15 dicembre 2017

Diseguaglianze. In crescita nel mondo






 La tendenza e’ indiscutibile: da una quarantina d’anni, le diseguaglianze sono in aumento in praticamente tutti i Paesi del mondo. Cosi’ fa sapere il primo rapporto pubblicato il 14 dicembre da parte di alcuni ricercatori che fanno parte del progetto World Wealth and Income Database (WID, raccolta di dati su patrimonio e reddito), tra cui l’economista Thomas Piketty.
Dopo gli anni 1980, l’1% dei piu’ ricchi ha approfittato due volte in piu’ della crescita dei redditi che non il 50% dei piu’ poveri. E per coloro che sono tra queste due categorie (le classi medie, per esempio), i redditi sono stati stagnanti, e anche calati.
“Questo 50% tra i piu’ poveri, ha beneficiato di forti tassi di crescita dei loro redditi, mentre la classe media mondiale (in cui c’e’ il 90% dei piu’ poveri in Europa e Stati Unti), ha visto comprimersi la crescita per proprio reddito”.
L’1% dei redditi piu’ alti del mondo ha captato il 27% della crescita


Un “orizzonte di diseguaglianze”
Nel dettaglio, se si divide la popolazione mondiale in zone geografiche e non piu’ in blocchi di reddito, si nota che la parte che corrisponde ai redditi maggiori e’ in crescita nella quasi totalita’ dei Paesi, negli ultimi decenni.
In alcuni Paesi, questo indicatore di diseguaglianze e’ volato: tra il 1990 e il 2016 (anni sui quali ci sono tutti i dati), la parte di reddito nazionale del 10% dei piu’ ricchi e’ andato oltre i 21 punti in Russia (malgrado una caduta nel 2008 a causa del calo dei prezzi del petrolio) e di 22 punti in India.
Se ci sono delle eccezioni, cioe’ una stagnazione o un calo delle diseguaglianze (in Medio-Oriente o Brasile o Africa subsahriana), c’e’ da notare che esse erano gia’ a dei livelli elevati: “Non aver avuto un regime egualitario del dopoguerra (le spese della prima guerra mondiale hanno giustificato la creazione dell’imposta sul reddito), per queste regioni ha significato avere un ‘orizzonte di diseguaglianze’ del mondo attuale”, dicono i ricercatori, che si preoccupano che questo orizzonte sia quello verso il quale si stanno indirizzando diverse economie.
Comparativamente, l’Europa si tira fuori dal gioco, e vede la parte del 10% dei piu’ ricchi passare dal 34 al 37% delle ricchezze del Vecchio Continente, una crescita moderata delle diseguagianze a confronto con la situazione delle altre zone.


Le traiettorie divergenti di Europa e Stati Uniti
L’europa dell’Ovest e gli Stati Uniti, che avevano dei livelli di diseguaglianza simili negli anni 1980 (l’1% dei piu’ ricchi accaparrava circa il 10% del reddito dei Paesi o della zona), hanno conosciuto evoluzioni diverse, con gli Usa che hanno visto la propria parte dell1% raddoppiare in qualche decennio, rispetto al +12% del Vecchio Continente.
Per spiegare questo fenomeno, gli autori invocano le diseguaglianze molto forti del sistema educativo americano e il carattere sempre meno progressivo della fiscalita’. Un paradosso nella misura in cui gli Usa si sono sviluppati, in opposizione alla societa’ basata sulle rendite degli europei del XIX secolo, con una tradizione ugualitaria -il sistema progressivo delle imposte e’ stato inventato oltre Atlantico (il tasso -teorico- applicabile ai redditi americani piu’ elevati e’ in media dell'82% con delle punte del 91% degli anni 1940/1960, ma un insieme di dispositivi permette di diminuire questi tassi).
Al contrario, le politiche salariali ed educative europee, piu’ favorevoli alle classi medie, spiegano un aumento medio delle diseguaglianze. Altra spiegazione, per alcuni Paesi europei, come Francia e Regno Unito: i prezzi elevati del settore immobiliare, che hanno fatto crescere il patrimonio della classe media e attenuato l’allontanamento tra i piu’ ricchi e i piu’ poveri.


Il peso delle privatizzazioni
Per spiegare, da un punto di vista generale, queste diseguaglianze e la loro evoluzione, i ricercatori fanno il punto su un fattore determinante: la privatizzazione dei capitali. In seguito alla transizione dal comunismo verso il capitalismo, la Cina e la Russia hanno visto i loro patrimoni privati rispettivamente quadruplicare e triplicare, e questo ha meccanicamente accresciuto le diseguaglianze di reddito e di ricchezza. Questi due Paesi hanno visto la loro parte di 1% raddoppiare negli ultimi venti anni.
“Negli ultimi decenni, i Paesi sono diventati piu’ ricchi, ma i governi sono diventati piu’ poveri”, sottolinea il rapporto (“Paesi” che raggruppano, qui, ricchezza pubblica e privata). Nella maggior parte dei Paesi ricchi, dagli Usa al Giappone, la situazione e’ ancora piu’ catastrofica: il patrimonio pubblico e’ diventato negativo (piu’ debito che utili) -e’ appena in positivo in Germania e Francia. Una situazione che”limita la capacita’ degli Stati di regolare l’economia, redistribuire i redditi e frenare la crescita delle diseguaglianze”.
Gli economisti prevedono che con un prosieguo di questa tendenza, la parte di patrimonio dello 0,1% dei piu’ ricchi del Pianeta (in un mondo in cui sono rappresentati Cina, Unione Europea e Usa), raggiungera’ quella della classe media mondiale nel 2050.

* Associazione per i diritti degli utenti e consumatori

(estratto da un articolo di Mathilde Damgé, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 14/12/2017)



Leggi anche :

La lotta di classe vinta dall’1% ( da il manifesto)
Piketty:disuguaglianze in aumento ma Usa peggio dell’Europa (da www.firstonline.info )
Stigliz.Io premio Nobel vi dico: le diseguaglianze sono troppe ( da l’Espresso)
Povertà e diseguaglianze nel mondo: i dati del rapporto OXFAM ( da http://www.numeripari.org )




10 dicembre 2017

Giganti del futuro e nani del presente



Dal 2018 il piú ricco fondo del mondo e il principale azionista singolo sui mercati internazionali, il fondo sovrano norvegese, disinveste una somma tra i 35 e i 37 miliardi di dollari da titoli di aziende attive nell’estrazione e vendita di petrolio e di gas. E pensare che la Norvegia è l’unico Stato al mondo che, con il petrolio, si è arricchito in maniera democratica ed equa quasi per tutti. Ora i norvegesi anticipano tutti con una scelta storica, che dovrebbe far almeno riflettere tutti gli altri investitori pubblici e privati, a cominciare dalla Banca della Ue, prigioniera del passato e dell’asservimento al business dei soliti e noti distruttori del pianeta. Un segnale dirompente al mercato arriva invece dal fondo norvegese, un gigante non solo per la taglia ma soprattutto per la lungimiranza e l’esempio di democrazia e promozione dell’interesse pubblico che dà al mondo intero. Gratulerer (complimenti)!

di Antonio Tricarico *

Il Fondo Sovrano Norvegese, il più grande al mondo dal momento che gestisce asset per più di mille miliardi di dollari, ha pubblicamente espresso il suo desiderio di uscire dagli investimenti nei combustibili fossili nel 2018. Sulla carta potrebbe quindi spostare a breve via dal settore ben 40 miliardi di investimenti (vedi qui la news di Bloomberg).

Alla base dell’impegno vi è senza dubbio la sensibilità ambientale e l’urgenza di frenare i cambiamenti climatici, ma soprattutto il desiderio di emancipare finalmente la ricchezza della Norvegia – un Paese con soli 4 milioni di abitanti, pari a quelli di Roma e dintorni per capirsi – dall’economia del petrolio e dalle sue pericolose fluttuazioni.

La ricchezza accumulata dal Fondo nasce infatti dall’utilizzo trasparente e fruttuoso delle risorse petrolifere del Mare del Nord nei decenni passati, nonché dai contributi pagati per le pensioni dai lavoratori norvegesi. La Norvegia è l’unico Stato al mondo che con il petrolio si è arricchito in maniera democratica ed equa all’incirca per tutti. Nel 2016, il Fondo, che è pubblico e sotto il controllo del Parlamento, aveva già deciso di uscire dal carbone per motivi ambientali. Oggi è consapevole che in prospettiva, con gli investimenti nell’esplorazione di petrolio e gas che non si fermano, il prezzo del petrolio rimarrà basso o potrebbe addirittura scendere ulteriormente. Una situazione che mette a rischio la solidità e la redditività delle imprese del settore, che tardano a prendere la strada di una vera transizione energetica e della decarbonizzazione. Motivo per cui i norvegesi anticipano tutti e progettano di smettere di investire in Shell, Exxon, Eni e compagnia cantante. Una scelta storica, che dovrebbe far riflettere, se non inspirare a fare altrettanto, tutti gli altri investitori pubblici o privati che siano. Un segnale dirompente al mercato, per chi lo vuole intendere, purtroppo al momento ancora pochi.

In Europa, di contro, i soliti noti delle lobby petrolifere e dei loro replicanti nelle istituzioni si affaticano a veicolare ancora più risorse pubbliche nell’economia del petrolio e del gas. Recentemente è stato rivelato come la Commissione europea abbia pesantemente pressato la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) per rompere gli indugi e finanziare il cosiddetto Corridoio Sud del Gas (noto anche con gli acronimi TAP e TANAP), che porterebbe il gas dall’Azerbaigian al Salento in Italia. Al proposito Re:Common è in grado di produrre la lettera inviata dalla Commissione al seguente link.

Come ormai sappiamo bene, l’opera è controversa e criticata dalle comunità locali e da tante organizzazioni a livello europeo. La Bei vorrebbe concedere prestiti per 3 miliardi di euro, una follia poiché nessuna singola opera ha mai ricevuto così tanti prestiti pubblici dalla Banca dell’UE. Poco importa che il mega gasdotto vincolerà per decenni l’Europa al consumo di gas. E a chi protesta anche con ricorsi contro presunte violazioni del consorzio costruttore in Italia, la Banca risponde di rivolgersi alle imprese e non al suo meccanismo interno per i ricorsi, ed anzi aggiunge che è meglio che chi denuncia accetti che la propria identità sia resa pubblica (qui la lettera di risposta della Bei). Un invito sgradevole, vista la militarizzazione in corso nel Salento per permettere ai lavori di andare avanti, anche se a fatica.

Il fondo norvegese è un gigante non solo per la sua taglia, bensì soprattutto per la lungimiranza e l’esempio di democrazia e promozione dell’interesse pubblico che dà al mondo intero. Da noi la Banca dell’Unione Europea sembra preferire gli interessi dei soliti noti e il sostegno a un business sempre più legato al passato che al futuro. La Banca dell’Unione Europea e molti dei suoi governi azionisti, tra cui quello italiano in prima fila, appaiono dei nani determinati a buttare al vento 3 miliardi di soldi pubblici pur di non ammettere che è venuta l’ora di cambiare e dire no a chi vuole continuare a distruggere il pianeta solo per i suoi interessi di bottega.

Ironia della sorte, la Bei dovrebbe decidere sul finanziamento della mega opera proprio il prossimo 13 dicembre, il giorno dopo il summit sulla finanza per il clima convocato a Parigi dal Presidente francese Emmanuel Macron. In quel contesto, le stesse banche pubbliche e governi europei potrebbero prendere alcuni impegni a parole per ridurre il sostegno ai combustibili fossili per far fronte all’esigenza climatici. Parole da nani (politici), appunto, se poi i fatti dicono altro.

 * da  www.comune-info.net , 1 dicembre 2017   ( fonte  Recommon )

6 dicembre 2017

Elezioni: dopo il voto nulla sarà come prima


di Massimo Marino

Ad un anno esatto dal referendum costituzionale che, con il  successo del NO, ha bloccato il tentativo di rottamazione di parti vitali della Costituzione (e indirettamente l’Italicum) e a 24 ore dall’assemblea romana di ieri in cui sarebbe nato qualcosa di nuovo a sinistra è difficile trovare o sostenere commenti entusiasti e neppure auspici di un futuro radioso. I commenti sono perlopiù desolanti e alcuni, quando espressi con sincerità, desolati. Ma resta da comprendere perché siamo a questo punto e perché la strada del cambiamento in quest’area, ma anche per chi dà un qualche credito e qualche chance al M5Stelle, si è fatta nell’ultimo anno ancora più stretta.

Lorenza Carlassare (costituzionalista per il NO, di Libertà e Giustizia): "Il 4 dicembre abbiamo ottenuto una vittoria schiacciante. Ma ha prodotto un effetto molto modesto sul sistema politico. Naturalmente abbiamo evitato guai peggiori, eppure dietro quei tantissimi “No” al referendum costituzionale c’erano delle richieste che sono andate deluse. Non c’è stato il cambiamento che era lecito sperare. Se devo cercare le ragioni di questa delusione non posso che partire dal ruolo di Renzi ".

Antonio Floridia (Ricercatore su Sistemi elettorali e Partecipazione ): “A un anno dal referendum che ha affossato anche la legge elettorale, l’Italicum, che della riforma costituzionale renziana era il naturale complemento, ci ritroviamo con un nuovo sistema elettorale, di cui si è detto e si dovrà continuare a dire tutto il male possibile. Tutto inutile, dunque? La vittoria del “No” non ha lasciato alcun segno? .. Lungi dall’essere una sciagura, il ritorno a un sistema limpidamente proporzionale – con una soglia di sbarramento non aggirabile al 4 o al 5 per cento – potrebbe rappresentare il solo terreno su cui almeno provare a invertire un radicale processo di delegittimazione delle istituzioni democratiche “

Aldo Giannuli (storico, ricercatore e blogger): “ Cosa sta succedendo sul palcoscenico della politica italiana? Niente. Per carità, non manca il trambusto ed anzi ce ne è troppo: frenetici cambi di casacca, nuovi-vecchi partiti che si riciclano, promesse elettorali a spam, colpi di scena e frettolosi abbandoni della barca che affonda, ma nulla che abbia un senso o qualche valore politico...”

Loris Caruso (Ricercatore all’Università di Milano e Torino su Il Manifesto):” Lo spettacolo di sé che la sinistra italiana sta dando in questi mesi impone una riflessione.. Da dieci anni la sinistra italiana non fa altro che provare a ricostruirsi sul terreno elettorale. Senza riuscirci. Anzi, andando incontro ad avvitamenti sempre più paradossali. Dalle forze che hanno governato con Prodi non è mai potuto nascere un nuovo progetto politico...”

Guido Viale (ecologista, economista, su Pangea):” per me il concetto di ‘sinistra’ non si può più riabilitare. Molto semplicemente, non ha più alcun senso. La stessa sterile battaglia che si fa per capire quanto a sinistra o a centro-sinistra, con il trattino o senza, sia un partito o l’altro, denota il vuoto totale dei temi sui quali ci si dovrebbe confrontare. Io ho partecipato come promotore a tre esperimenti falliti: ‘Alba’, ‘Cambiare si può’ e ‘L’altra Europa con Tsipras’. In tutti e tre i tentativi, dove, nonostante le ripetute insistenze, non c’era la parola ‘sinistra’, si è cercato di misurarsi su cose da fare .. vedo che la battaglia, tra D’Alema, Bersani, Civati, è ancora sul misurare il grado di ‘sinistra’ che ciascuno ha nel sangue.”
                                                              *
Proviamo però ad approfondire un po’ andando oltre un condivisibile pessimismo.

Il referendum del 4 dicembre scorso (è bene ricordare, non promosso da alcuno ma di fatto reso obbligatorio dalle regole costituzionali) ha prodotto un inaspettato sussulto emerso dal profondo del paese che, come nel 2011, ha visto la importante fusione  di aspettative, richieste e proteste di quella parte probabilmente maggioritaria dellla società italiana che normalmente nessuno (movimento, partito o coalizione, neppure i 5stelle)  è in grado neanche lontanamente di rappresentare stabilmente: la difesa della Costituzione, il rigetto del renzismo, il rifiuto della precarietà sociale proposta come modello normale per il paese, per un momento uniti in un unica espressione di voto.

I sostenitori organizzati del NO in realtà provenivano in gran parte da una serie numerosa e prolungata di clamorose sconfitte e trasformismi, che ne avevano ripetutamente mostrato l’inadeguatezza per proporre un percorso credibile di cambiamento. Malgrado che  il vecchio sistema dei partiti andasse lentamente a pezzi fra subordinazione ai potenti, corruzione e clientelismo era fallita fra ambiguità e divisioni la cosiddetta primavera dei 12 referendum, compreso quello delle Regioni contro le trivelle.

Tutta la problematica ambientale era stata già  da anni archiviata senza rilevanti movimenti di opposizione in grado di vincere ( su inceneritori, tav, declino delle rinnovabili negli ultimi tre anni, inversione di tendenza delle emissioni, in aumento, malgrado COP 21, ripresa del mercato dell’auto invece della espansione della mobilità collettiva svuotata di risorse, preoccupante stallo del recupero e riciclo dei materiali in moltissimi comuni.. ). Fallimenti ripetuti , dopo anni di annunci, dei progetti di  far nascere dal basso una nuova ipotesi di alternativa radicale unita e larga, sia a sinistra sia nel campo ecologista. Una telenovelas per il momento chiusa con il solito cartello elettorale di MDP, Sinistra Italiana e Possibile nato ieri a Roma.
Un aggregato dell’ultima ora che ha scavalcato, lasciato fuori, o perduto non solo un bel numero di vecchi concorrenti ( da Pisapia a De Magistris per indicare gli estremi ),  ma soprattutto gran parte di quelli che potevano essere nuovi e un po’ più interessanti protagonisti. Che è unito in una analisi banalmente ostile a riguardo del M5Stelle invece di cercarlo come possibile compagno di strada.

Non è nato quindi al momento nessun partito nuovo, neanche una confederazione di soggetti diversi. Il programma verrà steso nelle prossime settimane (e ci sarà da ridere...). Il nome sembra essere quello annunciato da Grasso,  fino ad un mese fa esponente ed iscritto del PD. Quanto staranno insieme quei possibili 30 eletti dal giorno dopo il voto ? E per fare cosa, con chi? Non prendiamoli troppo sul serio. Nessuno si è sciolto in niente e il giorno dopo il voto si vedrà..

Certo si può fare anche peggio: la pazzia napoletana di presentare ancora un’altra lista o almeno darne l’illusione, come al solito fuori tempo massimo e quando l’ennesima occasione di aggregazione sostenibile è stata persa. La sinistra italiana è follemente innamorata (sempre non ricambiata) delle elezioni e non concepisce l’idea che si possano costruire progetti e grandi aggregazioni lontano dal voto, costruite in un giusto equilibrio fra la base militante, l’attenzione alla cultura politica richiesta, la necessaria espressione di una leadership e soprattutto l’aderenza ai bisogni sociali e ambientali della parte meno garantita del paese.

Il Rosatellum è l’ennesimo tentativo di impedire l’espressione di un sistema proporzionale con una adeguata soglia per rappresentare al meglio il voto espresso dagli elettori (il 3% di oggi è troppo basso, facilita il proliferare di liste costruite per l’occasione e disincentiva la spinta a costruire fusioni vere e stabili di forze simili e la nascita di partiti seri e duraturi). Le liste finte sono già state preannunciate dalla nascita negli ultimi mesi di 5-6 gruppi parlamentari nuovi i quali avranno titolo a presentare le liste senza raccolta di firme né per la Camera né per il Senato. I collegi uninominali con la possibilità di coalizioni (che il giorno dopo il voto possono dissolversi in un baleno) sono un vero e proprio imbroglio per l’elettore, che vota il rappresentante di una coalizione nel suo collegio senza sapere che un minuto dopo la chiusura dei seggi quella coalizione di fatto potrebbe non avere più alcuna consistenza.

Il meccanismo è stato costruito con precisione in funzione anti M5S ma è comunque molto efficace per la raccolta clientelare dei voti e per favorire i vari tipi di fenomeni corruttivi in ambito locale. Singolare che si sia posta invece l’attenzione prevalente sul problema delle preferenze e delle cosiddette liste bloccate. Questione irrilevante e per giunta discutibile. Quale differenza fa votare il nome scelto dal partito o sceglierlo fra i tre o quattro presentati dallo stesso partito ?

L’enigma tripolare
In un sistema momentaneamente tripolare basato su un apparente equilibrio di forze, con in aggiunta la inconsapevole quinta colonna dell’astensionismo garante della stabilità del sistema attuale, non ci sono soluzioni possibili se non si trovano antidoti alla frammentazione sociale che non dà a nessuno un vero mandato per una profonda riforma ( bella o brutta che sia) della società italiana.
Le elezione del prossimo marzo chiudono un epoca storica di 25 anni.
Dopo il voto nulla sarà più, per necessità, come prima.

Che si passi per una nuova coalizione fra centro-destra e centrosinistra (con le probabili perdite di pezzi al loro interno) o che si assista al problematico tentativo di formare un governo da parte del M5Stelle, è molto alta la probabilità di tornare al voto in tempi brevi e riaprire quindi il tema delle regole elettorali ( se non lo farà la Consulta). 

 E’ mia opinione che un sistema tripolare tende rapidamente ad essere sostituito da uno sgradevolissimo bipolarismo imposto (del resto in crisi in tutto il mondo). In questo caso la volontà degli elettori di fatto evapora.
Oppure  - più difficilmente - il bipolarismo può essere superato da un  equilibrato e  più auspicabile pluralismo  in cui l’idea di società futura che si propone  ed il rapporto con i vari settori sociali del paese, possano ritornare al centro del confronto politico detto democratico.

Torino , 4 dicembre 2017