16 luglio 2022

Il Superbonus 110% non va mandato in pensione

L’analisi di Nomisma. Parla il responsabile sviluppo Marco Mercatili: la misura ha generato il 7% del Pil

di Luca Martinelli *

Lo Stato ha investito finora 38,7 miliardi di euro nel Superbonus 110%, quello legato alla riqualificazione energetica degli edifici che è guardato con molto scetticismo.

Sono ad oggi 147.242 i cantieri conclusi ed è a partire da questi dati che Nomisma ha realizzato il primo bilancio sociale e ambientale della misura, un’iniziativa di Ance Emilia Area centro, l’associazione che riunisce i costruttori di Bologna, Ferrara e Modena. Secondo l’analisi, intanto, i fondi investiti dallo Stato hanno generato un valore economico pari a 124,8 miliardi di euro (pari al 7,5% del prodotto interno lordo), tenendo conto della spesa aggiuntiva anche in tutti i settori che devono attivarsi per produrre semilavorati, prodotti intermedi e servizi necessari agli interventi, del valore della catena di azioni e reazioni indotte dal «prodotto costruzioni» e dalla remunerazione del lavoro, che a sua volta alimenta una spesa in consumi finali. Per ogni beneficiario, inoltre, Nomisma prevede che l’investimento statale consentirà di generare un risparmio annuo medio in bolletta di ben 500 euro.

«Noi di Nomisma siamo stati i primi, già nel 2020, a evidenziare le criticità del “Superbonus 110%”, una misura espansiva, forse la più espansiva nell’ultimo secolo, che avrebbe potuto diventare regressiva senza alcuni accorgimenti ad esempio per garantire un accesso anche alle famiglie meno abbienti. Oggi che tutti sono scettici, però, abbiamo raccolto volentieri l’invito di Ance Emilia Area centro di verificare se effettivamente, come tutti dicono, essa è davvero “troppo costosa”, andando a studiarne i costi e i benefici» spiega al manifesto Marco Marcatili, Responsabile Sviluppo di Nomisma.

Dalle analisi, basata sulle asseverazioni già consolidate da parte di Enea a livello nazionale, risulta ad esempio che il Superbonus ha già consentito di contenere in maniera significativa l’impronta ecologica con una riduzione di 979mila tonnellate di CO2, pari ad un risparmio del 46,4% e a 3 salti di classe energetica. Inoltre, la misura rappresenta quasi il 50% dell’incremento di potenza rinnovabile (fotovoltaico/pannelli solari) installata sul parco immobiliare italiano in termini di numero di interventi: si parla di 106 milioni di kW annui di energie rinnovabili immessi al consumo, con una previsione di inserimento di ulteriori 37 milioni per i cantieri ancora in attivazione.

Infine, il Superbonus opera esclusivamente sul patrimonio immobiliare esistente, producendo effetti positivi sul contenimento di consumo di suolo e minori investimenti sulla realizzazione di servizi e infrastrutture collegate: i vantaggi generati dall’investimento immobiliare, da parte dei beneficiari del Superbonus, rispetto al nuovo è quantificabile in 15,3 miliardi di euro complessivi.

Marco Mercatili, Nomisma: «I vantaggi sociali registrati dal provvedimento: 634 mila nuovi occupati, risparmio energetico, riduzione delle bollette e abbattimento delle emissioni di CO2»

Il lavoro di Nomisma evidenzia anche il valore sociale generato dal Superbonus 110%. I 38,7 miliardi di euro già investiti hanno comportato nel settore delle costruzioni un aumento di occupati pari a 410 mila unità e nei settori collegati si è visto un aumento di 224 mila unità, per un totale di 634 mila occupati in più. Per quanto riguarda le famiglie, nonostante alcune evidenze mostrino che la misura abbia favorito in media i ceti medio-alti, ben 483mila famiglie con reddito medio-basso (sotto i 1.800 euro) hanno avuto l’occasione, grazie al Superbonus, di effettuare lavori di riqualificazione energetica profonda alla propria abitazione a costo zero. Lavori che mai avrebbero potuto permettersi altrimenti.

«Sappiamo benissimo che l’elemento primario di questa misura non era promuovere la Transizione ecologica ma quello di garantire uno shock all’economia, che usciva dalla crisi generata dalla pandemia Covid-19» sottolinea Mercatili, «ma i dati raccolti dimostrano che l’investimento genera un ritorno significativo che nel medio-lungo termine, a fronte della pressione fiscale che si registra nel nostro Paese, garantirà allo Stato anche entrate importanti in grado di pareggiarlo, grazie al moltiplicatore “molto elastico” dell’edilizia». È importante parlarne perché, a fronte dei risultati in termini di riduzione delle emissioni, la domanda che oggi ci dovremmo porre «è come far sì che questa misura, di cui oggi ha beneficiato appena lo 0,5% del patrimonio immobiliare italiano, possa toccare anche il resto».

Insomma Nomisma, che non nasconde che questo Superbonus 110% abbia contributo a creare disuguaglianze, «perché basta girare per le città per vedere dove sono i cantieri, generalmente in centro o semi-centro e non nelle periferie» dice Mercatili, vorrebbe invitare lo Stato a riflettere sui vantaggi della misura. Che forse andrebbe riformata per superare gli errori, e non a caso nei suoi soli 24 mesi di vita ha guà avuto ben 16 aggiustamenti, ma non affossata, come chiedono gli scettici. Anche quelli che siedono nell’esecutivo.

*da il manifesto16 luglio 2022

15 luglio 2022

La Russia rafforza la sua influenza in Africa: così l’Occidente perde terreno

di Roberto Colella ( Giornalista, esperto in Geopolitica e Scienze della Difesa e della Sicurezza) *

Con il ritiro di truppe occidentali dalle zone a rischio dell’Africa, la Russia sta cercando di dimostrarsi una valida alternativa. Il suo dispiegamento in Mali nel dicembre 2021 ha dimostrato il rapido sostegno che Mosca è in grado di offrire ai regimi in difficoltà. Il finanziamento dei canali televisivi filo-russi in Africa, l’interferenza elettorale, persino la sponsorizzazione di concorsi di bellezza sono solo alcuni dei metodi per influenzare il sentimento tra gli africani.

La Cina ha da tempo superato i paesi occidentali diventando il più grande investitore dell’Africa, mentre la presenza di truppe occidentali nei paesi colpiti dal conflitto non è stata sufficiente per garantire la pace e la sicurezza dell’Africa. L’Africa ha bisogno di un sostegno costante, militare ed economico. Se l’Occidente non può fornirlo, perderà terreno. Le iniziative della Russia sull’Africa sono in genere concentrate sul sostegno di alcuni personaggi spesso scomodi: Khalifa Haftar in Libia, Faustin Arcangelo Touadéra nella Repubblica Centrafricana (Car) il colonnello Assimi Goïta in Mali e il tenente generale Abdel Fattah al-Burhan in Sudan.

Per valutare il futuro delle relazioni Russia-Africa è importante capire che i cosiddetti partenariati che la Russia cerca in Africa non sono statali ma basati sull’élite. Aiutando questi leader spesso illegittimi e impopolari a mantenere il potere, la Russia sta rafforzando il suo dominio in Africa. Tutto questo avviene attraverso forze mercenarie, armi ed entrate derivanti da accordi di risorse. Tuttavia, gli impegni opachi della Russia sono intrinsecamente destabilizzanti per i cittadini dei paesi presi di mira, provocando uno sviluppo economico stentato, violazioni dei diritti umani, etc.

L’Ue ha chiuso la sua missione in Repubblica Centrafricana (Eutm-Rca) nel dicembre 2021, subito dopo i mercenari della Wagner hanno preso il comando di reparti locali addestrati dall’Ue e hanno commesso atrocità contro la popolazione civile. Per le medesime ragioni Bruxelles ha sospeso le sue missioni di addestramento militare e civile in Mali a maggio, dopo che Bamako ha contattato la Wagner che ha portato i suoi contractors per combattere i jihadisti. Le unità della guardia nazionale, della gendarmeria nazionale e della polizia nazionale, che sono state addestrate dall’Eucap Sahel-Mali (l’altra missione dell’Ue in Mali, focalizzata nella formazione delle forze di polizia e analoga alla già menzionata Eucap Sahel-Niger) sono ora sotto la direzione del personale della Wagner e si stima che stiano terrorizzando la popolazione civile, prendendo di mira in particolare la comunità Fulani, con segnalazioni di violenze senza precedenti. La presenza russa ormai è notevole a Sévaré, Ségou, Niono, Timbuktu e Gossi e la base aerea 101, a Bamako, è utilizzata come hub logistico per il dispiegamento della Wagner.

La Wagner e le altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa, poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale. La presenza di mercenari russi in questo momento è forte in vari paesi come Botswana, Guinea Bissau, Guinea, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe. Nel Nordafrica la Russia è presente anche in Marocco, con accordi commerciali e con Trasneft; quest’ultima attiva anche in Libia in settori estrattivi di petrolio e gas e Gazpromneft (produzione di lubrificanti). Infine in Egitto, partner economico-commerciale e militare storico, dove Rosneft, Lukoil e Zarubehzneft, tre società petrolifere, portano avanti affari nei giacimenti egiziani. Nella Repubblica democratica del Congo ci sono altre unità della Wagner e Lukoil sul settore estrattivo. L’Angola è un partner militare della Russia e fornitore di metalli rari; il Sudafrica infine ha un accordo commerciale con la Russia per la fornitura di nichel.

La Russia vuole garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche, che come visto sono la moneta di scambio ai servizi di sicurezza. Per questo Mosca preferisce non impegnarsi in contratti tra governi, ma mandare avanti le grandi aziende in mano a oligarchi, politica velata ma che riconduce sempre allo stato russo.

da FQ – 14 luglio 2022

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9 luglio 2022

Siccità: Luca Mercalli: «Ora è tardi, non si interviene nei momenti di emergenza»

INTERVISTA. «Bisogna lavorare sulle infrastrutture: canali, dighe, tubazioni e tanto altro, sono lavori che richiedono anni e che andavano fatti tempo fa. Sentiamo da tanto tempo che bisogna riparare gli acquedotti perché circa il 40% dell’acqua potabile viene disperso per le perdite delle reti idriche. Qualcosa è stato fatto? No»


(di Valerio Nicolosi da il manifesto 10 luglio 2022 )

Luca Mercalli, presidente dell’Istituto di meteorologia e divulgatore, partiamo dalla domanda che in molti si stanno facendo in questi giorni: era prevedibile la siccità che ha colpito diverse regioni d’Italia, in particolare quelle del Nord?

La siccità è un fenomeno lento, cumulativo, che comincia all’inizio senza grandi preoccupazioni e poi via via diventa un’emergenza.

I primi segnali si sono avuti nel tardo inverno, quando non ci sono state piogge per diverso tempo tra dicembre e marzo. Però nel Nord Italia normalmente le piogge più intense dell’anno sono attese tra aprile e maggio; quindi, fino a marzo abbiamo tutti sperato che la primavera potesse compensare questo deficit di acqua ma purtroppo non è avvenuto. Inoltre da maggio sono iniziate delle temperature estive e questo ha portato un ulteriore stress all’agricoltura.

Alla fine di maggio è diventato palese che la siccità sarebbe diventata grave perché le possibilità di pioggia si erano ridotte drasticamente con l’estate. Quindi direi che è difficile dire “era prevedibile”.

E da un punto di vista di previsione nel lungo periodo invece, quello che potremmo definire di scenario?

Quello sì, lo sappiamo da trent’anni. Tutti gli scenari di cambiamento climatico ci dicono che la temperatura aumenta, gli eventi estremi aumentano e quindi anche le siccità erano contenute in questa sorta di elenco di criticità climatica a cui saremmo andati incontro.

Ce ne sono sempre state di siccità, anche nel passato, però questa è particolarmente lunga e soprattutto si è accoppiata con le temperature elevate. Se mettiamo insieme caldo e siccità, questo è un caso assolutamente inedito, eccezionale.

Come possiamo fare per porre rimedio o almeno creare delle soluzioni che possano farci superare questi momenti di crisi?

Ora non si può fare nulla, non si interviene nei momenti di emergenza ma in quelli che potrei definire di “pace”. Bisogna lavorare sulle infrastrutture: canali, dighe, tubazioni e tanto altro, sono lavori che richiedono anni e che andavano fatti tempo fa.

Sentiamo da tanto tempo che bisogna riparare gli acquedotti perché circa il 40% dell’acqua potabile viene disperso per le perdite delle reti idriche. Qualcosa è stato fatto? No. In questi anni non ho mai sentito parlare i politici di acqua e di risoluzione dei problemi legati a essa ma sicuramente a ottobre, quando l’emergenza sarà passata, diranno che è tutto risolto.

E sarà davvero tutto risolto?

No, perché basta andare nel vostro archivio per vedere gli articoli e le interviste del 2017: dicevamo esattamente le stesse cose in riferimento alla siccità del lago di Bracciano e alle altre situazioni critiche, solo che in quel caso l’emergenza non è partita a fine luglio ma da giugno e abbiamo davanti a noi altri tre mesi di poche piogge e tanto caldo. Sarà lunga e sarà più dura del 2017.

Il Pnrr sta portando molti soldi in Italia e si parla di migliaia di progetti già approvati e altri in via di approvazione. Per i cambiamenti climatici si sta facendo qualcosa?

Io non vedo un disegno preciso e organizzato e questo mi preoccupa. È stato deciso tutto di fretta perché bisognava ottemperare alle scadenze e l’impressione è che sia un gran calderone di progetti, molti tirati fuori dai cassetti dove erano già lì; quindi, non concepiti con una visione complessiva nazionale di rete tra i diversi sottosettori che devono dialogare tra loro se si vuole fare la transizione ecologica.

Ho l’impressione che ci siano tanti progetti raffazzonati e messi uno in fila all’altro, spesso con l’etichetta verde, anche quando verdi non sono, perché ci sono un sacco di grandi opere che purtroppo non possiamo considerare sostenibili. Saranno grandi cantieri, cemento, acciaio e dipingerli di verde è una forzatura. Ci saranno anche dei soldi per la riparazione delle reti idriche; quindi, speriamo che almeno una piccola fetta dei finanziamenti vada nel posto giusto. Ma certamente non c’è stato un disegno, una concertazione che renda i progetti efficaci con una strategia di sistema.

9 luglio 2022

4 luglio 2022

Per risolvere la crisi climatica bisogna avere un pensiero globale

di Rafia Zakaria ( Pakistan ) *

Lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, come tutti sanno (o almeno dovrebbero sapere), ci stanno trasportando verso una catastrofe ambientale che a sua volta provocherà una catastrofe umana.

L’ondata di calore che ha colpito l’Asia meridionale è una delle manifestazioni del cataclisma ambientale in corso. Per diversi giorni Jacobabad, nella provincia pachistana del Sindh, è stato uno dei posti più caldi del pianeta. Moltissime persone sono morte nel subcontinente a causa di colpi di calore e disidratazione. Sono le vittime del cambiamento climatico, decedute solo perché il genere umano ha sostenuto idee fuorvianti sul riscaldamento del pianeta o non ha prestato attenzione a chi aveva previsto questa situazione.

Dalla loro comparsa sulla Terra, gli umani consumano le risorse del pianeta e, da molti decenni a questa parte, stanno emettendo troppa anidride carbonica nella sua atmosfera. Anche adesso le economie in crescita come l’India e la Cina non sono interessate a impegnarsi per ridurre le emissioni, nel timore che questo possa fermare la crescita delle loro economie.

Il fatto che le conseguenze della catastrofe climatica non sono contenute dai confini nazionali rappresenta un problema

Ma è proprio il fenomeno del degrado ambientale ad aver reso evidente quanto la concezione che vuole lo stato nazionale come unità politica fondamentale si sia rivelata fallimentare. È stata la pace di Vestfalia, firmata nel 1648, a sancire questo principio. I regni e gli imperi hanno lasciato il posto a paesi organizzati e delimitati da precisi confini geografici, e per vivere al loro interno sono diventati necessari dei documenti: un concetto del tutto nuovo per l’epoca. Viaggiatori del passato come Ibn-i Battuta non si sono mai dovuti preoccupare di passaporti e visti, come invece devono fare oggi gran parte dei viaggiatori. Negli anni di Vestfalia, però, questi erano concetti nuovi, compresa l’idea che il governo del popolo avrebbe sostituito il sistema delle monarchie sopravvissuto per centinaia di anni. È molto probabile che così come noi non riusciamo a immaginare un mondo senza stati nazione, i nostri antenati ridessero all’idea di paesi non governati dai re e dalle loro corti.

Un problema transnazionale
I nuovi sistemi emergono quando quelli vecchi non funzionano più o perché le loro lacune li rendono inutili. Nella situazione in cui ci troviamo oggi, il fatto che le conseguenze della catastrofe climatica non sono contenute dai confini nazionali si sta dimostrando un problema. Quando gli agricoltori del Punjab indiano bruciano stoppie nei loro campi, il fumo arriva fino a Lahore e per giorni la qualità dell’aria è talmente bassa che è difficile vedere anche a pochi metri di distanza. E lo smog non è l’unico problema, come hanno evidenziato molti esperti. Il fatto che il bacino idrico del Pakistan sia a valle rispetto all’India crea anche un problema di sicurezza ed è una spada di Damocle sospesa sulle teste di noi tutti. Se le ultime settimane hanno mostrato che inferno può essere il cambiamento climatico, immaginiamo questa situazione moltiplicata esponenzialmente nel momento in cui i fiumi si prosciugheranno in modo permanente e la siccità diventerà la norma.

Il modello dello stato nazione è fallimentare anche perché i suoi meccanismi obsoleti non riescono a gestire il cambiamento climatico in modo giusto o equo. Per esempio, il Pakistan emette una quantità di anidride carbonica inferiore a quella della maggior parte degli altri paesi. Eppure, non gli sono mai state concesse risorse adeguate per far fronte alle sfide climatiche delle quali è responsabile solo in minima parte.

Per gli ambientalisti il pianeta si sta trasformando in una unità politica: i suoi limiti e la sua salvaguardia a livello globale diventeranno l’obiettivo della cooperazione mondiale

Ne consegue dunque che una delle sfide più significative della nostra epoca non si conforma al modello dello stato nazione. I progressi negli studi sulle carote di ghiaccio ricavate dai ghiacciai che si stanno sciogliendo consentono agli esseri umani di conoscere il loro impatto sul pianeta andando indietro di migliaia di anni. Grazie alla nascita e alla diffusione delle scienze della terra come la geologia, la geofisica e altre, enormi quantità di dati sono stati convertite in numeri che possono essere inseriti in modelli in grado di prevedere cosa aspettarci in futuro. Gli umani non erano in grado di fare previsioni sul clima quando è stata firmata la pace di Vestfalia. Adesso, invece, possono farlo con grande accuratezza ed è grazie a questo genere di tecnologia se la nostra specie riuscirà a comprendere davvero la gravità della catastrofe climatica che il pianeta sta affrontando.

Cooperazione planetaria
Anche se le guerre come quella scoppiata in Ucraina sembrano sottolineare l’importanza dello stato nazione e la costruzione di muri ai confini, eretti come intorno alle fortezze, suggeriscono un’interpretazione il più letterale possibile di questa forma di organizzazione politica, questi fenomeni potrebbero anche rappresentare l’ultimo singulto dello stato nazione. Gli ambientalisti sostengono che il pianeta si sta trasformando in una unità politica: i suoi limiti e il suo benessere globale diventeranno l’obiettivo della cooperazione mondiale. In parole povere, la valutazione del tempo sulla scala di millenni resa possibile dai progressi scientifici e dai supercomputer sottolinea la necessità di creare nuove unità politiche, pensate per interconnettere tutti e tutto sul pianeta. Anche la pandemia, probabilmente, è stata causata dall’aumento delle temperature, e anche questa sfida globale ha mostrato l’incapacità degli stati nazionali di elaborare una risposta collettiva.

Il passaggio dallo stato nazione alla cooperazione planetaria è inevitabile. La prospettiva di lungo periodo sullo stato del nostro pianeta che possiamo estrarre dai ghiacciai ha svelato com’era la Terra molto prima che facessero la loro comparsa gli esseri umani. Il pianeta sta diventando più caldo, ambienti naturali si stanno perdendo e noi continuiamo a scherzare con questa catastrofe. Il modello e l’ordinamento politico dello stato nazione non ha prodotto gli anticorpi per arginare la più grande minaccia per il nostro pianeta. Forse è il momento di pensare a un nuovo modello.

nella foto: un blocco di ghiaccio caricato su una moto a Jacobabad, nel sud del Pakistan

·         *  da internazionale.it (traduzione di Giusy Muzzopappa dal quotidiano pachistano Dawn )

La Tunisia volta pagina con una costituzione presidenziale


La Tunisia vive in uno stato di sospensione da quasi un anno, da quando il presidente Kais Saied ha paralizzato la vita politica assumendo i pieni poteri. Inizialmente questa situazione particolare avrebbe dovuto protrarsi per un mese, ma in seguito Saied ha chiuso il parlamento, governato per decreti e annunciato che avrebbe presentato al popolo un progetto di nuova costituzione il 25 luglio di quest’anno.

La sera del 30 giugno la bozza della nuova carta è stata pubblicata. Se sarà approvata con un referendum, trasformerà la Tunisia in un regime presidenziale. Questa è la logica politica di Saied nonché il suo modo di rispondere al disincanto di un decennio di rivoluzione senza risultati.

Per diversi aspetti la costituzione di Saied è l’antitesi di quella del 2014, prodotta da un’assemblea costituente eletta dopo la rivoluzione del 2011 e basata su un equilibrio tra il presidente e il parlamento per evitare l’accentramento dei poteri autoritario che aveva caratterizzato gli anni della dittatura di Zine el Abidine Ben Ali.

Autoritarismo costante
Questo equilibrio di poteri imperfetto è stato fonte di paralisi e conflitti, suscitando un rifiuto costante da parte della popolazione. Un anno fa Saied, sfruttando le sue prerogative di presidente, ha sospeso la costituzione, e la sua mossa è stata accolta con esultanza da una parte di tunisini che rifiutavano un sistema politico democratico ma inefficace, e in particolar modo il partito islamista Ennahdha, al centro dei meccanismi politici.

I problemi derivano dalla linea e dallo stile di Saied. Il presidente tunisino ha citato la frase con cui il generale francese Charles de Gaulle affermava che alla sua età non avrebbe perseguito una carriera da dittatore, ma i suoi critici gli rimproverano un autoritarismo costante, ricordando i suoi attacchi ai magistrati, il finto dialogo nazionale che ha preceduto la redazione della costituzione e la nomina dei componenti della commissione elettorale, che ormai di indipendente ha solo il nome.

Buona parte della popolazione chiede soprattutto soluzioni alla crisi economica e sociale

Saied non si fida dei partiti e del concetto di “società civile”, e parla direttamente al “popolo”. Anche se la magia della campagna elettorale del 2019 è svanita, il presidente conserva ancora la fiducia di una parte non trascurabile della popolazione.

È possibile che Saied perda il referendum? Il rischio è minimo. Innanzitutto, se è vero che i tunisini più politicizzati criticano il presidente e voteranno sicuramente “no”, bisogna tenere presente l’indifferenza di buona parte della popolazione, che chiede soprattutto soluzioni alla crisi economica e sociale accentuata dal covid e dall’aumento dei prezzi.

Il presidente, con il suo conservatorismo culturale e sociale, fa riferimento ai valori tradizionali della Tunisia profonda. La nuova costituzione, da questo punto di vista, contiene un cambiamento che farà discutere: si è tolto il riferimento all’islam come religione dello stato, iscrivendo la Tunisia nel quadro dell’Umma, la nazione islamica. Lo stato, dunque, avrà il compito di perseguire gli obiettivi dell’Umma.

Chi nelle prime fasi del progetto aveva notato la scomparsa della religione di stato si era chiaramente sbagliato: Saied non è un laico, ma un musulmano conservatore, contrario all’islam politico dei Fratelli musulmani, a cui preferisce l’islam culturale di cui la sua costituzione è impregnata.

Saied sta portando la Tunisia in una direzione diversa da quella seguita nell’ultimo decennio: la popolazione spera sia verso il meglio, ma gli intellettuali temono il peggio, cioè il ritorno della dittatura.

nelle foto: manifestazioni contro il presidente Kais Saied

*  da internazionale.it ( traduzione di Andrea Sparacino) - 1 luglio 2022

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