova ricordarlo, il “Piano A” del suo partito, mentre la rottura era solo il “Piano B”, da mettere in atto solo se e dopo che una trattativa per cambiare le regole e la politica dell’Unione fosse fallita. E’ bene ricordarlo a chi definisce “anti-europeiste” queste posizioni, che sono invece contrarie solo a “questa” Europa.
Ma il miracolo non c’è stato, e la possibilità di una riforma dell’Europa diventa se possibile ancor più irrealistica. Questo probabilmente darà più forza a una delle due tendenze che si confrontano nella sinistra (quella vera) europea, ossia quella che si pone come obiettivo strategico un’uscita concordata dall’euro, una volta verificato che non ci sono le condizioni per cambiare i Trattati. E’ la sinistra del “Plan B”, a cui aderisce appunto Melenchon e rappresentata in Italia da Stefano Fassina di Sinistra italiana. Si è già incontrata quattro volte, l’ultima a Roma poco prima del vertice europeo per i 50 anni dell’Unione. L’altra tendenza fa capo invece a Yanis Varoufakis (“Diem25”), esclude un’uscita dall’euro o dall’Unione e propugna la disobbedienza alle regole europee. In Italia appare più vicino a queste posizioni il segretario di Si, Nicola Fratoianni.

La probabile vittoria di Macron, insomma, rafforza l’attuale linea politica europeista, e infatti tutti gli altri leader, Merkel in testa, si sono affrettati a congratularsi con il vincitore del primo turno. Ciò significa che l’Europa proseguirà nella sua linea autodistruttiva, e che le (ex) sinistre che l’appoggeranno si auto-distruggeranno ancora più rapidamente. Ci sarà una progressiva crescita dell’instabilità politica, la cui prossima manifestazione saranno proprio le prossime elezionii italiane. Quanto a Macron, si può arrischiare una scommessa: a meno di cambiamenti importanti, che oggi non sono alle viste, è probabile che conquisti la presidenza francese, ma è altrettanto probabile che non gli riuscirà un secondo mandato.

*  da www.insightweb.it    
Clericetti è giornalista, collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight.              Blog: www.carloclericetti.it

26 aprile 2017

Oltre Bobbio, oltre Ventotene



Nel saggio «Sinistra e popolo» (Longanesi), Luca Ricolfi sferza la sinistra, vittima della «superiorità morale» e dell’europeismo «giacobino», analizzandone la crisi
di Antonio Polito *

Luca Ricolfi torna sul luogo del delitto, dove dodici anni fa, con il suo pamphlet Perché siamo antipatici, constatò il decesso dell’antico rapporto tra sinistra e popolo. Però stavolta invece che una sola vittima, e cioè la sinistra italiana spocchiosa, con il «complesso del migliore» e ossessionata dall’anti- berlusconismo, si trova davanti un’ecatombe: ovunque in Occidente «il popolo non trova più nella sinistra la sua naturale espressione politica», e un’altra offerta, detta «populista», è diventata per così dire più popolare. Perché?


Nel suo nuovo saggio (Sinistra e popolo, Longanesi) Ricolfi analizza molti possibili cause, con l’acribia e il gusto per la statistica che ne fanno uno dei più originali analisti della nostra società. Ma su due punti in particolare introduce nuovi e convincenti spunti di riflessione. Il primo è, come si sarebbe detto un tempo, strutturale: la sinistra si è infatti dimostrata perfettamente a suo agio nel dopoguerra in un habitat economico e sociale che non solo non esiste più ma potrebbe non esistere mai più. Il che non ci può far escludere che quella attuale sia anche una crisi finale: perché prima ancora di non sapere dove andare, la sinistra oggi non sa più dove si trova. 

 «L’età dell’oro per le forze della sinistra sono stati i cosiddetti glorious thirty, i trent’anni di prosperità che vanno dalla fine della guerra alla grande recessione del 1974-1975». Anni di crescita rapida, più redditi, più consumi e più welfare. Fu un «miracolo», soprattutto nei Paesi usciti sconfitti dalla guerra come l’Italia. Quando però con la crisi petrolifera del ’73 e poi con l’avvio della competizione globale i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti cominciano a cambiare, esplode la crisi fiscale dello Stato, e inizia il lento ma inesorabile declino dell’Europa. Un po’ alla volta, soprattutto dopo l’ultima Grande Crisi, si diffonde tra la gente l’idea della «fine della crescita». Le nostre società un tempo opulente diventano «a somma zero», per dirla con Lester Thurow: «A fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, perché la torta da spartirsi è limitata e non aumenta nel tempo». Si fa strada la disperata convinzione che i figli avranno un futuro peggiore dei padri. Ma in un clima così, di «stagnazione secolare», può avere ancora un senso la sinistra? In un tempo in cui nessuno crede più che la crescita possa tornare a finanziare il welfare, la grande protezione sociale che la sinistra garantiva al popolo, che ruolo ancora può svolgere?

Si parlerà del libro a Tempo di libri sabato 22 aprile alle 15.30 (Sala Courier - Pad. 2), nell’incontro con lo stesso Luca Ricolfi, Giuliano Pisapia, Marco Damilano

Anche perché il bisogno di «protezione» che avvertono i ceti popolari, lungi dall’affievolirsi, si è piuttosto indirizzato contro ogni forma di competizione che venga dall’esterno. E quindi chiede cose che la sinistra non può dare, perché la sua cultura nega alla radice proprio l’esistenza dei pericoli da cui quel bisogno nasce. Lasciamo la parola a Ricolfi: «La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per riprendere la costruzione dell’edificio europeo».

Ma perché la sinistra, letteralmente, non vede il problema? Perché in entrambi le accezioni, quella «riformista» e quella «radicale», non ascolta il popolo, come farebbe qualsiasi movimento appena un po’ pragmatico, e come fanno tutti i movimenti «populisti»? È la seconda domanda cruciale del libro. E qui si torna all’antico vizio del «complesso dei migliori», alla convinzione cioè di rappresentare la «parte migliore del Paese», oggi anche più benestante, che fa chiudere gli occhi di fronte a quella ritenuta peggiore, ma sicuramente più sofferente.

Per spiegarne le origini profonde, Ricolfi sferra un attacco frontale a due mostri sacri, che non mancherà di far discutere. Il primo è Norberto Bobbio, e il suo fortunatissimo Destra e sinistra. In quel libro, scrive l’autore, si fissa il paradigma della «superiorità morale», identificando la sinistra con l’uguaglianza e la destra con l’ineguaglianza (e di fatto nascondendo il prezzo che il mito dell’eguaglianza inevitabilmente paga alla libertà, ben spiegato invece da Friedrich von Hayek). Assegnando infatti alla sinistra un valore (l’uguaglianza) e alla destra un disvalore (la disuguaglianza) si costruiscono «le radici teoriche del disprezzo» verso chi non è di sinistra. Gli egualitaristi, scrive Kenneth Minogue, «vogliono far passare l’idea che chi non appoggia l’egualitarismo dev’essere per forza un sostenitore dell’anti-egualitarismo… così l’egualitarismo non è solo una dottrina: è anche un atteggiamento di autogratificazione».

Il secondo colpo è rivolto al celebratissimo Manifesto di Ventotene, scritto nei primi anni Quaranta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, assurto a bibbia del federalismo europeo, di cui Ricolfi, in una velenosa coda in appendice al libro, denuncia il carattere datato e «giacobino», al punto da imputare i fallimenti dell’Europa non al fatto di aver abbandonato quell’utopia ma piuttosto di averla inseguita troppo.

Comunque la si pensi, ancora una volta Ricolfi riesce insomma a farci venire in mente idee che non condividiamo (citazione da Altan). Mette in crisi il truismo secondo il quale la sinistra è nei guai per l’ascesa del populismo, dimostrando invece che il populismo ha cominciato a crescere e la sinistra a declinare ben prima della crisi e per ragioni più profonde. E rafforza così in noi il sospetto che le cose siano piuttosto andate al contrario: è la crisi storica, e forse irrimediabile, della sinistra ad aver reso possibile e vincente la rivolta «populista» che oggi la travolge.
 * Corriere della Sera , 14 aprile 2017 

 Luca Ricolfi, «Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi» (Longanesi, pp. 288, euro 6,90)
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( leggibili 28 pagine)