29 maggio 2018

Spagna: L’exit strategy di Podemos nell’anno decisivo



di Francesco Campolongo e Loris Caruso *

Domenica si è chiusa una delle più importanti consultazioni interna nella storia di Podemos, seconda solo alle due congressuali di Vistalegre 1 e 2.

In una fase di nuova ascesa elettorale di Unidos Podemos, registrata dagli ultimi sondaggi che lo collocano sopra il Pp e Psoe all’inseguimento di un più distaccato Ciudadanos, l’acquisto di uno chalet da 540 mila euro da parte del segretario Pablo Iglesias e della portavoce del congresso Irene Montero, è stato per dieci giorni la notizia di apertura dei telegiornali. La vicenda ha rappresentato per i media l’occasione di una campagna mediatica violenta, tesa a screditare i due ma soprattutto a ridimensionare gli scandali giornalieri del Partito Popolare.

L’exit strategy del gruppo dirigente di Podemos (il referendum interno) non è piaciuta all’ala anticapitalista del partito, che ha ritenuto eccessivo il ricorso alla consultazione per una vicenda privata, considerandolo un precedente che rischia di “privatizzare” il dibattito politico interno.
L’esito della consultazione ha ampiamente confermato il mandato ad Iglesias e Montero: 158 mila iscritti hanno partecipato alla consultazione (il 68% del censo attivo, record interno di partecipazione) e il 69% (122 mila) ha confermato i due dirigenti nei loro incarichi. Un risultato in linea con i risultati dell’ultimo congresso e che ha soddisfatto il gruppo dirigente, che pure «prende nota» del 31% di No.
Bisognerà vedere quale sarà l’impatto elettorale della vicenda all’inizio di un anno decisivo per Unidos Podemos e per la sinistra spagnola, che sarà impegnata in importanti elezioni regionali, municipali, europee e con le elezioni nazionali sempre più probabili. Il caso chalet è scoppiato in un momento segnato dalla crisi del Partito Popolare e dalla nuova fase della crisi politica catalana. Il governo Rajoy, travolto da numerosi scandali, sembra essere arrivato al capolinea dopo le sentenza Gürtel che ha portato alla luce una rete di corruzione e di finanziamento parallelo del Pp, perdendo anche l’appoggio dell’alleato/competitore Ciudadanos. Questa settimana il Partito Socialista presenterà una mozione di sfiducia che dovrebbe godere dell’appoggio di Podemos, più difficile risulta quello di Ciudadanos. In Catalogna l’elezione del nuovo presidente Quim Torra (rappresentante dell’ala più conservatrice del blocco indipendentista) protrae la crisi del modello territoriale spagnolo, con la continuazione del 155 e il nazionalismo aggressivo di Ciudadanos che macina consensi.

Da un lato, la consultazione interna era per i dirigenti di Podemos l’unica arma disponibile contro un assedio mediatico che ha toccato una corda fondamentale per un partito come questo: la coerenza rispetto ai principi fondanti, il rapporto tra il livello di vita dei capi e quello degli elettori a cui ci si rivolge. La rilegittimazione della base è stata usata contro la delegittimazione mediatica. È stata autodifesa.
Dall’altra parte, la strategia “populista” di Podemos, basata su una leadership forte e mediatica (teoricamente bilanciata dalla moltiplicazione dei momenti deliberativi), che ha permesso un’irruzione veloce nello spazio elettorale, ha contribuito a una sorta di privatizzazione della sfera pubblica: la dimensione privata occupa uno spazio politico decisivo. In questo contesto l’arma politica delle elites diventa l’attacco e il discredito alla leadership per rompere il filo simbolico che la connette alla “gente comune”, perché al tempo della spoliticizzazione di massa e dell’antipolitica diffusa la rappresentanza popolare vive anche della similarità tra le condizioni dei rappresentanti e quelle dei rappresentanti.

È, questa, un’ambivalenza decisiva di Podemos e di tutti i populismi di sinistra, ma potremmo dire, più in generale, di tutte le sinistre con ambizioni egemoniche: si usano le armi dell’avversario, ci si stabilisce sul suo terreno per non essere marginali, gli si rivolgono contro le sue stesse parole; facendolo, si rischia di legittimare queste parole e questo terreno senza cambiarli, restandone prigionieri e perdendo il proprio orizzonte strategico. Giudicare, però, queste scelte politiche da un punto di vista morale è troppo facile: giocare il gioco della purezza e stare lontani dal “campo populista”, salva l’anima ma lascia in un cono d’ombra, come si sta incaricando di ribadire, in questi giorni, la vicenda italiana.

Una volta di più, Podemos giudicherà sé stesso, e sarà giudicato, sul piano dei risultati.

* da il manifesto 29 maggio 2019

25 maggio 2018

Germania: L’SPD elegge Andrea Nahles, la «donna delle macerie»


Germania. È la prima segretaria socialista della storia, ma raccoglie il secondo peggior risultato di sempre tra i social-democratici


È la prima segretaria socialista della storia 135 dopo la fondazione della Spd, ma anche ultima funzionaria fedele alla “vecchia guardia” invisa a quasi un terzo del partito.
Andrea Nahles, 47 anni (da 20 nella dirigenza Spd) domenica a Wiesbaden è stata eletta presidente dal 66% del delegati del congresso straordinario raccogliendo il secondo peggior risultato di sempre tra i social-democratici. La sua sfidante, la semi-sconosciuta sindaca di Flensburg, Simone Lange, ha raccolto ben il 27% dei consensi sulla base di un programma votato sull’avvio di «una vera svolta». È il sintomo che non si è spento il malessere emerso con l’opposizione alla Groko dei Giovani socialisti, poi confermato al congresso di Bonn con il Sì ai colloqui con la Cdu di appena il 56% dei delegati federali.
Il sondaggio Emind di sabato scorso fotografa l’abisso da cui Nahles deve ripartire: solo il 18% dei tedeschi è ancora disposto a votare Spd in un contesto dove avanzano Linke e Verdi e cala il vento di Fdp e Afd. Per questo, sulla stampa tedesca, Nahles è la «Trümmerfrau» socialista («donna delle macerie» come quelle che ricostruirono Berlino nel 1945) chiamata a riedificare il consenso demolito con le gestioni degli ex-segretari Gabriel e Schulz.

* il manifesto - 24 maggio 2018

21 maggio 2018

La situazione in Medioriente si complica


di Marta Furlan *

Alla luce degli eventi di questa settimana, cerchiamo di fare un breve riassunto di contesto, per comprendere i principali motivi e le principali problematiche che attanagliano la regione mediorientale, che la rendono una inesauribile fonte di instabilità.

Il 14 maggio 2018 Israele ha compiuto il suo 70° anniversario, raggiungendo un traguardo che nel 1948 sembrava ai più impossibile, dato il teso panorama mediorientale nel quale lo Stato ebraico venne alla luce. E in effetti, ancora oggi il Medioriente continua ad essere regione di profonde tensioni in cui lo scorrere del tempo produce sempre nuovi sconvolgimenti, ma mai significative distensioni. Prendendo l’anniversario dell’indipendenza d’Israele quale pretesto utile per interrogarci su dove sia il Levante oggi, il primo elemento da rilevare non può che essere la permanenza del conflitto israelo-palestinese. Contrariamente alle aspettative di quanti venticinque anni fa – quando Arafat e Rabin suggellavano l’accordo di Oslo con la loro celebre stretta di mano sul prato della Casa Bianca – pensavano si stesse assistendo all’inizio di una nuova forma di convivenza tra ebrei e palestinesi, il conflitto tra i due popoli non hai mai cessato di essere. Al più ha cambiato forma, oscillando tra guerra convenzionale, resistenza passiva, guerriglia e terrorismo per adattarsi alle circostanze e alle esigenze dei diversi momenti storici.
Nell’ultimo anno si è osservata una pericolosa combinazione di fattori che ha inevitabilmente portato a un aumento delle ostilità sui due fronti:
  • l’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump, a oggi il presidente statunitense più marcatamente filo-israeliano;
  • il rafforzamento dell’ultra-destra israeliana che dal 2015 guida il paese;
  • la continua assenza di una classe politica palestinese coesa e credibile, che sappia superare la frattura tra Gaza e Cisgiordania e avanzare gli interessi nazionali palestinesi.
Eletto presidente nel gennaio 2017, già lo scorso dicembre Trump annunciò il trasferimento dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Riconoscendo quest’ultima quale capitale dello Stato ebraico e modificando così quello che era stato l’approccio statunitense alla questione israelo-palestinese sotto ogni precedente amministrazione, Trump ha di fatto compromesso la credibilità degli Stati Uniti quali arbitro super partes nel dialogo tra ebrei e palestinesi, ora sempre più destinato allo stallo. La decisione di Trump, inoltre, non solo ha reso ogni prospettiva di futura negoziazione più difficile, ma ne ha anche profondamente cambiato i termini: riconoscendo Gerusalemme capitale ebraica, ha allontanato – secondo alcuni, definitivamente cancellato – la possibilità di una soluzione “a due stati” che porti a uno Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale. Una tale decisione, con le implicazioni che comporta per il dialogo tra le due parti, non poteva che infiammare gli animi palestinesi e rafforzare l’ultra-destra israeliana. Quest’ultima, forte della nuova amicizia israeliana-statunitense, si è affrettata a sfruttare il momento, proseguendo nell’occupazione ebraica della Cisgiordania per mezzo di nuovi permessi alla costruzione e di legalizzazioni retroattive e approvando un disegno di legge che conferisce al ministro degli Interni il pericoloso potere di revocare la cittadinanza israeliana ai cittadini palestinesi non giudicati “leali” allo Stato.

Su questo sfondo si colloca la “marcia del ritorno”, lanciata dai palestinesi di Gaza il 30 marzo scorso per protestare contro l’isolamento al quale Israele relega la Striscia e per reclamare il diritto a fare ritorno alla propria terra. Le proteste, tenutesi per sei venerdì consecutivi, hanno visto migliaia di giovani (alcuni associati con Hamas, altri non politicamente schierati e altri ancora profondamente critici nei confronti del gruppo che governa dal 2007 sulla Striscia) marciare verso il confine con Israele, accolti con gas lacrimogeni e proiettili dalle forze israeliane al di là della barriera che, va detto, è stata più volte attaccata con l’intento di infiltrarsi in territorio israeliano da parte di gruppi di manifestanti palestinesi. Fino a metà maggio, il numero delle vittime era di 49 morti ma il culmine è stato raggiunto il 14 maggio, data significativa che non solo marca l’anniversario dello Stato ebraico e della Nakba palestinese, ma che quest’anno è venuta a coincidere anche con il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Solo in quel giorno, 58 palestinesi sono stati uccisi e 2,700 feriti in modo più o meno grave. Drammatica conferma che non sono bastati settant’anni a sanare le tensioni tra i due popoli.

Accanto alla perenne questione palestinese, il Medio Oriente è oggi attraversato da ulteriori tensioni che stanno contribuendo a definire nuove dinamiche regionali e nuovi assi di alleanza e di rivalità. In Siria la vittoria di Assad è oramai assodata, e la guerra è entrata in una nuova fase in cui il conflitto civile ha lasciato il posto alla competizione tra potenze esterne – regionali e non – interessate a spartirsi il territorio in utili zone d’influenza. Così, mentre l’opposizione ad Assad si vede costretta a lasciare le sacche che ancora controlla in cambio della sopravvivenza, e mentre i curdi tentano di difendere le proprie rivendicazioni autonomiste, Russia, Iran e Turchia hanno fatto del tavolo negoziale di Astana (al quale gli Stati Uniti non sono presenti) il luogo in cui definire il futuro assetto della Siria.

Qui, particolarmente importante è il fattore iraniano. Infatti, mentre la Turchia usa Astana per assicurarsi che l’irredentismo curdo non ottenga in Siria vittorie che galvanizzerebbero i curdi della penisola anatolica e anche per ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle dinamiche mediorientali in un momento in cui i suoi rapporti con l’occidente sono al loro punto più basso, e mentre la Russia usa Astana per tutelare i propri interessi strategici nella regione per mezzo di un regime siriano amico che lasci a Mosca le proprie basi navali e aeree nell’area mediterranea, l’Iran sta usando Astana per dare soddisfazione alle proprie ambizioni egemoniche. Nello specifico, Teheran sta sfruttando il proprio coinvolgimento nella guerra di Siria a fianco di Assad (sostenuto sia per mezzo della Guardia Rivoluzionaria Iraniana sia per mezzo dell’alleato libanese Hezbollah) al fine di creare un corridoio d’influenza sciita che dall’altopiano iranico si estenda fino al Mediterraneo passando attraverso l’Iraq, il Libano e la Siria meridionale.

 * da www.thezeppelin.org ( leggi i nostri Siria Report ) 18 maggio 2018