30 agosto 2023

A che punto è la muraglia di alberi per frenare il deserto in Africa


 

 

 

 

 

di Gianluca Schinaia *

I deserti avanzano in tutto il mondo, mettendo a repentaglio agricoltura e sicurezza alimentare. E il progetto di una cintura verde per frenare il Sahel, avviato nel 2007, è appena al 20% del suo avanzamento

Caldo e siccità: due fenomeni correlati, ormai sempre più presenti in cronaca e non solo come aggiornamenti di meteo o scienza. Eppure la CopP15, la conferenza delle parti delle Nazioni Unite dedicata alla lotta contro la desertificazione, “è stata la Cenerentola di tutte le Cop, ricevendo meno attenzione e mezzi delle sue controparti. Per troppo tempo, la desertificazione e la siccità sono state considerate problemi dell'Africa”. Non è l’opinione di un attivista ma del presidente della Cop15 sulla desertificazione Alain-Richard Donwahi, che Wired ha intervistato. Quello che era un problema erroneamente considerato come regionale, secondo Donwahi, adesso è chiaro e pericoloso per tutti: “La desertificazione si sta diffondendo in tutto il mondo. Con l'estate, molti Paesi temono gravi episodi di siccità e scarsità d'acqua che potrebbero avere un impatto significativo sull'agricoltura e sulla sicurezza alimentare”. Perché la desertificazione e la siccità sono fenomeni accelerati o indotti dal surriscaldamento globale che impattano su tanti aspetti della vita umana.

Il continente si scalda a una velocità doppia rispetto alla media. Accelerano anche le energie verdi, la cui produzione supera quella da fonti fossili nel 2022

La siccità riguarda il 40% dei terrestri

Secondo le Nazioni Unite la siccità è “il degrado dei terreni nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, dovuto a una serie di fattori diversi, tra cui le variazioni climatiche e le attività umane". Le aree degradate rappresentano una cifra stimata tra il 10 e il 15% dell’intera superficie terrestre, dove vive oltre il 40% della popolazione mondiale. E se pensiamo allo stress idrico, ovvero la carenza di acqua in certe aree del Pianeta, questo problema ormai riguarda un terzo della popolazione mondiale. Ciò che preoccupa è che la siccità e la desertificazione seguano avanzando: dal 2000 sono aumentate di circa il 30% le aree aride del pianeta. E tra il 1979 e il 2019 si possono stimare circa 650mila morti a causa della siccità nel mondo. Nessuno può dirsi escluso: nel prossimo futuro saranno 190 le nazioni che soffriranno qualche effetto a causa di siccità e devastazione. In sintesi estrema, succederà in tutto il mondo, considerando che sulla Terra sono registrate 194 nazioni.

La soluzione della Great Green Wall

Il cuore pulsante del processo di desertificazione più impattante al mondo è nel Sahel. La soluzione che si sta cercando è il progetto della Grande Muraglia Verde, guidato dall’Unione africana con il supporto delle più importanti organizzazioni intergovernative al mondo. Si tratta di una sorta di cintura alberata progettata per attraversare in orizzontale il continente africano. Dovrebbe costare circa 33 miliardi di dollari e al 2021 ne erano stati investiti 14: obiettivo realizzare entro il 2030 una linea di foreste con un'estensione di circa 8mila chilometri di lunghezza e 15 chilometri di larghezza. La cintura attraverserà 11 nazioni africane, dal Senegal e dalla Mauritania fino a Gibuti, e si propone di contrastare la degradazione ambientale e la povertà della regione, partendo dal miglioramento delle condizioni climatiche e ambientali dell’intera area.

Sì, la Grande Muraglia Verde è parte della soluzione, perché contribuirà a combattere la desertificazione e il cambiamento climatico: è un progetto molto importante, non solo per l'Africa, ma per il mondo intero. Ma questa iniziativa non riguarda solo la creazione di foreste, bensì anche lo sviluppo di ecosistemi virtuosi per le comunità locali. La Grande Muraglia Verde comprende diversi progetti guidati dalle comunità, in particolare nel campo dell'agricoltura rigenerativa"

Alain-Richard Donwahi, presidente Cop15 sulla desertificazione

Questi progetti aumenteranno la sicurezza alimentare e l'accesso all'occupazione, elementi essenziali per preservare la sicurezza, la stabilità politica ed evitare massicce ondate migratorie. Per quanto avveniristico, tarato sulle soluzioni rigenerative delle nature based solutions e ambizioso, il successo del progetto non è affatto scontato e anche Donwahi ammette che ci sono ritardi sensibili sulla roadmap: “Dobbiamo fare di più e in fretta. Solo il 20% dell'intera iniziativa è stato realizzato dal suo lancio ufficiale nel 2007. Se vogliamo completarla come previsto, entro il 2030, dobbiamo trovare più risorse, più fondi e destinarli ai progetti giusti. Abbiamo anche bisogno che i Paesi coinvolti inseriscano questa iniziativa nei loro piani di sviluppo nazionali e nei loro bilanci annuali, in modo che i fondi siano dedicati a far progredire la Grande Muraglia Verde e a sostenere le comunità”.

Frenare le migrazioni climatiche

Supportare la rigenerazione di Paesi che oggi soffrono la siccità a livello ambientale per crescere socialmente ed economicamente. E così allentare anche la portata del fiume carsico di migranti che dalle sponde del Nord Africa si riversano in Europa, con le conclusioni drammatiche che racconta la cronaca. Le migrazioni climatiche saranno sempre più impattanti nei flussi di persone a livello mondiale. E saranno siccità e desertificazione, che implicano problemi gravi di approvvigionamento idrico, a spingere ulteriormente questi flussi: “È un dato di fatto: la siccità è in aumento. Non solo in Africa, ma in tutto il mondo.

Negli ultimi 20 anni, abbiamo assistito a un aumento del 29% degli episodi di siccità e prevediamo che oltre 190 Paesi saranno più esposti alla siccità nei prossimi decenni. A causa di questi fenomeni, oltre 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a lasciare le loro case e a migrare entro il 2050”.

Alain-Richard Donwahi, presidente CopP15 sulla desertificazione

Per questo secondo il presidente della Cop15 i Paesi europei dovrebbero accelerare la realizzazione dei propri impegni ambientali nell’ottica realizzativa della Grande Muraglia Verde. Lo stesso impegno che devono riversare tutte le nazioni che hanno sottoscritto gli Accordi di Parigi: la mitigazione passa innanzitutto dalla transizione ecologica dell’economia mondiale. E dal rispetto degli impegni presi e sottoscritti.

nella foto: Mucche nel deserto del Sahel, Poncho/Getty Images

* da www.wired.it  19 agosto 2023

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La riforestazione ha un impatto su ambiente, società ed economia

 di Giovanni Beber *

Sostenibilità

Andrea Bianchi è un botanico tropicale che lavora nell’ambito del progetto Udzungwa corridor limited, finanziato da un fondo nord-americano e che prevede le riforestazione di una zona centromeridionale dei monti dell’Arco orientale, in Tanzania. Ha iniziato a occuparsi del progetto nel 2021 e da allora seleziona le specie di piante da reinserire nel territorio. A Buone Notizie ha raccontato perché il progetto può avere un impatto non solo sull’ambiente, ma anche a livello sociale ed economico per le comunità locali.

La deforestazione in Tanzania affonda le radici nel colonialismo

Secondo il report sulla deforestazione nel 2022 stilato dall’Università del Maryland, l’Africa ha perso circa 3,6 milioni di ettari di copertura arborea, tra cui circa 800mila ettari di foreste tropicali primarie, cioè quelle che non sono state finora coinvolte da attività agricole o industriali.

Andrea racconta che “le cause della deforestazione sono molteplici. Ad oggi, la causa principale è l’aumento della popolazione, che ha reso necessario ampliare la superficie di terreni coltivabili. Il taglio del legname permette inoltre agli abitanti di produrre carbone, fondamentale in Tanzania per produrre energia. Ma il processo di deforestazione è iniziato già quando il Paese era colonia tedesca e inglese, legato al commercio di legnami tropicali”.

In tal senso, il progetto di riforestazione è stato pensato per avere una durata di trent’anni. In questo lasso di tempo l’obiettivo principale è proprio quello di lavorare con le comunità locali, affinché attraverso la riforestazione gli abitanti del luogo possano accedere ad un lavoro a lungo termine e uscire dalla condizione di povertà in cui si trovano. Riforestazione, educazione a una vita in sintonia con la foresta e miglioramento delle qualità di vita delle popolazioni locali vanno quindi a braccetto.

Riforestare richiede tempo, ma i primi risultati sono già visibili

Il progetto è operativo nella zona tra il Parco nazionale dei monti Udzungwa e la Riserva forestale di Udzungwa Scarp. È un’area di 75 chilometri quadrati, che una volta riforestata permetterà di rimuovere 5,5 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera e restaurare l’ecosistema animale e vegetale in uno dei più importanti hotspot di biodiversità del mondo, che ospita quindi almeno 1.500 specie di piante endemiche.

Andrea si occupa della scelta delle specie, un passaggio cruciale, se si considera che la Tanzania ha una flora estremamente ricca, con più di diecimila di piante e circa 1500 specie di alberi. Per un confronto, un simile numero di specie è tra il doppio e il triplo della flora italiana, già estremamente ricca.

Andrea spiega che la selezione è un’operazione molto delicata, perché vanno individuate le specie corrette sia per l’altitudine che per la piovosità, in particolar modo per le specie ad areale ristretto. Questo significa che alcune piante possono stare soltanto in porzioni di territorio molto piccole, a volte singole vallate o addirittura solo su una montagna”.

Inoltre, dopo avere selezionato le singole piante, è necessario scegliere attentamente il mix di specie che si va a piantumare. Una volta selezionate, la parte più importante e difficile è quella della raccolta dei semi. Nonostante le varie difficoltà che la riforestazione richiede e la visione a lungo termine del progetto, Andrea sostiene che i risultati si iniziano già a intravvedere. “Le prime piantine che abbiamo messo a dimora un anno e mezzo fa sono già più alte di me. In quello che era un ambiente desolato, adesso sono già presenti piante alte due metri e mezzo, e alcune di queste crescono di due metri all’anno. Fra dieci nelle zone più favorevoli sarà cresciuto un bosco vero e proprio”.

Il monitoraggio migliora il lavoro e rende replicabile l’operazione

Il monitoraggio della crescita delle piante è cruciale, perché permette di osservare e selezionare le specie più idonee alla riforestazione. A partire dall’osservazione dei dati raccolti, Andrea e il resto del team modificano la percentuale di specie che piantano l’anno successivo.

Inoltre, una volta validati, i dati sulla riforestazione possono essere inseriti nella piattaforma AirImpact, pensata per mettere in connessione tra loro imprenditori, ONG e altri enti che vogliono iniziare un progetto simile. La piattaforma, sviluppata nel 2018 all’interno di un altro progetto in cui opera Andrea, aiuterà nella scelta delle specie e può essere uno strumento di confronto per monitoraggi futuri.

Gli effetti positivi della riforestazione sulle comunità e l’ambiente

Il progetto di riforestazione prevede anche una parte di sensibilizzazione delle comunità sull’importanza della foresta, della biodiversità e sul ritorno delle specie animali nella zona. Il contratto stipulato con le comunità locali concede loro di tagliare il 3% degli alberi all’anno, alla fine dei trent’anni di progetto.

“Questa percentuale, che può sembrare molto bassa, corrisponde a circa 30 alberi per ettaro. Questa sarà sufficiente a dare agli abitanti un introito fino a migliaia di euro per ettaro. Il tutto in una gestione sostenibile della foresta, che passerà dalla scelta oculata delle piante da tagliare, evitando il disboscamento a tappeto”, spiega Andrea. Dell’educazione a una gestione circolare della foresta si occupa una ragazza tanzaniana, che promuove anche la parità di genere e l’accesso al lavoro a tutti.

Inoltre, il progetto avrà esiti positivi dal punto di vista di conservazione della biodiversità molto alti. La zona riforestata fungerà da corridoio ecologico tra le due aree protette del Parco nazionale dei monti Udzungwa e la Riserva forestale di Udzungwa Scarp. Mettendo in comunicazione le due aree animali come elefanti, leopardi e bufali che si sono estinti localmente in una delle due foreste potranno ritornarci.

nella foto: Comunità locali tanzaniane al lavoro in uno dei vivai ( Andrea Bianchi )

* da www.buonenotizie.it - 22 agosto 2023


 

 

 

26 agosto 2023

La zona anti-emissioni divide Londra e Labour

 di Leonardo Clausi *

Eppur si muove. La battaglia del sindaco Khan per estendere l’Ulez (Ultra low emission zone) a tutta la regione della capitale non piace al leader del partito Starmer e a Extinction Rebellion: la tassa, di 12.50 sterline, è socialmente discriminatoria 


 

Inquinamento, viabilità e trasporto pubblico a Londra: un caso politico nazionale. Il 28 luglio, un giudice dell’Alta corte ha dato il via libera al piano del sindaco di Londra Sadiq Khan di estendere l’anello anti-emissioni denominato Ulez (Ultra Low Emission Zone) a tutta la Greater London, la “regione” della capitale. Il parere ha respinto un ricorso da parte di Bexley, Bromley, Harrow, Hillingdon e Surrey, cinque council a rappresentanza conservatrice che cercavano di bloccarne l’applicazione. Ora l’estensione della Ulez – introdotta ormai un ventennio fa e descritta come una delle misure urbane anti-inquinamento più radicali al mondo – procederà coprendo tutti i distretti della città dalla fine del mese di agosto.

IL PROGETTO mira a ridurre l’inquinamento atmosferico, addebitando ai conducenti dei veicoli più inquinanti – grossomodo tutti quelli dalla cui immatricolazione è trascorso oltre un quindicennio e che non ottemperano agli standard Euro 4 ed Euro 6 – una tassa di 12.50 sterline, circa 14 euro al giorno, per ogni volta che si usa il mezzo. La Ulez inizialmente copriva il centro di Londra, la stessa area della già esistente Congestion Charge: il primo “pedaggio” da pagare nella parte centrale della città, a sua volta introdotto nel febbraio 2003 ed esteso nell’ottobre 2021 per coprire l’area all’interno delle tangenziali North e South Circular.

LONDRA È IL CENTRO di un’ampia rete ferroviaria pendolare radiale: assieme a quella parigina, la più trafficata, grande e articolata d’Europa. Come già oltre un secolo fa con la metropolitana, le politiche antinquinamento dei suoi sindaci tornano a farne un modello da seguire per il resto delle capitali occidentali. Sei mesi dopo l’espansione della Ulez, l’autorità civica dei trasporti pubblici, Transport for London, aveva stimato al 20% la diminuzione delle emissioni di ossidi di azoto nella regione di Inner London.

La qualità dell’aria londinese è nel complesso migliorata: tra il 2016 e il 2019, le concentrazioni medie di biossido di azoto e particolato fine – due degli inquinanti più dannosi per la salute umana – sono diminuite di circa un quinto. Tuttavia, secondo le proiezioni attuali, senza ulteriori interventi nessuna area della capitale soddisferà le linee guida dell’Oms per un’aria respirabile entro il 2030.

L’OBIETTIVO di lungo termine della Ulez di Khan – che dovrebbe permettere a Londra di rientrare nei limiti di inquinamento previsti dalla legge entro il 2025 – è quello di una città sempre meno sommersa da automobili e sempre più orientata verso l’uso dei mezzi pubblici, soprattutto la metropolitana. Con i suoi oltre tre milioni di passeggeri al giorno per oltre un miliardo di viaggi all’anno, le undici linee del “tube”, gestite da Transport for London e operative dal 1863, sono state il primo sistema di trasporto urbano sotterraneo al mondo.

È una vittoria personale e politica per il laburista Khan, visti anche gli attacchi mossigli dal suo stesso leader, Keir Starmer, dopo la recente, imprevista sconfitta laburista alle suppletive di Uxbridge e South Ruislip – seggio vacante di Boris Johnson dato per conquistato troppo presto. Dovuta in parte al malumore dei residenti, sta persuadendo lo stesso Starmer a ridimensionare le già troppo timide iniziative “verdi” del partito. La tassa è percepita come socialmente discriminatoria, un ulteriore giogo fiscale in un’epoca di inflazione già galoppante e per questo osteggiata soprattutto dal centrodestra politico-mediatico del paese.

Ma non solo. Che l’oneroso balzello finisca per penalizzare i piccoli commercianti, i trasportatori e i lavoratori precari è fuori di dubbio, tanto che tra i suoi critici figurano anche personaggi come Roger Hallam, uno dei fondatori di Extinction Rebellion. Che ha attaccato la «Sinistra neoliberista cittadina middle-class» che sostiene la Ulez rivendicando la necessità di tar-tassare l’un per cento dei riccastri del pianeta, i veri pluto-inquinatori ed eco-distruttori, per poi finanziare con quelle imposte l’aggiornamento del parco auto metropolitano con veicoli meno inquinanti.

In ogni caso l’attivismo anti-traffico di Khan – la Ulez rientrava nei piani del suo predecessore Johnson, a loro volta innescati dalle iniziative del primo sindaco dell’era recente, Ken Livingstone: Khan non ha fatto altro che seguire l’iter – è troppo poco, troppo tardi. Nel dicembre 2020, un’inchiesta sulla morte di Ella Adoo-Kissi-Debrah, di anni nove, aveva ritenuto l’aria respirata dalla piccola un fattore determinante.

Per la prima volta nel Regno Unito, l’inquinamento atmosferico veniva citato come causa di morte. Ma ha anche una pregnanza personale: al cinquantaduenne Khan, eletto nel 2016 e tuttavia favorito per uno storico terzo mandato l’anno prossimo, è stata da poco diagnosticata una forma asmatica “dell’adulto”, legata quasi certamente all’inquinamento, e ha sofferto di un sospetto, leggero attacco cardiaco: esperienze che gli hanno ispirato un libro, Respirare, uscito lo scorso maggio per Egea, in cui descrive le vicissitudini amministrative dell’applicare misure di salute pubblica che partono già impopolari.

La sua “militanza” lo ha messo inoltre in diretto contrasto con Starmer, fresco dall’ultimare la purga della sinistra di un partito ripristinato come business-friendly e che alle prossime elezioni politiche attende l’implosione dei conservatori, allo stremo dopo tredici anni al potere contraddistinti da austerity spietata, Brexit, Boris Johnson, Liz Truss, inflazione e ristagno economico.

MA IL QUADRO POLITICO generale, assai favorevole al sorpasso laburista – sono in vantaggio sui tory di diciassette punti – e tuttavia gravato dalla paura di perdere, sta irrigidendo il moderatismo di Starmer: dopo essersi rifiutato di annunciare, una volta al potere, una politica economica sostanzialmente diversa da quella dei conservatori uscenti, si vocifera che potrebbe obbligare Khan a fare marcia indietro anche sulle misure anti-inquinamento. Peraltro, la tensione fra sindaci laburisti “radicali” e direzione moderata del rispettivo partito si sta riproponendo a sua volta: già Ken Livingstone era stato per un periodo un candidato sindaco alternativo a quello ufficiale e il suo mandato da indipendente in sostanziale contrasto con la leadership di Tony Blair.

* da il manifesto 24 agosto 2023

19 agosto 2023

Crisi climatica: più alberi e metropolitane, meno auto e cemento, salveranno l’Europa

di Massimo Marino

1) Fra dieci mesi si svolgeranno le elezioni che dovrebbero eleggere 716  membri del Parlamento Europeo, 76 italiani.

La legge elettorale di riferimento  è la migliore della decina di leggi che abbiamo in Italia ( per Comuni, Province, Regioni, Camera, Senato, Circoscrizioni e Municipi, con una quindicina di varianti imposte dalle singole Regioni. Leggi in genere incomprensibili ai comuni mortali, cioè alla grande maggioranza dei 51 milioni di elettori italiani, in tutti i loro aspetti e trucchetti.

Invece la legge per le Europee ( che guarda caso non abbiamo fatto noi ) è semplice, comprensibile e dovrebbe soddisfare tutti: è proporzionale, con un quorum minimo del 4% che limita la frammentazione, con liste di candidati in cinque Circoscrizioni. Si può anche dare fino a tre preferenze, per la gioia di chi dice di voler scegliere fra i candidati che il partito ha selezionato per lui. Non so perché la cosa sembra gradita da molti, compresi quei gruppi clientelari o mafiosi che con le preferenze hanno qualche possibilità in più di partecipare al successo di candidati loro o di loro gradimento.

La legge europea è’ la cosa più vicina a quanto ci servirebbe in tutte le nostre scadenze elettorali. Dal punto di vista della rappresentatività proporzionale della volontà degli elettori raddoppiando a dieci le circoscrizioni, alzando il quorum al 5% lasciando ai partiti con un compromesso la scelta dei primi due della lista come loro espliciti “leader locali” e le preferenze per gli altri eventuali eletti,  avremmo la più bella e democratica legge elettorale del pianeta, per il nostro Parlamento italiano e non solo. Senza imbrogli, senza giochini non percepibili, senza ricatti di voto utile e collegi uninominali, finte liste, provvisorie coalizioni che si disfano il giorno dopo il voto. Una legge che potremmo fare in una settimana. Il sistema politico diventerebbe uno specchio più pulito della società, cambierebbe totalmente… quindi è molto improbabile che ci libereremo dei vari rosatellum o altre porcate simili  fino a quando non resteranno solo in due ad andare a votare ai seggi. 

Nei miei ultimi due interventi  in marzo e in luglio ( qui e qui)  ho sostenuto con una abbondanza di numeri che il vero vincitore delle ultime elezioni politiche di settembre non è stato il centrodestra, che in altre occasioni ha preso ben più voti  dei 12,9 milioni del 2022, fino ai 17 mil. del 2009 con il porcellum. Ha vinto il rosatellum piddino che ha regalato l’Italia ( mi chiedo spesso per quanti anni), al cdx senza che avesse alcun significativo successo né una vera maggioranza di seggi se non quelli estorti nei collegi uninominali. Senza il rosatellum probabilmente il cdx non avrebbe avuto la maggioranza. L’attuale governo Meloni non ci sarebbe. Non c’è nessuna onda nera né di altro colore ma un massiccio e crescente numero di astensioni: riferiti alla Camera 21,6 mil. alle politiche del 2022 ( 5,5 mil. in più delle politiche del 2018 ) e 24,2 mil già alle europee del 2019 ( da sempre meno frequentate). Le ultime elezioni europee del maggio 2019 confermano le mie osservazioni: malgrado la bassa partecipazione il cdx ottenne comunque 13,3  mil. di voti dei quali più di 9 mil. della Lega Nord. Quasi mezzo milione in più rispetto alle politiche dello scorso settembre. Poiché la matematica non è un opinione il cdx ha diminuito, non aumentato i propri voti, nel settembre 2022.

Sappiamo già che sono cinque le liste che nella prossima primavera si divideranno i 76 seggi al PE ( M5S - PD - Fd’I - Lega - FI ) Incerto solo il destino delle tre liste che nel 2019 sprecarono circa 2 mil. di voti senza eleggere nessuno ( Verdi, La Sinistra, +Europa). Verdi e Sinistra insieme potrebbero forse avvicinarsi al 4% ( sicuro solo con l’aggiunta, improbabile, di Unione Popolare, il partitino di De Magistris). Otterrebbero così almeno 3 eletti che presumo il giorno dopo il voto si dividerebbero per aderire ad almeno due diversi raggruppamenti fra i probabili sette presenti anche  nel prossimo Parlamento Europeo. Sarebbe il male minore vista la evidente incapacità dei loro leader. Il partitino famigliare dei verdi di Bonelli (della coportavoce verde Eleonora Evi, ex parlamentare europea grillina, si sono un po' perse le traccie) esclude di unirsi al M5S , del quale anzi a tutti i costi vuole impedire l’entrata nel gruppo europeo degli ecologisti che invece farebbe bene agli uni e agli altri. Anche la Sinistra di Fratoianni e i radicali di +Europa come i Verdi sono da soli molto lontani dal 4% forse  anche con qualche incertezza sul gruppo europeo a cui aderire. Nei tre gruppi imperversa da anni la logica del “piccolo è bello” che cattura ogni volta fino a 2 milioni di elettori un po’ svagati ma difficilmente elegge qualcuno. Fece eccezione alle europee del 2014 “ L’altra Europa per Tsipras”, un cartello elettorale improvvisato che superò di poco il quorum (con il 4,03%), elesse tre parlamentari e si sciolse di fatto pochi mesi dopo. Il nome corretto venne utilizzato nei due anni successivi qua e là  in varie elezioni regionali e comunali.

A destra invece la frammentazione praticamente non esiste. Delle 13 liste che nelle europee del 2019 non elessero nessuno e sprecarono 2,65 mil di voti molto meno del 10% sono riferibili ad un area di centrodestra ( i due gruppetti neofascisti di Casa Pound e Ordine Nuovo e quelli della Famiglia ).

2) Mi sembra improbabile prevedere una contrazione dei tre partiti del destra-centro nella prossima primavera. Quella minoranza che li vota, 25 elettori ogni 100, per parecchi anni, a mio parere almeno dieci, si riconosceranno nell’apparato simbolico della destra: meno tasse ( specie per i ceti medio-alti ), diffidenza (e inefficienza come il centrosinistra) verso i migranti,  moderazione verso gli evasori e periodici condoni, svuotamento del ruolo del Pubblico e dello Stato a favore del Privato ( come il centrosinistra) specie nel settore dell’Energia, della Sanità, e in quello dell’Automotive, cioè dove girano i soldi. Rassicurante ostilità verso qualunque vera iniziativa che contrasti l’avanzare della crisi climatica e ambientale.

Sia sostegno alla “ transizione ecologica” finta che viene vista da lobby e multinazionali, spesso le principali responsabili della crisi ambientale, come una buona occasione per arraffare altri miliardi dallo Stato e dall’Europa. Si inventano “ progetti”  di scarsa utilità  o “grandi opere” in competizione con piccole attività virtuose ( ad esempio nel campo delle rinnovabili) e con centinaia di enti locali che comunque non sempre hanno chiaro quali sono le opere davvero sostenibili e ne combinano un po' di tutti i colori.

Sia sostegno anche alle lobby che sui media  agitano il “negazionismo climatico”, argomento del passato di cui ho smesso da quattro anni di parlare (leggi  “I negazionisti non sono idioti”), tenuto in piedi e rilanciato per distrarre dallo scontro crescente sulle vere alternative. Il destracentro rappresenta bene quelli che vivono con la testa ed il portafoglio rivolti al passato e penso che ci vorranno almeno una decina di anni prima che una parte dei suoi sostenitori, assaggiata fino in fondo la crisi ambientale e sociale gli si rivolteranno contro con i forconi per averli fregati. Naturalmente se si scegliesse il sistema proporzionale con il quorum al 5% tutto potrebbe cambiare più rapidamente. Di fatto avremmo stabilmente sei partiti veri e il loro progetto di società sarebbe più chiaro e comprensibile nella scelta di tutti. Invece faranno di tutto per imporci un forzato bipolarismo e forme di presidenzialismo usando le tante armi di distrazione di massa dei media che tendono a trasformare i cittadini in ristretti gruppi di tifosi dell’ultima curva nord o sud da stadio o in ininfluenti astensionisti militanti.

Vi chiederete: e gli altri? E l’alternativa qual è ?

L’astensionismo politico e la carenza di  alternative ( dove sono gli Alternativi?) è il problema determinante dei prossimi anni. Dalle elezioni politiche del 2013 a quelle del 2018 la grande speranza grillina travolse tutto ma durò poco. Nel 2018 gli astenuti furono “solo” 16,1 mil. Gli elettori del sud in particolare votarono in massa in modo plebiscitario per i grillini. Ma già alle europee del 2019 ( da sempre meno partecipate delle politiche )  gli astenuti salirono a 24,2 milioni. L’astensionismo si è consolidato nelle politiche del settembre 2022 con 21,6 mil.( 5,5 mil. in più del 2018). Un quarto di questi sono forse impossibilitati a votare essendo lontani dal proprio seggio. Forse altrettanti hanno oggettive difficoltà  personali e di salute. Ma per almeno una decina di milioni di elettori c’è una scelta esplicita che li ha portati a ritirare la propria delega verso tutti i partiti. La delusione pesante verso il M5S, dopo tutte le altre,  ha dato il definitivo contributo. E senza un radicale cambiamento di programmi, di comportamenti e di facce non è chiaro fino a dove arriverà l’astensione. Che per il momento gioca alla grande a favore delle minoritarie  forze di destra.

Alcune azioni istituzionali potrebbero facilitare la partecipazione degli elettori.

La prima azione è la definizione dell’Election Day annuale. Se ho contato bene nel 2023 si voterà da qualche parte almeno in 12 date diverse. Si potrebbe invece concentrare qualunque tipo di voto, referendum compresi,  in una sola scadenza annuale in una data predefinita. Ad esempio nella prima settimana di novembre come negli USA.

La seconda azione è quella di facilitare il voto a distanza. Sono molto perplesso sull’ipotesi del voto per posta. Dubito della sua sicurezza e della sua efficacia. Mi sembra più semplice aprire un seggio polivalente  in ogni capoluogo di provincia ( quindi un centinaio al massimo) dove si possa nelle 48 ore precedenti l’apertura dei  seggi ordinari permettere il voto a distanza da aggiungere poi a quelli del proprio comune di residenza, chiudendo l’accesso a questi seggi 24 ore prima degli altri. Ci sono diversi modi semplici e sicuri per farlo.

3) Dunque il vero problema non è affatto quello di “battere la destra” ( che 75 italiani su 100 non si sognano di votare), ma di offrire programmi, comportamenti, leader, nuove forme di aggregazione ampie e strutturate “in basso” che esprimano un radicale progetto riformatore che ri-unisca una grande parte della società italiana adesso delusa, disarticolata e  frammentata in mille rivoli. Che pratica una sorta di  “astensionismo militante” impotente e di “voto a perdere” verso partitini frammentati e palesemente inadeguati. Il risultato della delusione di tantissimi.

Da tempo sostengo che serva un movimento radicale riformatore al centro del sistema politico, autonomo e per molti aspetti lontano da destra e sinistra e da qualunque forma di ambiguo moderatismo di centro, che su concrete proposte sviluppi egemonia e costruisca maggioranze nella società e ragionevoli alleanze  nelle istituzioni. Per molti aspetti il M5Stelle fra il 2013 e il 2018, mostrando che è possibile,  è stato quello più vicino a sviluppare un progetto di alternativa. Se non si comprende perché ha vinto e perché poi è stato distrutto e per certi aspetti si è suicidato e non si raccoglie, si difende e si corregge quanto ha prodotto di buono, ci vorranno molti anni per riaprire una possibile alternativa.

La velocità con la quale la crisi climatica avanza, in compagnia della crisi sociale,  dell’aumento delle disuguaglianze e dell’arroganza con la quale queste vengono alimentate senza alcuno scrupolo rendono tutto più drammatico . Basta pensare negli ultimi  anni all’arbitrario aumento dei costi dell’energia ed al boicottaggio aperto delle rinnovabili da parte dei vecchi padroni del pianeta. O solo negli ultimi giorni all’aumento del prezzo della benzina che non ha alcun tipo di motivazione se non quella di rubarci un po' di soldi nel rientro dalle ferie. I benzinai centrano poco. La richiesta delle opposizioni che chiedono di ridurre le accise è singolare. Si ridurrebbero importanti entrate fiscali ( arrivano fino a 24 miliardi) che ovviamente verrebbero sottratte alla spesa pubblica (Sanità, Scuola, Trasporti), cioè a noi, mentre gli speculatori e gli extraprofitti non vengono toccati.

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E’ evidente che l’appuntamento delle europee e i cinque anni successivi fino al 2029 su tantissimi fronti sono decisivi. Molto più del passato. Il Parlamento europeo, pur con i suoi evidenti limiti dovrà confermare o correggere regolamenti e direttive fondamentali: dalla verifica nel 2026 dello stop alla costruzione di nuove auto a motore endogeno nel 2035, alla coerenza di piani come il PNRR o il Repower-UE con la legislazione europea sul clima, che rende giuridicamente vincolante l'obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2050, obiettivi ad oggi già considerati irraggiungibili. Dagli obiettivi di riduzione dei consumi energetici delle abitazioni, alla riduzione del sostegno all’automotive e invece a favore del trasporto pubblico dedicato, senza attraversamenti stradali, attraverso lo sviluppo delle reti di metropolitane. Dal sostegno a forme di difesa dalla povertà con redditi di sopravvivenza  ad una legislazione di difesa del salario minimo in tutta la UE. Fino all’imposizione a livello europeo dei corridori umanitari e di integrazione per i migranti, unica strada accettabile dopo i fallimenti di destra e sinistra, oggi praticati     solo da piccole associazioni cattoliche. Tutte questioni sulle quali l’intera Europa può prendere direzioni diverse e ridistribuire le risorse del proprio bilancio.

E’ mia opinione che in un paese come il nostro è nelle grandi conurbazioni urbane malamente sviluppatesi nei primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, che la crisi diventerà in tempi brevi difficilmente gestibile e dove si impongono cambiamenti radicali. La crisi delle aree metropolitane deve assumere la centralità del dibattito politico anche a partire proprio dalle prossime scadenze europee. Nel nostro paese sono una cinquantina i Comuni di dimensione vicina o superiore ai 100mila abitanti, dei quali dieci superiori ai 300mila abitanti. Si tratta di circa 15 milioni di persone, un quarto del totale, dove si concentrano tutti i principali elementi di crisi sociale ed ambientale. Nelle grandi conurbazioni urbane si sta sviluppando la crisi ambientale con una diversa velocità rispetto ad altre aree. Si parla ormai di “isole di calore urbane” dove le condizioni di vivibilità si aggravano più rapidamente rispetto al resto del territorio a partire dalle temperature medie. Dati già di qualche anno fa dicono che in Italia Torino avesse il record (+1,9° ) seguita da Milano (+1,4°) ed altri grandi comuni della pianura padana. Valori simili avevano Berlino (+1,7°) e Londra (+1,6°). Altre metropoli come Los Angeles o Mosca per diversi motivi davano valori minori (+ 0,7°). Questi dati si sono di certo aggravati, non sappiamo con quale velocità, negli ultimi due-tre anni. Per l’Italia alcuni dati più recenti, ad esempio del CNR, fanno pensare che i delta indicati potrebbero già essere prossimi a raddoppiare (+3-4 gradi)  Le azioni concrete che si possono attuare, che comportano una radicale trasformazione delle città, da alcuni anni sono ormai abbastanza chiare:

1) E’ necessario aumentare  la coperture verde interna alle città con la diffusione e moltiplicazione  di grandi alberi a chioma folta e non soffocati dal cemento, la totale sospensione di qualunque disboscamento speculativo e l’allontanamento degli eventuali responsabili del tutto inadeguati. Ma serve anche una gestione della manutenzione del verde urbano di tipo nuovo, in particolare con l’irrigazione diffusa, dove possibile automatizzata, nei tre mesi più caldi e meno piovosi dell’anno in modo da garantire la sopravvivenza del verde e degli alberi,  comprese le nuove piantumazioni.

2) Serve utilizzare per la pavimentazione delle strade e per gli edifici materiali riflettenti a basso assorbimento di calore eliminando del tutto il tradizionale asfalto (catrame derivato dalla pirolisi del carbone e bitume derivato dalla distillazione del greggio di petrolio) sostituendoli con autobloccanti forati e con materiali naturali o di colore più chiaro, con minore assorbimento di calore e con un più alto indice di riflettanza solare. Questi materiali (cool materials) riducono sensibilmente  le temperature ambientali nelle strade ed abbattono il calore rilasciato durante la notte. Sono utilizzabili anche sui tetti (cool roof) e sono in grado di riflettere fino all’80% della radiazione solare. Dove è possibile bisogna procedere alla decementificazione tornando alle superfici naturali o a materiali adatti, alla moltiplicazione di strade e piazze pedonalizzate nel centro delle città trasformandole in zone verdi idonee allo sviluppo di aree commerciali ed artigianali immerse nel verde urbano.

3) Bisogna correggere l’anomalia italiana che vede un uso irresponsabile dell’auto e l’assenza di mezzi di mobilità collettiva adeguati. L’uso dell’auto va ridimensionato solo a quando è indispensabile e non ci sono efficaci alternative. Si tratta di un costo enorme: basti pensare che 50 anni fa un auto costava da due a quattro volte lo stipendio medio, oggi da sei a otto volte. Se si tiene conto anche della densità demografica siamo ormai la Nazione del pianeta con il più alto rapporto auto/abitanti. Nel 2022 siamo arrivati a 67 auto/100 abitanti, decisamente al di sopra della media europea (53) e di Francia (57) Germania, Gran Bretagna, Spagna ( circa 53 ), paesi che al contrario di noi stanno lentamente invertendo la tendenza a favore di metropolitane e mezzi pubblici moderni a basso impatto ambientale. Da dati del 2020 risulta che in Italia  il 76% degli spostamenti fanno ancora uso dell’auto e poco più del 10% hanno la possibilità di usare metro, treno o bus. Incredibilmente per 39,2 milioni di patentati ci sono 39,6 milioni di auto circolanti. Di queste circa l’80% utilizza alla pari benzina o gasolio (cioè i motori diesel). Elettriche e ibride, che comunque contribuiscono alla fonte e nelle ricariche alle emissioni, non raggiungono il 10%. Così come è avvenuto per le rinnovabili boicottate da parte delle società che gestiscono i derivati del petrolio e dei fossili, dal dopoguerra la lobby dell’auto ben accompagnata alla incompetenza e subordinazione della classe politica di destra e di sinistra, ha impedito lo sviluppo delle reti di metropolitane, l’unico modo, insieme ad alberi e pedonalizzazioni, per ridurre in modo significativo il traffico, l’inquinamento e le emissioni, oltre che i costi e tempi degli spostamenti. L’Italia con 240 km totali di linee metropolitane è il 16esimo paese del mondo dopo Turchia, Iran, Messico e Taiwan.

Solo Milano ha una parziale rete di metro con 104 km. Roma ha 60 Km di metro. Torino meno di 20 km. In Europa la metro è diffusa in decine di città: Londra (430 km), Madrid (295), Parigi (230), Berlino (160). Mosca e New York hanno circa 450 km di rete. Delhi 350 km. Washington e San Francisco 200 km. Decine di città della Cina hanno grandi reti di metropolitane: Shangai (800 km), Pechino (785), Canton (620), Shenzen (550), Chengdu (518).. Mentre si chiacchiera di transizione ecologica in Italia la mobilità resta saldamente ancorata all’auto. Oppure ai vecchi e rumorosi autobus e tram del secolo scorso condizionati da traffico, incroci e semafori che la metro non ha. Praticamente non si mettono risorse per lo sviluppo delle metropolitane. Il progetto della linea 2 a Torino è stato tagliuzzato ( prima dalla giunta Appendino, poi dal quella Lo Russo)  fino a renderlo quasi inutile, si dice per mancanza di alcune centinaia di milioni di euro per la linea completa, rimandata ad un indefinibile futuro. Nel  frattempo però è stato istituito un Fondo per lo sviluppo dell’Automotive  nel nord Italia, che dovrebbe rilanciare Mirafiori e dà contributi per le auto elettriche, di 8,7 miliardi fino al 2030 (650 milioni all’anno). Risorse con le quali si potrebbe finanziare quasi 100 km di rete metro. Abbiamo 240 km ma ne servirebbero circa 1000 che potremmo avere in 10-12 anni ( 6 - 7 mld all’anno, in realtà con un enorme risparmio di spesa pubblica e privata per la mobilità). Ma delle 50 città sopra i 100mila abitanti in almeno 45 non sono contemplati, ne finanziati,  interventi di alcun tipo.

bibliografia:  

10 validi motivi per volere più verde in città - /www.fritegotto.it – settembre 2014

“La città che scotta”: ecco i dati dell’isola di calore delle principali città italiane - www.meteoweb.eu – settembre 2015

Isole di calore, dal CNR la mappa del rischio nelle città italiane - www.buildnews.it – settembre 2015  

PNRR: al via Progetti per piantare 6,6 milioni di alberi nelle Città metropolitane - www.nextgeneration - aprile 2022

Le città devono pensare agli alberi come a un’infrastruttura di salute pubblica -  www.greenme.it - luglio 2022

Come si spostano gli italiani? Le nostre abitudini sulla mobilità - www.geopop.it - ottobre 2022

Più alberi per salvare le città: il nuovo studio - quifinanza.it - febbraio 2023

Più alberi per salvare il clima delle città - lab24.ilsole24ore.com - febbraio 2023

Metropolitane del mondo - it.wikipedia.org - maggio 2023

Metropolitana ( cosa è ) -  it.wikipedia.org - luglio 2023

Metropolitana in Italia - it.wikipedia.org – luglio 2023

Perché le città sognano gli alberi. Il verde urbano per contrastare le isole di calore - inexhibit.com – luglio 2023

Mobilità, la rivoluzione made in Germany: «Basta con le strade» - il manifesto - luglio 2023

 

10 agosto 2023

Salario minimo, per Meloni “rischia di creare condizioni peggiori, meglio la contrattazione collettiva”. L’esempio tedesco la smentisce

 La premier durante il question time a Montecitorio ha sostenuto che una paga base fissata per legge diventerebbe un parametro al ribasso. Quanto accade in Germania, dove il Mindestlohn esiste da 8 anni ed è stato alzato a 12 euro l'ora, sconfessa il suo ragionamento: i sindacati di settore trattano condizioni migliorative che possono essere estese a tutto il comparto, mentre il salario minimo è il paracadute per quei rapporti di lavoro che sfuggono ai contratti collettivi

di Daniele Fiori  ( il fattoquotidiano - 17 Marzo 2023 )

Giorgia Meloni è contro il salario minimo. Durante il question time a Montecitorio di mercoledì, caratterizzato dal primo faccia a faccia con la nuova segreteria Pd Elly Schlein, la presidente del Consiglio ha spiegato perché a suo parere una paga base fissata per legge sia controproducente, sostenendo che “nel nostro sistema, un parametro di questo tipo rischierebbe di creare per molti lavoratori condizioni peggiori di quelle che hanno oggi”. “Io la penso così“, ha tagliato corto Meloni, aggiungendo: “Credo che sia molto più efficace estendere la contrattazione collettiva anche nei settori nei quali non è prevista e credo sia efficace tagliare le tasse sul lavoro”. Il pensiero della premier però viene sconfessato dall’esempio di uno dei Paesi che l’Italia potrebbe prendere a modello per l’introduzione del salario minimo: la Germania. La legislazione tedesca infatti, accanto a una paga base stabilita per legge e aggiornata da una commissione governativa (in cui sono rappresentati sindacati e datori di lavoro), preserva proprio il ruolo della contrattazione collettiva. Così, oltre ad un salario minimo unitario per tutti, ne esistono altri specifici e più alti per i diversi settori.

Al congresso della Cgil i leader dei partiti di opposizione hanno provato a costruire una possibile piattaforma per il futuro, inserendo tra i temi centrali proprio il salario minimo. Schlein lo ha scelto come argomento d’esordio in Parlamento e Giuseppe Conte ora propone “un patto tra le opposizioni”, ricordando che d’altra parte è “una battaglia da sempre del M5s”. La commissione Lavoro della Camera esaminerà la prossima settimana tre proposte sul salario minimo: due firmate dai deputati Pd Serracchiani e Laus, la terza firmata dallo stesso Conte. Il M5s con l’ex ministra Nunzia Catalfo un primo ddl in materia l’aveva presentato già nel 2014, poi aggiornato e riproposto nella primavera 2021. In Italia però la discussione è rimasta al palo e uno degli argomenti da sempre utilizzati dai detrattori è quello rilanciato proprio dalla premier Meloni: il rischio che il salario minimo diventi un’occasione per i datori di lavoro per sfuggire alla contrattazione collettiva e applicare una paga più bassa. Questo rischio esiste già, perché l’Italia non ha una legge sulla rappresentanza sindacale per frenare i contratti pirata: l’articolo 39 della Costituzione, che prevedeva la registrazione dei sindacati in cambio della facoltà di stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria, è inattuato. E così possono proliferare accordi firmati da sigle minori, fittizie o “di comodo” che prevedono paghe da fame.

Nel frattempo in Germania il Mindestlohn, introdotto già 8 anni fa, è stato alzato a 12 euro l’ora lo scorso giugno dal governo Scholz. I lavoratori tedeschi però godono in molti settori di un salario minimo più alto: per il personale di assistenza negli ospizi è di 15 euro, nel settore della pulizia degli edifici è salito a 13 euro, in quello dell’edilizia è fissato a 12,85 euro. La legge tedesca sulla contrattazione collettiva prevede infatti all’articolo 5 che, al verificarsi di determinate condizioni, il ministero federale del Lavoro può dichiarare un contratto collettivo come generalmente vincolante per tutta una categoria di lavoratori. In altre parole, il contratto collettivo stipulato tra le organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative di un settore può essere esteso erga omnes. Così, in Germania il benchmark per ogni comparto diventa il salario minimo orario previsto dal contratto collettivo leader nel settore: sul sito del ministero del Lavoro è perfino possibile scaricare un elenco dei contratti collettivi dichiarati vincolanti per tutti. E la presenza di una paga base non impedisce di certo le battaglie sindacali: a fine febbraio, ad esempio, i dipendenti pubblici tedeschi hanno scioperato in massa per chiedere un adeguamento degli stipendi all’inflazione.

La legge tedesca quindi tutela e valorizza la contrattazione collettiva. E un’indicazione in tal senso è presente anche nelle proposte di M5s e Pd. Il ddl Catalfo puntava dichiaratamente a sostenere la contrattazione collettiva e non a sostituirla. Il testo prevedeva che per essere “sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”, la retribuzione non può essere inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore di riferimento e stipulato “dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Anche il ddl del Pd rilanciato da Nicola Zingaretti nel 2019 prevedeva di garantire l’applicazione dei contratti collettivi nazionali, secondo il principio per cui la giusta retribuzione deve essere quella stabilita dalla contrattazione collettiva. Il salario minimo invece è una garanzia nei settori in cui manca una disciplina contrattuale di riferimento.

L’esecutivo tedesco ha appunto sottolineato che l’esigenza di un salario minino unitario valido per tutti deriva dal fatto che sempre più lavoratori sfuggono al tetto dei contratti collettivi. In Italia in questo momento non è possibile calcolare la percentuale di copertura dei ccnl. L’ufficio di statistica tedesco, invece, ha potuto stimare che nel 2022 il 47% di tutti i rapporti di lavoro non rientrava nelle tariffe negoziali. Da qui la necessità di una soglia di dignità al di sotto della quale non si debba scendere, che per la legge tedesca deve essere adeguata regolarmente -seguendo parametri come l’inflazione – da una Commissione governativa, in cui sono rappresentati i sindacati e i datori di lavoro: è previsto che i futuri aumenti tariffari, oltre i 12 euro minimi, siano di nuovo decisi con lo stesso meccanismo. L’obiettivo è appunto tutelare il mercato del lavoro tedesco dal dumping salariale e concorrere a ridurre il ricorso a manodopera con contratti brevi (anche se, va ricordato, in Germania esistono i mini-job da 520 euro mensili a orario ridotto).

Il rischio paventato da Meloni che il salario minimo possa creare “per molti lavoratori condizioni peggiori di quelle che hanno oggi” viene inoltre smentito delle evidenze emerse dalla ricerca economica, che hanno dimostrato negli anni come l’aumento del salario minimo non riduca l’occupazione. L’economista David Card ha vinto il premio Nobel proprio grazie ai suoi studi condotti nel 1994 con Alan B. Kruger sull’impatto del salario minimo nell’industria dei fast food in New Jersey e Pennsylvania: la loro ricerca ha dimostrato che l’aumento della paga non ha ridotto il livello occupazionale. Le evidenze empiriche dimostrano che lo stesso è accaduto in Germania, dove nel frattempo sono aumentate le retribuzioni. In più, alcuni economisti che studiano i meccanismi dietro il funzionamento delle economie capitalistiche hanno evidenziato che salari troppo bassi non fanno che alimentare un circolo vizioso, incentivando le aziende a puntare su produzioni a basso valore aggiunto: al contrario, aumentare i salari minimi spinge ad adottare modelli produttivi più efficienti.

Inoltre, la premier Meloni dimentica che l’Italia è un Paese in cui negli ultimi 30 anni i salari sono cresciuti appena dello 0,3 per cento: un incremento infinitesimale rispetto agli aumenti di cui hanno goduto i lavoratori francesi e gli stessi tedeschi (+33 per cento). Per questo da tempo sociologi, economisti ed esperti chiedono l’introduzione anche in Italia di un salario minimo legale per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori (compresi quelli non coperti dai contratti collettivi) e mettere un freno al dumping salariale. Accanto al salario minimo, serve una legge per far valere i contratti collettivi “principali” di ogni settore per tutti gli occupati di quel comparto. Peraltro, è quanto previsto dalla direttiva europea del 25 ottobre 2022. “Tutto però deve essere accompagnato da un enorme aumento della capacità di controllo del rispetto dei contratti stessi e dei loro minimi”, aveva spiegato a ilfattoquotidiano.it Michele Raitano, ordinario di Politica economia alla Sapienza. Ovviamente, per evitare rischi di effetti distorsivi, oltre alle norme servono sempre i controlli.

nella foto: Il Bundestag ha approvato l'aumento che scatta a partire dal prossimo primo ottobre.

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