28 novembre 2017

Le femministe italiane hanno un piano contro la violenza




“Oggi mi si apre il cuore perché il testimone del femminismo italiano è passato a donne giovani e preparatissime: è uno di quei casi in cui le figlie non hanno avuto bisogno di distruggere le madri”. Paola Mastrangeli, del Centro Alma Sabatini per l’uso non sessista della lingua, con il suo intervento chiude la presentazione del primo Piano contro la violenza maschile e la violenza di genere presentato dal movimento Non una di meno alla Casa internazionale delle donne di Roma il 21 novembre, ed elogia la capacità di dialogo e di coesione che hanno saputo esprimere le diverse generazioni di femministe italiane. 

Balza all’occhio il carattere intergenerazionale della proposta elaborata dal movimento femminista italiano per contrastare la violenza di genere, così come colpisce il pluralismo delle posizioni e delle sigle che hanno dato vita al progetto. “Non so nemmeno dire quante mani hanno scritto questo libretto”, spiega Marina Montanelli, una delle relatrici, mentre la sala Carla Lonzi della Casa internazionale delle donne scoppia in un applauso.
“A partire dalle loro differenze, ma anche dalle relazioni che hanno saputo costruire, queste giovani donne hanno fatto un lavoro enorme. E hanno riscoperto la passione e la rabbia costruttiva della lotta per l’autodeterminazione. Ma io non avevo dubbi sul fatto che questo sarebbe successo”, aggiunge Mastrangeli e le donne in sala sventolano il libretto fucsia di 57 pagine che contiene la proposta da presentare alle istituzioni, dopo un lungo processo durato un anno. Il piano è stato presentato contemporaneamente a Roma e a Milano. 

Cosa prevede il piano
La proposta è stata elaborata nei lavori di decine di assemblee che si sono svolte su tutto il territorio nazionale e si basa sul presupposto che “la violenza maschile contro le donne non può essere superata nell’ottica dell’emergenza” perché è strutturale: “Ogni giorno è esercitata sui corpi e sulle vite di milioni di donne”.
Le accuse a Harvey Weinstein, e la campagna #metoo che ne è seguita, hanno mostrato l’estensione del fenomeno delle molestie sessuali e delle violenze subite dalle donne di tutto il mondo sul posto di lavoro e in ogni momento della vita, ma ha anche aperto uno spazio politico di denuncia e di solidarietà, secondo le femministe di Non una di meno.
Il piano antiviolenza prevede dodici capitoli e articola delle proposte per superare le discriminazioni e le violenze di genere in tutti gli ambiti in cui avvengono a partire dal mondo del lavoro, ma anche nel linguaggio o nell’istruzione, fino ad arrivare a settori come la salute. Ecco i punti principali del piano.
  • Reddito di autodeterminazione per le donne che decidono di uscire dalla violenza.
  • Nessun obbligo di denuncia nei pronto soccorso senza il consenso della donna.
  • Più fondi per i centri antiviolenza.
  • Garanzia d’indipendenza e laicità dei centri antiviolenza.
  • Politiche per la genitorialità condivisa come l’estensione dei congedi di paternità a tutte le tipologie contrattuali, non solo nel lavoro subordinato e non solo in presenza di un contratto di lavoro.
  • Investimenti sulla formazione e su percorsi di educazione nelle scuole e nelle università che mettano in discussione e superino il “binarismo di genere” e gli stereotipi di genere.
  • Formazione nel mondo del giornalismo e dell’informazione per smettere di rappresentare la violenza di genere come una “emergenza” o un “problema di sicurezza e ordine pubblico”, di indicare le donne come “vittime” e gli uomini maltrattanti come “presi da un raptus”.
  • Eliminazione dell’obiezione di coscienza per l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) negli ospedali pubblici, che permette al 35 per cento degli ospedali italiani con un reparto di ginecologia e ostetricia di non praticare gli interventi.
  • Sostegno dell’aborto farmacologico nei consultori.
  • Apertura delle case pubbliche della maternità per evitare la violenza ostetrica durante il parto.
  • Finanziamenti ai consultori per garantire l’accesso alla contraccezione, all’informazione e alla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili.
  • Il riconoscimento della protezione internazionale per le donne di origine straniera che si sottraggono a ogni forma di violenza come per esempio la tratta degli esseri umani.
  • Una banca dati sulle molestie nei posti di lavoro.
  • Una banca dati per monitorare le differenze di retribuzione salariale.
  • Una banca dati sull’applicazione della legge 194/78 che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza.
Una questione economica
Nel piano antiviolenza hanno un ruolo fondamentale l’ambito lavorativo e le politiche sociali. “La violenza domestica e quella sul posto di lavoro possono essere prevenute solo se si mette in discussione un modello anche economico basato sullo sfruttamento e sulla precarietà di cui pagano il prezzo soprattutto le donne”, spiega Marina Montanelli di Non una di meno.
“Le donne sono quelle che si trovano più spesso in situazioni di disoccupazione o di precarietà lavorativa che le costringono a tornare a svolgere lavori domestici e di cura anche per far fronte ai tagli al welfare degli ultimi anni”, continua Montanelli. Le proposte articolate da Non una di meno rivendicano un salario minimo universale europeo, come risposta ai tagli allo stato sociale che pesano soprattutto sulle donne, ma anche per affrontare la disparità salariale tra uomini e donne che in Italia è molto alta.
Non una di meno chiede che il welfare sia ripensato proprio a partire dalle donne
Le femministe propongono delle misure economiche di sostegno alle donne che denunciano la violenza: “Spesso, infatti, le donne che subiscono molestie, minacce e violenze sul posto di lavoro si scontrano anche con la difficoltà materiale di denunciare, perché hanno paura di essere licenziate”. Anche per le donne disoccupate o precarie che subiscono violenze dai mariti e dai compagni denunciare è difficile, perché sono non sono economicamente indipendenti. Infine Non una di meno chiede che il welfare sia ripensato proprio a partire dalle donne. 

“Siamo contrarie al reddito d’inserimento appena varato dal governo, perché oltre a essere una misura irrisoria che riguarderà pochi beneficiari, è una misura basata sul modello familistico, cioè possono accedere a questo tipo di misura solo le famiglie, ma questo comporta dei problemi proprio per le donne e la loro autonomia”, conclude Montanelli. Le femministe della rete Non una di meno presenteranno il piano antiviolenza nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne il 25 novembre, quando è prevista la manifestazione nazionale del movimento a Roma. 

* giornalista di Internazionale , 22 novembre 2017

18 novembre 2017

"Il tempo a disposizione dell'uomo sta per finire": 15 mila scienziati scrivono una disperata lettera all'umanità



A 25 anni dal primo appello c'è stato un solo miglioramento ambientale: la riduzione del buco dell'ozono *

Non è bastato il primo appello lanciato 25 anni fa. I progressi fatti per limitare i danni provocati dall'uomo al pianeta con cambiamento climatico, deforestazione, mancanza di accesso all'acqua, sovrappopolazione e animali in estinzione, sono stati troppi pochi. Per questo l"Unione degli scienziati preoccupati ha deciso di lanciare sulla rivista Bioscience un secondo allarme, accompagnato dall'hashtag #ScientistsWarningtoHumanity, perché si agisca prima che i danni diventino irreversibili.

Il primo avviso, lanciato nel 1992, fu sottoscritto da 1.700 firmatari, tra cui molti premi Nobel. Quello lanciato oggi, a un quarto di secolo di distanza, dai due ricercatori William Ripple, dell'Oregon State University, e Thomas Newsome, dell'università di Sydney, ha avuto un'eco maggiore, grazie anche alla campagna che è diventata virale sui social, finendo per raccogliere finora le adesioni di ben 15.000 ricercatori di 184 Paesi.

Il quadro delineato dagli esperti è poco incoraggiante: delle 9 aree indicate nell'appello del 1992 su cui era necessario intervenire, l'unico miglioramento consistente registrato è nell'aver fermato la crescita del buco dell'ozono. Qualche progresso è stato fatto anche nell'aumento dell'energia prodotta da fonti rinnovabili, il calo della fertilità per gli investimenti nell'istruzione femminile, e nel rallentamento della deforestazione in alcune aree. Dati che, secondo i ricercatori, dimostrano che se ci si impegna davvero dei risultati si possono raggiungere.

L'elenco delle brutte notizie è, però, molto più lungo. Nei 25 anni trascorsi si è avuta una riduzione del 26% dell'acqua disponibile per persona, una crescita del 75% del numero di zone morte nell'oceano, la perdita di circa 121 milioni di ettari di zone boschive convertite principalmente all'agricoltura, e un calo del 29% del numero di mammiferi, rettili, anfibi, uccelli e pesci, una crescita del 35% della popolazione umana e il continuo aumento delle emissioni di carbonio e delle temperature a livello globale.
Sono 13 le aree, secondo i ricercatori, su cui lavorare per ridurre i danni dell'uomo, rendendo più sostenibile la sua presenza per il pianeta, come promuovere una dieta con meno carne, il ricorso alle fonti di energia rinnovabile, la creazione di riserve marine e terrestri, l'adozione di leggi anti-bracconaggio, e limitando la crescita della popolazione con interventi di pianificazione familiare ed educativi per le donne. "Presto sarà troppo tardi per cambiare le cose e il tempo sta per finire - dicono gli esperti -. Ma possiamo fare grandi progressi per il bene dell'umanità e del pianeta da cui dipendiamo".

A 25 anni di distanza dal primo allarme, gli scienziati mondiali tornano a levare la loro voce per la salute e il futuro del nostro pianeta. Dopo l'appello lanciato nel 1992 e firmato da migliaia di ricercatori tra cui molti premi Nobel, infatti, risultati concreti sono stati ottenuti solo nell'aver contrastato la crescita del buco dell'ozono. Dunque ora 15 mila 'top scientist' di 184 Paesi si sono messi insieme, firmando un secondo appello rivolto all'umanità su 'BioScience': 'World Scientists' Warning to Humanity: a second noticè, è il titolo dell'articolo, accompagnato dall'hashtag #ScientistsWarningtoHumanity, in cui si chiedono azioni urgenti per evitare danni irreversibili alla Terra.

L'iniziativa, co-promossa da Thomas Newsome dell'università di Sydney, è diventata virale sui social. In 25 anni, registrano gli scienziati, c'è stata una riduzione del 26% dell'acqua fresca disponibile per persona, una riduzione del 29% nel numero di mammiferi, rettili, anfibi e pesci, una crescita del 75% del numero di zone morte nell'oceano, la perdita di circa 300 milioni di acri di foreste. C'è ancora tempo per intervenire, avvertono gli scienziati, ma occorre muoversi e farlo davvero. Per il futuro della Terra e dell'umanità

* www.huffingtonpost.it  da Redazione ANSA , 14 novermbre 2017 – foto Getty Images

17 novembre 2017

L’inverno della Nuova Zelanda si è accorciato di un mese nell’ultimo secolo



Nella prima metà del Novecento durava 100 giorni in media, ora 70: inizia dopo e finisce prima

Negli ultimi cento anni in Nuova Zelanda l’inverno si è accorciato di un mese, secondo l’Istituto nazionale di ricerca sull’acqua e l’atmosfera (NIWA) del paese. Per “inverno” in questo caso non si intende la stagione astronomica, quella legata al numero di ore di luce giornaliere, ma si intende quel periodo dell’anno in cui le condizioni climatiche sono quelle che tipicamente si associano a questa stagione: temperature molto basse, gelate e nevicate. Secondo gli scienziati del NIWA nell’ultimo secolo l’inizio di questi fenomeni meteorologici si è via via ritardato e la loro fine si è anticipata, e oggi rispetto a cento anni fa il periodo in cui si verificano è più corto di un mese.

In Nuova Zelanda, nell’emisfero australe, l’inverno astronomico comincia all’inizio di giugno, finisce alla fine di agosto ed è lungo 92 giorni: può nevicare e ci possono essere temperature minime fino a -7°C durante la notte. Brett Mullan del NIWA ha definito come giornata invernale dal punto di vista meteorologico una in cui la temperatura media è minore di 9°C, e poi ha studiato i registri storici degli anni tra il 1909 e il 1938 e quelli tra il 1987 e il 2016 relativi a sette diverse regioni della Nuova Zelanda. Analizzando i dati storici ha calcolato che tra il 1909 e il 1938 ogni anno ci furono in media 100 giorni con condizioni meteorologiche invernali, contro i soli 70 degli ultimi trent’anni.
Mullan ha notato che comunque il periodo invernale può variare molto di anno in anno: nel 2016 ad esempio giugno fu molto caldo, e si ebbero condizioni invernali solo tra luglio e agosto; nel 2017 invece è stato agosto a essere molto caldo e giugno invernale. Un altro dato riscontrato da Mullan è il numero di gelate durante l’inverno: anche quello è diminuito nel tempo.

La contrazione dell’inverno meteorologico non è un fenomeno solo neozelandese: anche negli Stati Uniti l’inverno si è accorciato di un mese secondo gli studiosi del clima. Secondo le previsioni di Mullan l’inverno continuerà ad accorciarsi anche in futuro e le temperature medie ad alzarsi. Questi cambiamenti probabilmente avranno delle conseguenze sulla produzione di kiwi, frutta di cui la Nuova Zelanda è il primo esportatore mondiale: il nord del paese sta diventando troppo caldo per coltivarli. Per l’agricoltura in generale l’aumento delle temperature ha l’effetto positivo di far maturare più in fretta le piante, ma ha anche lo svantaggio di favorire la riproduzione degli insetti infestanti, che l’inverno uccide.

Nella foto: Il lago Sarah, nell'Isola del Sud, in Nuova Zelanda, il 30 agosto 2004 (Getty Images/FOTOPRESS/Ross Land)

* da   www.ilpost.it – 10 novembre 2017