25 marzo 2021

Pandemia, un anno di errori assai poco innocenti

Un anno di covid. Una generazione (gli anziani) è stata falcidiata, un'altra consegnata all'isolamento e al disagio (infanzia e adolescenza), le famiglie (specialmente le donne) precarietà.

 di Marco Bersani *

Dall’inizio della pandemia, e senza soluzione di continuità fra governo Conte e governo Draghi, le misure messe in atto per fronteggiarla hanno seguito sei precise traiettorie, ispirate da una comune quanto discutibile idea generale.

Le sei direzioni dell’intervento sono:

a) ridurre al minimo le restrizioni all’attività delle imprese, che, quasi ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli;


b) intervenire con sussidi, il 70% dei quali per sostenere le imprese stesse e il restante 30% per tamponare in qualche modo la disperazione sociale;

c) nessun intervento sul sistema sanitario, che ha continuato ad essere privo di ogni dimensione territoriale e ad essere focalizzato sull’ospedalizzazione, determinandone la saturazione ad ogni nuova ondata di contagi;

d) nessun intervento sul sistema dei trasporti pubblici locali, che hanno continuato ad essere veicoli di contagio per le persone costrette ad utilizzarli;

e) focalizzazione delle scuole come problema, con la sostanziale chiusura per due anni scolastici di scuole superiori e università, e chiusure continue, in alcune regioni continuative, anche delle scuole dell’obbligo;

f) narrazione colpevolizzante dei comportamenti individuali, raccontati come causa primaria di ogni aumento dei contagi.

L’idea guida è stata che il benessere delle imprese determina il benessere della società e che, di conseguenza, quest’ultima deve adattarsi alle necessità delle stesse. Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: c’è qualcuno che, a un anno di distanza dall’arrivo dell’epidemia e dopo oltre 105.000 morti (ad oggi), ha l’onestà intellettuale di fare un bilancio serio sull’efficacia delle misure prese? Non si direbbe. E allora proviamo a farlo noi.

Partiamo dai dati sulle imprese, che dimostrano come l’unica strategia che alberga in Confindustria sia il “chiagn’e fotte”. Secondo i dati Eurostat, la produzione industriale da dicembre scorso è in continua crescita, mentre il dato di gennaio 2021 è inferiore a quello di gennaio 2020 solo del 2,4%, una riduzione che assomiglia molto più a una oscillazione congiunturale che non all’esito di un anno di pandemia. E che spiega molto più di mille analisi perché nei distretti più industrializzati d’Europa - Bergamo e Brescia - la pandemia si sia trasformata in una carneficina.

Dunque, l’industria, se non proprio bene, male non sta. Vale lo stesso per la società? Non si direbbe proprio: in un anno, nonostante il blocco dei licenziamenti, si sono persi ben 456mila posti di lavoro; nel contempo, sono oltre 1 milione i nuovi poveri, dato che porta il totale a 5,6 milioni (una persona su dieci). Facile intuire come la gran parte di questi effetti sia stata scaricata sulle donne, le prime a perdere il posto di lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di isolamento e di fortissimo disagio economico, sociale, relazionale (come dimostra l’aumentato numero di violenze subite all’interno delle mura domestiche).

Nel frattempo si sono prese di mira le scuole, additate come i luoghi principali del contagio (e non come i luoghi del sicuro tracciamento dello stesso), consegnando un’intera generazione ad una vita sospesa davanti a un computer, priva di sogni e di socialità, come si evince dall’aumento del 40% del disagio psicosociale fra bambini e adolescenti.

In un anno di interventi, una generazione (gli anziani) è stata falcidiata, un’altra è stata consegnata all’isolamento e al disagio (infanzia e adolescenza), mentre l’insieme delle famiglie è stato costretto alla precarietà, scaricandone gli effetti in particolare sulle donne.

Tutto questo per evitare ciò che avrebbe dovuto essere fatto già all’inizio: un vero, completo e molto più breve lockdown, a cui far seguire una strategia di tutela delle fasce più fragili della società, con un reddito di emergenza per tutti, investimenti massicci per una sanità pubblica e territoriale, per una scuola aperta e sicura, per trasporti locali degni.

Un’inversione delle priorità del modello economico-sociale per mettere il “prendersi cura” al posto dei profitti, la coesione sociale al posto del “Bergamo is running”, l’interdipendenza fra le persone al posto della solitudine competitiva. Per evitare tutto questo, si è alimentata una narrazione di colpevolizzazione dei comportamenti individuali che, al netto di casi deprecabili ma quantitativamente insignificanti, sono stati additati come la ragione unica della diffusione del virus, indicando ogni volta l’untore di turno.

Se questo è vero, possiamo prendere atto che non sono i profitti delle imprese a determinare il benessere della società? Possiamo lasciar chiagnere Confindustria (è il suo mestiere) ma evitare per una volta di farci fottere? Possiamo dire che è l’economia a doversi mettere al servizio dell’ecologia e della società e non il contrario? Possiamo scendere nelle piazze e rivendicare che non abbiamo bisogno di alcun Recovery Plan che rilanci l’esistente, ma di un Recovery PlanET per progettare assieme una diversa società?

nella foto: Murale di Lionel Stanhope

* da il manifesto  - 25 marzo 2021

23 marzo 2021

Crisi turca, il Sultano resta senza una lira

 Il crollo della moneta nazionale. Un duro colpo all’economia speculativa di Erdogan. Che già è in debito di consensi. Vengono al pettine i nodi di politiche basate su denaro a buon mercato, imprese indebitate, opere faraoniche senza coperture e una bolla immobiliare che nessuno sa più come pagare


 di Alberto Negri *

L’Erdogan-economy si sta sgretolando. Fu la crisi economica degli anni precedenti che nel 2002 proiettò al potere Erdogan e il suo partito Akp, oggi una nuova crisi finanziaria, con il crollo della lira turca, rischia di minare un ventennio di predominio del Sultano. Vengono al pettine i nodi di un’economia speculativa che ha puntato sul denaro a buon mercato, il credito al consumo, l’indebitamento delle imprese, le faraoniche opere pubbliche realizzate senza copertura, la colata di cemento dei grandi resort alberghieri e una bolla immobiliare che nessuno sa più come pagare.

IL CROLLO DEL TURISMO per il Covid, che generava la maggior parte delle entrate valutarie, e il calo drastico degli investimenti dall’estero durante la pandemia hanno assestato un colpo decisivo. La Turchia affluente e corteggiata dai mercati è un pallido ricordo. Come in Libano anche la Turchia vive una sorta di agonia economica e finanziaria che è anche ovviamente politica.

Già in crisi di consensi, Erdogan adesso sta facendo di tutto per recuperarli perché sempre di più si fa strada la consapevolezza nella popolazione e nelle élite economiche che le imprese militari in Siria, Libia, nel Caucaso e le tensioni nel Mediterraneo orientali con l’Europa siano diventate soprattutto armi di distrazione di massa per gli 80 milioni di turchi precipitati nella peggiore crisi economica dell’ultimo ventennio. Per di più c’è il contrasto con Biden, irritato per gli accordi di Ankara con Mosca sugli S-400 e gli affari nel gas. Erdogan lotta come un leone in gabbia e in questi mesi sta provando tutto e il contrario di tutto: prima, dopo anni di lassismo, ha tentato la via dell’austerità e del contenimento dell’inflazione, adesso torna sulla strada del basso costo del denaro che però i mercati hanno accolto assai male con il crollo della lira su dollaro ed euro fino alla chiusura della Borsa di Istanbul per eccesso di ribasso.

LA CRISI VIENE DA LONTANO ma a innescare l’ultimo atto di sfiducia dei mercati è stato il licenziamento del governatore della Banca centrale Naci Agbal, nominato soltanto cinque mesi fa. A sostituirlo è stato chiamato Sahap Kavcioglu, economista, ex parlamentare dell’Akp, editorialista di Yeni Safak, che aveva molto criticato le decisioni dell’ex governatore. Agbal infatti giovedì scorso aveva promulgato una stretta di politica monetaria aumentando il tasso d’interesse di riferimento al 19%, per contrastare l’inflazione e sostenere la lira. La rimozione è stata motivata dalle sue scelte, vista la contrarietà del presidente Erdogan ai tassi di interesse elevati. Agbal era stato chiamato alla guida della Banca centrale in novembre: la lira turca aveva toccato il record negativo di 8,58 sul dollaro Usa e con lui aveva rapidamente riacquistato circa il 15% del suo valore sul dollaro. È da notare che in un paio di anni la lira turca aveva già perso il 40% del suo valore, aumentando il costo dell’indebitamento e prosciugando le riserve valutarie bruciate sui mercati per difenderne la quotazione. Una situazione insostenibile.

L’ASCESA DI AGBAL era stata così accompagnata dalle dimissioni al ministero delle Finanze, del genero di Erdogan, Berat Albayrak, invischiato in tutti gli affari della repubblica.
Ma dopo aver stabilizzato la situazione, è tornata l’insofferenza di Erdogan verso le politiche restrittive della Banca centrale e il presidente ha silurato il governatore. Erdogan è infatti ostile agli alti tassi di interesse, ritenendo, contrariamente alle teorie economiche tradizionali, che peggiorino l’inflazione.

MESSO SOTTO PRESSIONE dai mercati e dai disinvestimenti esteri già nel 2013, all’epoca della rivolta di Gezi Park, Erdogan allora aveva definito le agenzie di rating la «lobby dei tassi di interesse». Ma l’economia tirava ancora e i soldi degli europei e delle monarchie del Golfo come il Qatar coprivano le magagne strutturali di un sistema fondato sul denaro a buon mercato per le imprese legate all’Akp, le cosiddette «Tigri anatoliche»: queste sono lo zoccolo elettorale di Erdogan che alle ultime amministrative ha perso sia Istanbul che Ankara, un segnale inequivocabile di perdita di popolarità.

PIÙ CHE ALLA «LOBBY DEI TASSI di interesse» accusata da Erdogan, la crisi è dovuta alla megalomania di un leader che ha voluto cambiare il volto del Paese mettendoci anche le mani sopra: uno dei più grandi conglomerati è la Cialik Holding, società che ha goduto di facile credito presieduta proprio dal genero del presidente. Adesso non si riesce a ripagare i debiti contratti per fare ponti giganteschi o aeroporti ormai mezzi vuoti, come quello di Istanbul da 29 miliardi. E ora chi se li compera se non rendono utili? Ma i cinesi, ovvio, che oltre a mandare i vaccini stanno acquistando a prezzi scontati i ponti (Yavuz Sultan), i porti dei container (Mar di Marmara) e persino le piattaforme di e-commerce (Ali Baba). Insomma qualcuno che ci guadagna da una crisi si trova sempre.

nella foto: 22 marzo 2021, i tassi di cambio esposti su una strada di Istanbul

* da il manifesto  23 marzo 2021

20 marzo 2021

L’India prende di mira gli attivisti per il clima con l’aiuto dei colossi del Big Tech

 di Naomi Klein (The Intercept)

Giganti tecnologici come Google e Facebook sembrano aiutare e favorire una feroce campagna governativa contro gli attivisti indiani per il clima


 La confusione di telecamere che si sono accampate fuori dalla tentacolare prigione di Tihar di Delhi era il tipo di frenesia mediatica che ci si sarebbe aspettati da un primo ministro coinvolto in uno scandalo di appropriazione indebita, o forse una star di Bollywood intrappolata nel letto sbagliato. Le telecamere stavano invece aspettando Disha Ravi, un’attivista vegana del clima di 22 anni amante della natura che contro ogni previsione si è trovata intrappolata in una saga legale orwelliana che include accuse di sedizione, istigazione e coinvolgimento in una cospirazione internazionale i cui elementi includono (ma non si limitano a): agricoltori indiani in rivolta, la popstar globale Rihanna, presunte trame contro lo yoga e la chai, separatismo Sikh, e Greta Thunberg.

Se si pensa che sembri inverosimile, be’, la pensava così anche il giudice che ha rilasciato Ravi dopo nove giorni di carcere sotto interrogatorio della polizia. Il giudice Dharmender Rana avrebbe dovuto decidere se a Ravi, una delle fondatrici del capitolo indiano di Fridays For Future – il gruppo giovanile per il clima fondato da Thunberg – dovesse continuare a essere negata la cauzione. Stabilì che non c’era motivo di negare la cauzione, il che sgombrò la strada al ritorno di Ravi nella sua casa di Bengaluru (nota anche come Bangalore) quella stessa notte. Ma il giudice ha anche sentito la necessità di andare molto oltre, di emettere una sentenza di 18 pagine impietose su questo caso, che ha attanagliato i media indiani per settimane, emettendo il suo verdetto personale sulle varie spiegazioni fornite dalla polizia di Delhi per il motivo per cui Ravi era stata arrestata in primo luogo.

Le prove della polizia contro la giovane attivista per il clima sarebbero, testuali parole, “imprecise e imprecise“, e non c’è “nemmeno uno straccio” di prova a sostegno delle affermazioni di sedizione, istigazione o cospirazione che sono state usate contro di lei e almeno altri due giovani attivisti. Benché l’accusa del complotto internazionale sembri cadere a pezzi, l’arresto di Ravi ha messo in luce un diverso tipo di collusione, questa tra il governo nazionalista indù sempre più oppressivo e antidemocratico del primo ministro Narendra Modi e le aziende della Silicon Valley, i cui strumenti e piattaforme sono diventati il mezzo principale per le forze governative per incitare all’odio contro minoranze e critici vulnerabili – e per la polizia per intrappolare attivisti pacifici come Ravi in una rete digitale ad alta tecnologia.

Il caso contro Ravi e i suoi “seguaci” si basa interamente sugli usi di routine di noti strumenti digitali: gruppi WhatsApp, un Google Doc modificato collettivamente, un incontro privato Zoom e diversi tweet di alto profilo, presunte prove in una caccia all’attivista sponsorizzata dallo stato e amplificata dai media. Allo stesso tempo, proprio questi strumenti sono stati utilizzati in una campagna di messaggistica coordinata pro-governativa per indirizzare l’opinione pubblica contro i giovani attivisti e il movimento degli agricoltori da loro sostenuto, tutto questo spesso in palese violazione dei guardrail che le società di social media affermano di aver eretto per prevenire violenti incitamenti sulle loro piattaforme.

In una nazione in cui l’odio virtuale si è ribaltato con frequenza agghiacciante nei pogrom reali che prendono di mira donne e minoranze, i sostenitori dei diritti umani avvertano che l’India è sul bordo di una terribile violenza, forse anche il tipo di spargimento di sangue genocida che i social media hanno aiutato e favorito contro i Rohingya in Myanmar. Attraverso tutto questo, i giganti della Silicon Valley sono rimasti eloquentemente silenziosi, la loro famosa devozione alla libertà di espressione, così come il loro ritrovato impegno nella lotta contro l’incitamento all’odio e le teorie cospirative, non si trova, in India, da nessuna parte. Al suo posto c’è una crescente e agghiacciante complicità con la guerra dell’informazione di Modi, una collaborazione che è pronta a essere fissata in base a una nuova legge draconiana sui media digitali che renderà illegale per le aziende tecnologiche rifiutarsi di cooperare con le richieste del governo di eliminare il materiale incriminato o di violare la privacy degli utenti tecnologici.

La complicità nelle violazioni dei diritti umani, a quanto pare, è il prezzo per mantenere l’accesso al più grande mercato di utenti di media digitali al di fuori della Cina. Dopo alcune prime resistenze da parte dell’azienda, gli account Twitter critici nei confronti del governo Modi sono scomparsi a centinaia senza spiegazioni; i funzionari governativi impegnati nell’esplicito incitamento all’odio su Twitter e Facebook sono stati autorizzati a continuare a violare chiaramente le politiche delle aziende; e la polizia di Delhi si vanta di ottenere una collaborazione proficua da Google mentre sorvegliano le comunicazioni private di attivisti pacifici per il clima come Ravi. “Il silenzio di queste aziende è eloquente”, mi ha detto un attivista per i diritti digitali, chiedendo l’anonimato per paura di essere punito “Devono prendere posizione, e devono farlo ora.”

Il primo ministro Modi prevede di collegare 600.000 villaggi attraverso l’India usando il cavo in fibra ottica come parte del suo “sogno” di espandere l’economia della più grande democrazia del mondo per 20 trilioni di dollari. Indicato dalla stampa indiana in vari modi, come il “caso toolkit”, il “toolkit Greta” e la “cospirazione del toolkit”, l’indagine in corso della polizia su Ravi, insieme ai colleghi attivisti Nikita Jacob e Shantanu Muluk, si concentra sul contenuto di una guida sui social media che Thunberg ha twittato ai suoi quasi 5 milioni di follower all’inizio di febbraio. Quando Ravi è stata arrestata, la polizia di Delhi ha dichiarato che “è un’editor del Toolkit Google Doc e cospiratrice chiave nella formulazione e diffusione del documento. Ha iniziato sui gruppi WhatsApp e ha collaborato per creare il documento Toolkit. Ha lavorato a stretto contatto con loro per redigere il Doc“. Il kit non era altro che un Google Doc messo insieme da una collezione ad hoc di attivisti in India e pensato per generare sostegno al movimento degli agricoltori che da mesi sta organizzando proteste enormi e implacabili.

Gli agricoltori si oppongono a una serie di nuove leggi agricole che il governo di Modi ha promosso sotto la copertura della pandemia di coronavirus. Al centro delle proteste c’è la convinzione che, eliminando le protezioni dei prezzi di lunga data per le colture e aprendo il settore agricolo a maggiori investimenti privati, i piccoli agricoltori dovranno affrontare una “condanna a morte”, e le terre fertili dell’India cadranno nelle mani di alcuni grandi attori aziendali. Molti non agricoltori hanno cercato svariati modi per aiutare, sia in India che nella diaspora globale dell’Asia meridionale. Il movimento per il clima guidato dai giovani ha sentito una particolare responsabilità nel farsi avanti. Come ha detto Ravi in tribunale, sostiene gli agricoltori “perché sono il nostro futuro, e tutti abbiamo bisogno di mangiare“. E ha anche indicato una connessione con la questione climatica. Siccità, ondate di calore e inondazioni sono diventate tutte più intense negli ultimi anni, e gli agricoltori indiani sono in prima linea e spesso perdono le loro colture e mezzi di sostentamento, esperienze che Ravi conosce in prima persona, come testimonia la lotta dei suoi nonni contro le calamità climatiche. Allo stesso modo di innumerevoli documenti di questo tipo dell’era dell’organizzazione digitale, il toolkit al centro di questa controversia contiene un insieme di suggerimenti familiari su come le persone possono esprimere la loro solidarietà agli agricoltori indiani, principalmente sui social media.

Twitta il tuo sostegno agli agricoltori indiani. Usa hashtag #FarmersProtest #StandWithFarmers”; scattare una foto o un video di te stesso dicendo che sostieisci gli agricoltori; firmare una petizione; scrivere al vostro rappresentante; partecipare a un “tweetstorm” o “digital strike”; partecipare a una delle proteste di persona, sia all’interno dell’India che presso un’ambasciata indiana nel vostro paese; per saperne di più partecipando a una sessione di informazioni zoom. Una prima versione del documento (presto cancellata) parlava di sfidare la pace e l’amore dell’India, l’immagine pubblica dello “yoga & chai“.

Praticamente ogni grande campagna attivista genera guide pratiche clicktivist esattamente come questa. La maggior parte delle organizzazioni non governative di medie dimensioni ha qualcuno il cui compito è redigere tali documenti e inviarli a potenziali sostenitori e “influencer”. Se sono illegali, allora l’attivismo contemporaneo stesso è illegale. Se Ravi è stata arrestata e imprigionata per un presunto ruolo di editor del toolkit, è perché si vuole criminalizzarla per aver fatto sembrare l’India cattiva di fronte al mondo. In base a tale definizione, tutte le attività internazionali in materia di diritti umani dovrebbero essere chiuse, poiché tale lavoro raramente pone i governi sotto una luce lusinghiera.

Su questa contraddizione ha insistito il giudice che si è pronunciato sulla cauzione di Ravi: “I cittadini sono portatori di una coscienza propria in qualsiasi Nazione democratica. Non possono essere messi dietro le sbarre semplicemente perché scelgono di non essere d’accordo con le politiche statali”, ha scritto. Per quanto riguarda la condivisione del toolkit con Thunberg, “la libertà di parola e di espressione include il diritto di cercare un pubblico globale”.

Sembra ovvio. Eppure in qualche modo questo documento relativamente innocuo è stato collegato da più funzionari governativi come qualcosa di molto più nefasto. Il generale VK Singh, ministro di Stato di Modi per il trasporto su strada e le autostrade, ha scritto in un post su Facebook che il toolkit “ha rivelato i veri progetti di una cospirazione a livello internazionale contro l’India. Necessità di indagare sulle parti che tirano le fila di questo apparato malvagio. Sono state fornite istruzioni chiare sul “come”, “quando” e “cosa”. Cospirazioni di queste dimensioni vengono scoperte sempre più spesso”. La polizia di Delhi prese rapidamente spunto e si premurò di trovare prove di questa cospirazione internazionale per “diffamare il paese” e minare il governo, usando una legge draconiana di sedizione dell’era coloniale. Ma non si è fermato qui. Il toolkit è anche accusato di far parte di un complotto segreto per rompere l’India e formare uno stato sikh chiamato Khalistan, perché un indo-canadese con sede a Vancouver, che ha contribuito a metterlo insieme ha espresso una certa simpatia per l’idea di una patria sikh indipendente (non un crimine e non menzionato da nessuna parte nel toolkit). E, sorprendentemente, per un Google Doc che la polizia sostiene sia stato scritto principalmente in Canada, questo stesso toolkit è accusato di istigazione e possibilmente complotto violento durante un “raduno dei trattori” dei grandi agricoltori a Delhi il 26 gennaio. Per settimane, queste affermazioni sono diventate virali online, in gran parte nell’ambito di campagne di hashtag coordinate e guidate dal Ministero degli Affari Esteri indiano e riportate fedelmente dalle più importanti star di Bollywood e del cricket. Anil Vij, un ministro del governo nello stato di Haryana, ha twittato in hindi che “chiunque abbia nella testa semi di antinazionalismo deve essere distrutto fin dalle radici, sia essa #Disha_Ravi o chiunque altro“.

Quando è stato messo all’indice come un ovvio esempio di incitamento all’odio da parte di una figura potente, Twitter ha affermato che il post non violava le sue politiche e lo ha lasciato sulla piattaforma. La stampa e la radio indiane hanno ripetuto inesorabilmente le assurde accuse di sedizione, con oltre 100 stories su Ravi e il toolkit che è apparso sul Times of India. I notiziari televisivi hanno pubblicato delle rivelazioni in stile cronaca nera sulla “cospirazione” del toolkit internazionale. Non sorprende che la rabbia si sia riversata nelle strade, con le foto di Thunberg e Rihanna (che hanno anche twittato a sostegno dei contadini) bruciate durante le manifestazioni nazionaliste. Lo stesso Modi si è pronunciato, parlando di nemici che si sono “abbassati così in basso da non risparmiare nemmeno il tè indiano” – prendendo come riferimento la linea “tea & yoga” che è stata cancellata. Poi, all’inizio di questa settimana, l’intero caos inizia a sembrare più calmo. Rana, nell’ordine di rilascio di Ravi, ha scritto che “l’esame del suddetto ‘Toolkit’ rivela che qualsiasi incitamento a qualsiasi tipo di violenza è vistosamente assente“. Anche l’affermazione che il kit fosse un complotto secessionista era del tutto infondata , ha scritto, si è trattato di un’elaborata supposizione di colpa per associazione.

Per quanto riguarda l’accusa, secondo cui la diffusione di informazioni critiche sul trattamento riservato dall’India agli agricoltori e ai difensori dei diritti umani ed attivisti di spicco come Thunberg costituisce “sedizione”, il giudice è stato particolarmente duro. “Il reato di sedizione non può essere invocato per guarire la vanità ferita dei governi“. Il caso è in corso, ma la sentenza rappresenta un duro colpo per il governo e una rivendicazione per il movimento contadino e le campagne di solidarietà che lo sostengono. Tuttavia, non è certo una vittoria. Anche se il caso del toolkit perde forza a causa dello schiaffo del giudice, è solo una delle centinaia di campagne che il governo indiano sta conducendo per dare la caccia ad attivisti, organizzatori e giornalisti. Anche la sindacalista Nodeep Kaur, un anno più vecchia di Ravi, è stata incarcerata per il suo sostegno agli agricoltori. Appena rilasciata su cauzione, Kaur ha affermato in tribunale di essere stata duramente picchiata mentre era in custodia di polizia. Nel frattempo, centinaia di contadini rimangono dietro le sbarre e alcuni degli arrestati sono scomparsi.

Il progetto politico di Modi rappresenta una potente fusione dello sciovinismo indù scatenato con il potere aziendale altamente concentrato. Gli agricoltori sfidano questo duplice progetto, sia nella loro insistenza sul fatto che il cibo dovrebbe rimanere al di fuori delle logiche di mercato, sia nella comprovata capacità del movimento di costruire potere attraverso le divisioni religiose, etniche e geografiche che sono la linfa vitale dell’ascesa al potere di Modi. Ravinder Kaur, professore all’Università di Copenaghen e autore di “Brand New Nation: Capitalist Dreams and Nationalist Designs in Twenty-First-Century India“, scrive che quella degli agricoltori è “forse la più grande mobilitazione di massa nella storia dell’India postcoloniale, che abbraccia le popolazioni rurali e urbane e unisce la rivolta contro il capitalismo deregolamentato alla lotta per le libertà civili“.  Per la potente fusione di Modi del capitale transnazionale con uno stato ipernazionalista, “la mobilitazione contro la legge agricola rappresenta la sfida più sostenuta e diretta contro questa alleanza fino ad ora“.

Le proteste degli agricoltori a Delhi e dintorni sono state accolte con cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e arresti di massa. Ma continuano ad arrivare, troppi per essere sconfitti solo con la forza. Questo è il motivo per cui il governo di Modi è stato così determinato a trovare modi per minare il movimento e sopprimere il suo messaggio, bloccando ripetutamente Internet prima delle proteste e facendo pressioni con successo su Twitter per cancellare oltre un migliaio di account a favore degli agricoltori. È anche il motivo per cui Modi ha cercato di infangare le acque con racconti di strumenti subdoli e cospirazioni internazionali. Una lettera aperta firmata da dozzine di attivisti ecologisti indiani dopo l’arresto di Ravi ha sottolineato questo punto: “Le attuali azioni del governo centrale sono tattiche diversive per distrarre le persone da questioni reali come il costo sempre crescente del carburante e dei prodotti essenziali, la disoccupazione diffusa e l’angoscia causate dal lockdown senza un piano e dalla situazione allarmante dell’ambiente”. Questa è una ricerca di un diversivo politico, in altre parole, che aiuta a spiegare come una semplice campagna di solidarietà sia stata riformulata come un complotto segreto per distruggere l’India e incitare alla violenza dall’estero. Il governo di Modi sta tentando di trascinare il dibattito pubblico lontano dal terreno in cui è palesemente debole – soddisfare i bisogni fondamentali delle persone durante una crisi economica e una pandemia – e spostarlo sul terreno su cui prospera ogni progetto etno-nazionalista: noi contro loro, addetti ai lavori contro estranei, patrioti contro traditori sediziosi. In questa manovra, Ravi e il più ampio movimento giovanile per il clima erano semplicemente danni collaterali. Eppure, il danno fatto è considerevole, non solo perché gli interrogatori sono in corso e il ritorno in prigione di Ravi rimane decisamente probabile. Come afferma la lettera congiunta degli attivisti ambientali indiani, il suo arresto e la detenzione hanno già raggiunto uno scopo: “L’azione del governo è chiaramente focalizzata nel terrorizzare e traumatizzare questi giovani coraggiosi per aver detto la verità al potere, equivale a insegnare loro una lezione.” Il danno ancora più ampio è il raffreddamento che l’intera controversia sui toolkit ha posto al dissenso politico in India – con la silenziosa complicità delle società tecnologiche che una volta pubblicizzavano i loro poteri per aprire società chiuse su se stesse e diffondere la democrazia in tutto il mondo. Come dice un titolo, “L’arresto di Disha Ravi mette in dubbio la privacy di tutti gli utenti di Google India”. In effetti, il dibattito pubblico è stato così profondamente compromesso che molti attivisti in India stanno entrando in clandestinità, cancellando i propri account sui social media per proteggersi. Persino i difensori dei diritti digitali diffidano dall’essere citati.

Chiedendo di non essere nominato, un ricercatore in ambito legale ha descritto una pericolosa convergenza tra un governo esperto nella guerra dell’informazione e le società di social media basate sulla massimizzazione dell’impegno per estrarre i dati dei propri utenti: “Tutto questo deriva da un più forte uso delle piattaforme di social media da parte del status quo, qualcosa che non era presente prima. Ciò è ulteriormente aggravato dalla tendenza di queste aziende a dare la priorità a contenuti più virali ed estremisti, che consente loro di monetizzare l’attenzione degli utenti, a vantaggio delle loro motivazioni di profitto“. Dal suo arresto, le viscere della vita digitale privata di Ravi sono state messe a disposizione di tutti, raccolte da voraci media nazionali. Programmi televisivi e giornali ossessionati dai suoi messaggi di testo privati ​​a Thunberg e da altre comunicazioni tra attivisti che non facevano altro che modificare un opuscolo online.

La polizia, nel frattempo, ha ripetutamente insistito sul fatto che la decisione di Ravi di eliminare un gruppo WhatsApp era la prova che aveva commesso un crimine, piuttosto che una risposta razionale ai tentativi del governo di trasformare la pacifica organizzazione digitale in un’arma diretta ai giovani attivisti. Gli avvocati di Ravi hanno chiesto al tribunale di ordinare alla polizia di smettere di far trapelare le sue comunicazioni private alla stampa – informazioni che apparentemente provengono dal sequestro di telefoni e computer. Volendo ancora più informazioni private per le loro indagini, la polizia di Delhi ha anche presentato richieste a diverse importanti società tecnologiche. Hanno chiesto a Zoom di rivelare l’elenco dei partecipanti a una riunione di attivisti privati ​​che dicono si riferisca al toolkit; la polizia ha fatto diverse richieste a Google per informazioni su come il toolkit è stato pubblicato e condiviso. E secondo le notizie, la polizia ha chiesto anche a Instagram (di proprietà di Facebook) e Twitter informazioni relative al toolkit. Non è chiaro quali società abbiano risposto e in quale misura. La polizia ha pubblicamente propagandato la collaborazione di Google, ma Google e Facebook non hanno risposto alla richiesta di commento di The Intercept. Zoom e Twitter hanno fatto riferimento alle loro politiche aziendali, in cui si afferma che rispetteranno le leggi nazionali. Il che potrebbe essere il motivo per cui il governo Modi ha scelto questo momento per introdurre una nuova serie di regolamenti che gli conferirebbero livelli di controllo sui media digitali così draconiani da avvicinarsi al grande firewall cinese. Il 24 febbraio, il giorno dopo il rilascio di Ravi dal carcere, Reuters ha riferito delle “Linee guida per gli intermediari e codice etico per i media digitali” pianificate dal governo Modi.

Le nuove regole richiederanno alle società di media di rimuovere i contenuti che mettono a repentaglio “la sovranità e l’integrità dell’India” entro 36 ore dal relativo ordine del governo – una definizione così ampia che potrebbe facilmente includere offese contro lo yoga e il chai. Il nuovo codice afferma inoltre che le società di media digitali devono collaborare con le richieste di informazioni sui propri utenti da parte del governo e della polizia entro 72 ore. Ciò include le richieste di rintracciare la fonte originaria di “informazioni pericolose” su piattaforme e forse anche app di messaggistica crittografate. Il nuovo codice viene introdotto nel nome della protezione della società eterogenea dell’India e del blocco dei contenuti volgari. “Un editore deve tenere in considerazione il contesto multirazziale e multireligioso dell’India ed esercitare la dovuta cautela e discrezione quando presenta le attività, le credenze, le pratiche o le opinioni di qualsiasi gruppo razziale o religioso”, afferma la bozza delle regole. In pratica, tuttavia, il BJP ha uno degli eserciti di troll più sofisticati del pianeta, i suoi stessi politici sono stati i promotori più rumorosi e aggressivi di discorsi d’odio diretti a minoranze vulnerabili e critici di ogni tipo. Per citare solo uno dei tanti esempi, diversi politici del BJP hanno partecipato attivamente a una campagna di disinformazione sostenendo che i musulmani stavano deliberatamente diffondendo il Covid-19 come parte di una ” Jihad del covid”. Ciò che un codice come questo farebbe è sancire per legge la doppia vulnerabilità digitale sperimentata da Ravi e altri attivisti: non sarebbero protetti dalle folle online sollevate da uno stato nazionalista indù, e non sarebbero protetti dalle ricerche di quello stesso stato pronto a violare la loro privacy digitale per qualsiasi pretesto.

Apar Gupta, direttore esecutivo del gruppo per i diritti digitali Internet Freedom Foundation, ha espresso particolare preoccupazione per parti del nuovo codice che potrebbero consentire ai funzionari governativi di rintracciare gli autori dei messaggi su piattaforme come WhatsApp. Questo, ha detto all’Associated Press, “mina i diritti degli utenti e può portare all’autocensura se gli utenti temono che le loro conversazioni non siano più private”. Harsha Walia, direttrice esecutiva della British Columbia Civil Liberties Association e autrice di “Border and Rule: Global Migration, Capitalism, and the Rise of Racist Nationalism“, pone la terribile situazione in India in questo modo: “Le ultime normative proposte che richiedono alle compagnie di social media di collaborare con le forze dell’ordine indiane è un altro tentativo oltraggioso e antidemocratico da parte del governo fascista Hindu di Modi di sopprimere il dissenso, consolidare lo stato di sorveglianza e intensificare la violenza di stato“. Lei sostiene che questa ultima mossa del governo Modi deve essere intesa come parte di un modello molto più ampio di sofisticata guerra dell’informazione condotta dallo Stato indiano.

Tre settimane fa, il governo indiano ha chiuso Internet in alcune parti di Delhi per sopprimere le informazioni sulla protesta dei contadini; gli account sui social media di giornalisti e attivisti durante la protesta degli agricoltori e nella diaspora sikh sono stati sospesi; e le compagnie di Big Tech hanno collaborato con la polizia indiana in una serie di casi infondati ma agghiaccianti di sedizione. Negli ultimi quattro anni, il governo indiano ha ordinato oltre 400 chiusure di Internet e l’occupazione indiana del Kashmir è segnata da un prolungato assedio alle comunicazioni“.

Il nuovo codice, che avrà un impatto su tutti i media digitali, inclusi i siti di streaming e di notizie, entrerà in vigore entro i prossimi tre mesi. Alcuni produttori di media digitali in India sono contrariati. Siddharth Varadarajan, editor e fondatore di The Wire, giovedì scorso ha twittato che il nuovo codice “letale” è “volto a uccidere l’indipendenza dei media digitali dell’India. Questo tentativo di armare i burocrati con il potere di dire ai media cosa può e non può essere pubblicato non ha alcun fondamento giuridico “. Non aspettatevi però ritratti di coraggio dalla Silicon Valley. Molti dirigenti tecnologici statunitensi si rammaricano delle prime decisioni, prese sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei lavoratori, di rifiutarsi di cooperare con l’apparato cinese di sorveglianza di massa e censura: una scelta etica, ma che costa alle aziende come Google l’accesso a un mercato incredibilmente ampio e redditizio. Queste aziende non sembrano disposte a fare di nuovo lo stesso tipo di calcolo. Come riportato dal Wall Street Journal lo scorso agosto, “l’India ha più utenti Facebook e WhatsApp di qualsiasi altro paese e Facebook l’ha scelta come mercato in cui introdurre pagamenti, crittografia e iniziative per tessere insieme i suoi prodotti in nuovi modi che l’AD Mark Zuckerberg ha detto che saranno alla base di Facebook per il prossimo decennio“. Per le aziende tecnologiche come Facebook, Google, Twitter e Zoom, l’India di Modi si è trasformata in un duro momento di verità. In Nord America e in Europa, queste aziende stanno facendo di tutto per dimostrare che ci si può fidare di loro, regolando l’incitamento all’odio e le cospirazioni dannose sulle loro piattaforme, proteggendo al contempo la libertà di parola, dibattito e disaccordo che è parte integrante di qualsiasi società sana. Ma in India, dove aiutare i governi a cacciare e imprigionare attivisti pacifici e ad amplificare l’odio sembra essere il prezzo per l’accesso a un mercato enorme e in crescita, “tutti questi argomenti sono usciti dalla discussione“, mi ha detto un attivista. E per una semplice ragione: “Stanno approfittando di questo danno collaterale“.

(traduzione a cura di Isabelle Tonussi e C.D.) – marzo 2021

Nella foto: Thousands of Indian farmers on tractors entered New Delhi as the country marked its Republic Day on Jan. 26, 2021, escalating protests against new agricultural laws passed by Prime Minister Narendra Modi’s government. Photo: Anindito Mukherjee/Bloomberg via Getty Images


tratto da:  I giganti della rete dietro la repressione in India; e poi nel mondo ( di Giacomo Marchetti su sinistrainrete.info - 16 marzo 2021 )

leggi anche: Disha Ravi, da Bangalore a Mumbai esplode la protesta per l'arresto della Greta Thunberg indiana

18 marzo 2021

Sei punti per rivedere la chiusura della scuola e per un piano per l’estate

 di Gabriella Debora Giorgione *

Le proposte della Rete educAzioni per emendare con urgenza le norme previste nei Dpcm affinché non si aggravino povertà materiale, povertà educativa e la voragine nella disuguaglianza sociale del Paese a partire dalle giovani generazioni


Nonostante gli sforzi delle istituzioni scolastiche, dei docenti e delle famiglie, l’8% di tutti gli alunni delle scuole di ogni ordine e grado è rimasto escluso da una qualsiasi forma di didattica a distanza e non ha preso parte alle video-lezioni con il gruppo classe. La quota sale al 23% tra gli alunni con disabilità. Poco, e spesso nulla, vi è stato per i bambini frequentanti i nidi e le scuole dell’infanzia. Lo rivela l’indagine Istat sull’integrazione di alunne e alunni con disabilità nella scuola statale e non statale, a cui hanno risposto le scuole nell’anno scolastico 2019/20.

La Rete nazionale EducAzioni, composta da dieci reti di associazioni afferenti alla società civile, alle organizzazioni sindacali ed alle associazioni di categoria del mondo scolastico e che dall’inizio della pandemia ha preso posizioni importanti in tema di difesa del diritto all’istruzione, sottolinea la necessità di un piano di sostegno educativo a fronte della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e dei servizi educativi per la prima infanzia nelle zone rosse, e della discrezionalità lasciata ai presidenti di regione nelle altre zone.

«La pandemia – dice in una nota EducAzioni - sta creando una voragine nella disuguaglianza sociale del Paese a partire dalle giovani generazioni. Questo grave fenomeno di esclusione scolastica, che si è ripetuto parzialmente anche nel corso dei mesi recenti, lede il diritto all’istruzione e aumenta la probabilità di abbandono scolastico, soprattutto nelle fasce più vulnerabili della popolazione. A ciò si aggiunge il presumibile calo dei lavoratori che partecipano ad attività di istruzione e formazione». E questo aggrava non solo la povertà materiale di un numero crescente di minorenni, ma anche le situazioni di povertà educativa in cui molti di loro sono costretti a vivere.

EducAzioni chiede quindi che sia fatto di più e che sia fatto subito “di più” perché non basta garantire la presenza per alunni con disabilità e con Bisogni Educativi Speciali per dire che ci si sta occupando del problema: occorre rivedere con urgenza le norme previste nei DPCM affinché:

·         venga ribadito che anche negli atti e nelle ordinanze regionali la chiusura delle scuole venga ordinata solo nel caso vi sia il parametro di emergenza fissato dal DPCM dei 250 casi su 100.000 abitanti;

·         sia meglio precisato che i dirigenti scolastici, pur nel rispetto dell’autonomia, devono sempre assicurare, nella massima misura possibile, la dimensione inclusiva garantendo il diritto alla frequenza in presenza di alunne/i con disabilità e con bisogni educativi speciali, unitamente agli altri compagni che ne hanno i requisiti, magari in piccoli gruppi. Si raccomanda inoltre il coinvolgimento e la corretta informazione nei riguardi delle famiglie di studentesse e studenti con disabilità, troppo spesso lasciate sole in balia degli eventi.

e siano da subito garantiti:

·         servizi educativi per la prima infanzia in tutto il territorio nazionale;

·         il ripristino della didattica in presenza per le scuole dell’infanzia;

·         la possibilità di organizzare, in collaborazione con regioni ed enti locali, mini-gruppi di apprendimento su tutto il territorio nazionale, includendo le/gli alunne/i con disabilità e con bisogni educativi speciali, per garantire l’accesso alla didattica a distanza e la continuità della relazione educativa per studentesse e studenti delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, dentro gli spazi scolastici e nelle aule diffuse, anche con il coinvolgimento del terzo settore e della società civile, di fatto già coinvolti in molti progetti che stanno collaborando con le scuole in questo momento;

·         l'elaborazione quanto prima un piano educativo nazionale per l'Estate con modalità inclusive coinvolgendo tutti i soggetti interessati, pubblici, di terzo settore e dell’associazionismo civile.

* da www.vita.it - 16 marzo 2021

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