30 novembre 2019

Clima, gli italiani sono i più ottimisti. Peccato siano pure sempre più incollati all’auto


Gli italiani sono sempre più incollati all’auto. Lo dice il nuovo (16esimo) rapporto Isfort, che anno dopo anno fotografa le abitudini di mobilità degli italiani. Uno scenario preoccupante: la maggioranza degli spostamenti è compiuta in auto (59%) e lo share modale dell’auto è aumentato rispetto allo scorso anno. E’ diminuito l’uso della bici. Siamo al 37,1% di mobilità sostenibile (piedi, bici, mezzi pubblici), praticamente come nel 2001. In 20 anni nessun progresso.


di  Linda Maggiori *

Nel frattempo, il numero delle auto aumenta. Invece di diminuire, e ridursi della metà, come raccomanda Legambiente per rispettare gli Accordi di Parigi, nel 2018 ha superato la soglia di 39 milioni di unità, senza contare i 6,8 milioni di moto e motorini, anche quelli in aumento. Con sempre più auto in circolazione, la CO2 immessa nell’aria è destinata a crescere, inesorabilmente.
L’Italia è un paese a natalità sottozero: non aumentano gli abitanti, ma aumentano le auto. Come sia possibile, nessuno lo sa. Nel 2017 eravamo a 63 auto ogni 100 abitanti, nel 2018 a 64,6 auto ogni 100 abitanti (con punte a Catania di 71 auto ogni 100 abitanti). Ovviamente, con tutte queste auto a disposizione, il car sharing non decolla, e resta confinato a poche grandi città. I morti sulla strada invece sono tantissimi, 3300 ogni anno, 55 per milione di abitanti, contro la media europea di 49 per milione di abitanti. Siamo ben lontani dal target 2020. Un’esagerazione, una follia. Ma quante volte mi sono sentita dire che gli esagerati siamo noi che invochiamo una riduzione del numero delle auto, noi che ci muoviamo prevalentemente a piedi, in bici, coi mezzi pubblici, noi che viviamo senz’auto di proprietà!

Nonostante le proteste furiose sul caro carburante (sempre secondo il rapporto Isfort), i consumi di carburante crescono. Un’ubriacatura collettiva che non sembra vedere il fondo. Se il carburante costasse meno, mi vien da pensare, cosa potrebbe succedere? Già veniamo bombardati giorno dopo giorno da spot sulle auto (tra cui alcune vergognosamente violente, come l’ultima dell’Alfa Romeo, che usa una scena di un film in cui un’auto semina panico a Firenze, schivando pedoni terrorizzati); a forza di usare l’auto, il corpo si assuefa, si impigrisce, la mente rallenta la ricerca di alternative, non si riesce a comprendere come farne a meno, neppure per brevi percorsi, sotto ai due km. È un’assuefazione vera e propria, il meccanismo psicofisico è lo stesso. Come democrazia vuole, vanno al potere quei politici che fanno gli interessi delle quattro ruote. Come da 60 anni a questa parte. E così oltre alle auto aumenta anche il cemento (un corollario della motorizzazione crescente). Si costruiscono nuovi insediamenti in periferia, nuovi centri commerciali, raggiungibili solo con l’auto; nuovi parcheggi, nuove strade, nuove autostrade. Secondo l’ultimo rapporto Ispra, tra il 2017 e il 2018 sono stati divorati 51 km quadrati di suolo (19 campi da calcio al giorno).

Se fossimo sani di mente, ci metteremmo le mani tra i capelli. Chiederemmo a chi ci governa misure urgenti e drastiche: vietare l’uso di auto in città, obbligare anche i piccoli e medi centri ad adottare Pums e ampliare le zone pedonali, creazione di sempre più ampi quartieri car free, aumento capillare di mezzi pubblici, disinvestire sulle strade e spostare i soldi sulle rotaie, e sui tram. Incentivi a chi va in bici, piste ciclabili, sensi unici eccetto bici… ma soprattutto, scenderemmo dall’auto almeno sotto ai due km.
Eppure, secondo il rapporto Isfort, la maggior parte della gente non ha intenzione di modificare le proprie abitudini e vuole mantenere l’uso dell’auto così com’è. Diminuisce la propensione al cambiamento, dicono gli esperti. Un fatalismo che raggela, soprattutto alla luce del recente rapporto Onu sui cambiamenti climatici. La CO2 aumenta di anno in anno, siamo a 405,5 ppm, e l’umanità si scopre incapace di arrestare i propri comportamenti suicidi. Fa quindi sorridere che, secondo un’altra indagine, siamo il popolo più ottimista in Europa sulla possibilità di frenare i cambiamenti climatici. Da che cosa derivi questo inguaribile ottimismo non è dato sapersi. Gramsci diceva: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. Ecco mi pare che noi stiamo facendo il contrario. “Vispe terese” speranzose che non hanno nessuna intenzione di cambiare sul serio. Come gridano i ragazzi di Xr nelle piazze, bisogna dire le cose come stanno, bisogna dire la verità, anche se scomoda. Le cose da fare sono tante e occorre fare in fretta, sono richiesti cambi di abitudini, qualche minimo sacrificio e prese di coscienza collettive, soprattutto da parte della parte più ricca del mondo. C’è in gioco la sopravvivenza: #Diamociunamossa.

* Blogger e scrittrice impegnata nella difesa dell'ambiente

   da ilfattoquotidiano - 29 Novembre 2019

27 novembre 2019

Libano. Gli squadristi di Hezbollah non fermano la rivolta


Arrivano all’improvviso a bordo di motociclette. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre, catene assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. La guerra del Partito di Dio alla “rivoluzione laica” che da oltre quaranta giorni sta scuotendo il paese dei cedri.

di Umberto De Giovannangeli   

Arrivano all’improvviso a bordo di motociclette (come i Baji iraniani) sventolando le bandiere di Hezbollah e inneggiando al Partito di Dio sciita e al suo leader Hassan Nasrallah. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre, catene assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. Hezbollah dichiara guerra alla “rivoluzione laica” che da oltre quaranta giorni sta scuotendo il Libano. Attaccano a Beirut, a Tiro, incendiano le tende dei manifestanti. Al grido di “sciiti, sciiti” e di “Hezbollah, Hezbollah” in perfetto stile Baji le motociclette passano in mezzo ai manifestanti falcidiandone diversi.
I giovani libanesi rispondono urlando “Hezbollah terrorista” e tirando sassi contro i miliziani. E la situazione rischia di precipitare in una nuova, devastante, guerra civile. Raffiche di fucili automatici sono state sparate lunedì sera a Beirut da non meglio precisati uomini armati nel quadro di crescenti tensioni politiche e confessionali nella capitale libanese. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi ripetutamente nei pressi dell’incrocio stradale di Cola, poco lontano dal centro della città. L’esercito libanese si era dispiegato ieri sera in forze nei pressi delle strade che dividono i quartieri controllati dai partiti sciiti Hezbollah e Amal dai quartieri a maggioranza sunnita di Qasqas e Tariq Jdide, non lontano da Cola.
Ciò che Hezbollah non può accettare è uno dei meriti maggiori della “primavera libanese”, quello di voler superare le divisioni settarie che avvelenano il Medio Oriente. È una grande notizia – annota Pierre Hasky di France Inter su Internazionale – dopo anni segnati dal conflitto tra sciiti e sunniti, dalle persecuzioni contro le minoranze e dal califfato fondamentalista, così come è bello ascoltare lo slogan dei libanesi, “tutti significa tutti”, espressione della volontà di lasciarsi alle spalle un sistema politico fondato su un comunitarismo religioso. Certo, non si possono cancellare in un solo colpo secoli di divisioni e guerre, ma un “libanese nuovo” sta emergendo dalle manifestazioni: giovane, attivo su internet e deciso a uscire dalla “prigione” mentale settaria.

Quella in atto, a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. Il Paese dei Cedri ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo (circa 77 miliardi di euro, corrisponde al 150 per cento del prodotto interno lordo), ma il livello di profitti delle sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte del debito, sono superiori a quelli dei Paesi occidentali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 paesi. L’un per cento più ricco possiede il 25 per cento dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il venti per cento di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1 per cento del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono dei politici di turno o dei loro parenti. Le proteste erano iniziate contro il piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet.
A Beirut i blackout programmati vanno dalle tre alle sei ore al giorno, fuori dalla capitale si arriva invece anche a dodici ore senza elettricità. Chi può permetterselo, copre le ore di “buco” acquistando un generatore, finendo così per alimentare un business gestito da soggetti (in questo caso vicini a Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista) che hanno interesse nel mantenimento del precario status quo. Anche l’approvvigionamento idrico è un problema – in alcune aree costiere della capitale l’acqua della doccia è salata – solo parzialmente lenito dalla presenza di due navi cisterna turche “parcheggiate” sulla costa libanese. 

A chiunque si trovi in Libano non può sfuggire, poi, l’emergenza rifiuti, che nel 2015 stimolò una prima rabbiosa protesta della popolazione, riunita attorno al movimento della società civile “You stink” (Voi puzzate): il problema, sorto ormai sette anni fa, non è stato mai risolto. Anzi, in alcuni frangenti si è aggravato, soprattutto dopo la chiusura di alcune discariche, e l’apertura di quella di Costa Brava, sulla spiaggia che lambisce l’aeroporto, che due anni fa provocò anche alcuni problemi di sicurezza (i gabbiani che volavano sopra i rifiuti “sconfinavano” spesso sulle piste di atterraggio). Infine, la logica del wasta. Tradurlo con “raccomandazione” non renderebbe l’idea del radicato meccanismo clientelare che sottende, insito nel sistema confessionale libanese: chi cerca lavoro in Libano – dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il quaranta per cento, cifra che cresce moltissimo se si considerano i non contrattualizzati – nella quasi totalità dei casi deve conoscere qualcuno che lo metta in contatto col politico cristiano, sunnita, sciita, druso (a seconda dell’appartenenza del “richiedente”), che cercherà una occupazione per lui in cambio di una implicita (o esplicita) promessa di “fedeltà”. Semplificando, un voto di scambio, che finisce indirettamente per rafforzare la legittimità dell’establishment, oggi integralmente sotto accusa. 
Il Libano è un non stato, come ha dimostrato qualche anno fa la paradossale “crisi della spazzatura”, dovuta all’incapacità del potere pubblico di gestire i rifiuti della capitale. Quella era stata la prima avvisaglia di ciò che sta accadendo oggi, con la ribellione di un popolo intelligente e maturo che merita qualcosa di più di un presidente che invita i giovani scontenti a emigrare. Finora soltanto l’esercito è stato risparmiato dalla contestazione, e questo lascia pensare che i militari potrebbero avere un ruolo chiave nell’immediato futuro, rimarca ancora Hasky.
ll premier Saad Hariri s’è dimesso a fine ottobre. E da allora il capo di Stato Michel Aoun non ha ancora avviato le consultazioni politiche previste dalla costituzione. Non riuscendo ad “addomesticare” la piazza, Hezbollah ha deciso di attaccarla. Un’avvisaglia c’era già stata il 25 ottobre. Se noi scendiamo in piazza, non ci muoviamo finché non raggiungiamo i nostri obiettivi. Tuttavia, quella iniziata come una protesta spontanea, gioiosa e giusta, in cui la gente ha recuperato la speranza di cambiamento, ora viene strumentalizzata da alcuni partiti politici e sta diventando qualcos’altro. Abbiamo informazioni di intelligence secondo cui ci sarebbe uno schema internazionale per delegittimare la resistenza, e ho chiesto alla nostra gente di tenersi lontana dalle piazze. Stiamo entrando in una fase pericolosa, aveva avvertito Nasrallah in un discorso minaccioso trasmesso da al-Manar, la tv di Hezbollah.
Gli attacchi susseguitisi nelle ultime 48 ore sono la traduzione operativa dell’avvertimento di Nasrallah. Ma la rivoluzione laica non si fa ingabbiare. Una riprova la si è avuta il 22 novembre, quando migliaia di libanesi sono tornati in piazza a Beirut e nelle altre principali città del Paese nel giorno dell’indipendenza nazionale. I manifestanti hanno inscenato una “parata civile” in piazza dei Martiri e nella vicina piazza Riad Solh, luoghi simbolo della mobilitazione contro il sistema politico, in risposta alla tradizionale parata militare organizzata dalle autorità. Ogni anno, c’è stata una parata militare con artiglieria, armamenti ecc.. Quest’anno, per cambiare, saranno tutti i settori che rappresentano i libanesi a sfilare, per dimostrare che la ricchezza del Libano, sono questi giovani e la loro capacità di cambiare il Libano, ha dichiarato all’Orient-Le Jour, il quotidiano francofono di Beirut, Mirna Chidiac, una delle organizzatrici. Quest’anno è davvero la festa dell’Indipendenza del popolo, ha aggiunto.

Nelle stesse ore, i principali leader politico-confessionali si erano invece riuniti nel compound fortificato del ministero della difesa nella località di Yarze, fuori Beirut, per assistere una parata militare simbolica. Una separazione fisica che racconta di una nomenclatura sempre più estranea, e ostile, al popolo di Piazza dei Martiri, cuore della rivoluzione laica dei libanesi. Per i libanesi. 
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Foto 1: Il simbolo della rivolta libanese dato alle fiamme dagli squadristi di Hezbollah

Foto 2: 12 novembre 1943, manifestazione di massa di donne, musulmane e cristiane, contro il dominio francese. L’indipendenza libanese sarà proclamata qualche giorno dopo. Le donne, in Libano hanno sempre avuto un ruolo “rivoluzionario”, nei momenti cruciali della sua storia #استقلال_لبنان

Foto 3: Boom di vendita di bandiere libanesi, un altro segno della volontà diffusa di superare settarismi e divisioni imposte da leader religiosi e gruppi d’interesse

* da www.ytali.com 26 Novembre 2019

Umberto De Giovannangeli, da inviato speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli ultimi trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”, “L’89 arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”. Ha un blog sull'Huffington Post

24 novembre 2019

Bolivia, c’è l’accordo tra i golpisti e il Mas per nuove elezioni


A tutto golpe. Avvio di un dialogo tra tutte le forze del Pacto de Unidad, l’alleanza nazionale dei movimenti di base a sostegno di Morales


IN BASE ALL’ACCORDO tra il Mas, la Unidad Demócrata e il Partido Demócrata Cristiano, arrivato dopo diversi giorni di negoziati, l’Assemblea legislativa plurinazionale eleggerà, entro il termine di 20 giorni dall’approvazione del regolamento, i nuovi sette membri del Tribunale supremo elettorale (Tse) – di cui almeno tre saranno donne e almeno due di origine indigena o contadina -, i quali avranno poi 48 ore di tempo per definire la data delle nuove elezioni. Non prima, comunque, di quattro mesi, per consentire una revisione approfondita delle iscrizioni alle liste elettorali. Tutte le organizzazioni politiche potranno prendervi parte, presentando candidati che non siano stati già eletti in maniera continua per due mandati. Una norma, questa, che esclude dunque ufficialmente dalla prossima competizione elettorale Evo Morales e Álvaro García Linera.

«È PREVALSO IL BENE SUPERIORE: quello di garantire nuove elezioni, con un nuovo Tse e una totale trasparenza», ha dichiarato la presidente del Senato Eva Copa. Un accordo è stato raggiunto anche tra il governo de facto e le organizzazioni sociali, per l’avvio di un dialogo che vedrà impegnate tutte le forze del cosiddetto Pacto de Unidad, l’alleanza nazionale dei movimenti di base a sostegno di Morales, allo scopo di promuovere la pacificazione del paese. E l’effetto si è subito fatto sentire, con la rimozione di diversi blocchi stradali e la ripresa della distribuzione di gas e benzina nella capitale. Sono invece ancora in corso i negoziati sui temi delle violenze e degli abusi da parte delle forze di sicurezza e delle garanzie richieste dal Mas riguardo alla persecuzione contro i propri parlamentari e dirigenti. Ma se, al riguardo, è stata decisa la creazione di una commissione speciale che dovrà analizzare la questione caso per caso, al momento i segnali non sembrano molto buoni, considerando non solo l’arresto del vicepresidente del Mas Gerardo García e il mandato di cattura per l’ex ministra della Cultura Wilma Alanoca, ma anche la denuncia per terrorismo e sedizione presentata dal governo dell’autoproclamata Jeanine Áñez contro l’ex ministro della Presidenza Juan Ramón Quintana e contro Evo Morales.

IL QUALE, DAL MESSICO, denuncia la persecuzione giudiziaria nei confronti suoi e di altri dirigenti del Mas, mentre «per i nostri 30 fratelli assassinati in Bolivia non vi sono né indagini, né responsabilità, né arresti». E dopo il suo annuncio sulla creazione di una Commissione della verità composta da «personalità internazionali» con l’obiettivo di verificare se «davvero vi siano stati brogli» durante le elezioni di 20 ottobre, scende in campo anche il Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica (Celag) chiedendo all’Organizzazione degli stati americani di rendere finalmente pubblici i risultati definitivi della sua verifica sul processo elettorale. Perché, dopo almeno tre diversi rapporti tecnici – tra cui quello di Walter Mebane, uno dei principali esperti di frode elettorale al mondo – che hanno attribuito a Morales un vantaggio realmente superiore di 10 punti rispetto a Carlos Mesa, anche il Celag conclude che la sintesi preliminare offerta dall’Osa «non presenta alcuna prova di brogli».

Nella foto: manifestazione in solidarietà con Morales attaccata dalla polizia

* da il manifesto - 24 novembre 2019