31 gennaio 2018

Palestinesi: Ahed Tamimi e il fallimento della soluzione a due stati



di  Bernard Guetta *  

È una sorta di cambio generazionale. Il 14 gennaio l’intero apparato dirigente palestinese ha constatato la totale impasse di quello che non possiamo più chiamare processo di pace e ha minacciato di sospendere il riconoscimento di Israele fino a quando lo stato ebraico non riconoscerà uno stato palestinese all’interno delle frontiere del 1967.
Mahmoud Abbas, presidente dell’autorità palestinese, ha definito “lo schiaffo del secolo” la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, che la Casa Bianca considera ormai come la capitale di Israele e non più come una città da dividere, un giorno, in due capitali di due stati diversi. In questa riunione di uomini anziani, ormai consapevoli di aver fatto il loro tempo senza ottenere risultati, si percepiva una rabbia fredda. 

La determinazione di Ahed
Poi però, nella giornata del 17 gennaio, è arrivata la decisione di un tribunale militare israeliano di
rifiutare la libertà condizionata a una palestinese di 16 anni, Ahed Tamimi, che sarà processata alla fine del mese per aver partecipato a “scontri violenti”. Questa adolescente è diventata un’icona palestinese e una celebrità mondiale da quando ha schiaffeggiato un soldato che voleva impedirle di partecipare alla manifestazione settimanale del suo villaggio contro l’occupazione israeliana.
Nel 2012, quando Ahed aveva 12 anni, era già diventata famosa agitando il pugno verso un altro soldato minacciando di “rompergli la testa”. Un anno fa aveva morso un altro militare per impedirgli di interrogare suo fratello. Ora è arrivato lo schiaffo, filmato dalla madre e diventato virale sui social media. Nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace.

Definita da Haaretz, quotidiano di riferimento israeliano, la “Giovanna d’Arco palestinese”, Ahed rappresenta per la giustizia militare un problema irrisolvibile, perché la sua liberazione le avrebbe permesso di presentarsi come un’eroina al processo mentre la sua detenzione la rende una martire, una ragazzina vittima dei soprusi di un’esercito potente.
I giudici militari hanno scelto di confermare la detenzione di Ahed considerandola il rischio minore. In ogni caso è evidente che questa adolescente, nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace e nemmeno alla soluzione dei due stati, decisa a battersi solo per il riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità.  

Il fallimento del negoziato ha insegnato a questa generazione che oggi essa non vive nella virtualità della Palestina, ma nella realtà di uno stato di Israele che comprende la Cisgiordania, uno stato unico a cui chiedere diritti civili, più difficili da rifiutare rispetto a un insieme di frontiere, uno stato e una capitale. 

Nella foto: Una manifestazione in sostegno di Ahed Tamimi a Gaza, l’8 gennaio 2018. (Majdi Fathi, NurPhoto via Getty Images)

* da Internazionale.it – 18 gennaio 2018    

24 gennaio 2018

Egitto: elezioni presidenziali del marzo 2018



Sami Anan, ex capo di stato maggiore e unico avversario di al Sisi, è stato arrestato 

Egitto. Un altro potenziale sfidante che salta pochi giorni dopo l’attesa ricandidatura dell’ex generale al-Sisi: il 19 gennaio in un discorso tv ha rivendicato i risultati del primo mandato e promesso che non permetterà a dei «corrotti» di «salire su questa sedia». Una minaccia poco velata, che rende la possibilità di una corsa solitaria ogni giorno più probabile
 
di  Chiara Cruciati ( il manifesto 24 marzo 2018 )

Ieri Sami Anan, ex capo di Stato maggiore egiziano, da poco candidato alle presidenziali del 26-28 marzo, è stato arrestato: ufficialmente – dicono fonti della sicurezza – è stato «convocato» con l’accusa di aver falsificato documenti ufficiali nei quali dichiarava di essersi ritirato dall’esercito, condizione necessaria alla candidatura. Un altro potenziale sfidante che salta pochi giorni dopo l’attesa ricandidatura dell’ex generale al-Sisi: il 19 gennaio in un discorso tv ha rivendicato i risultati del primo mandato e promesso che non permetterà a dei «corrotti» di «salire su questa sedia». Una minaccia poco velata, che rende la possibilità di una corsa solitaria ogni giorno più probabile.
Se la National Elections Authority ha ricevuto richieste di monitoraggio del voto da 48 organizzazioni locali e internazionali, il problema è a monte: la barriera è mediatica. La denuncia è di altri aspiranti candidati: Mohamed Anwar Sadat, nipote dell’ex presidente, non è riuscito a trovare un hotel o una sala conferenze (la risposta ricevuta: ordine dei servizi di sicurezza) che ospitasse il lancio della campagna e nessuna tipografia ha voluto stamparne i volantini. Alla fine si è ritirato. Lo stesso ha fatto l’ex premier e uomo di Mubarak, Ahmed Shafik: non sono l’uomo giusto, ha detto, troppo tempo trascorso fuori dal paese. Ma il motivo – riportano fonti a lui vicine – è stata la minaccia del governo di scatenargli contro la magistratura per casi di corruzione.
E poi c’è Khaled Ali, avvocato e rappresentante della sinistra, su cui pende la condanna per gesti osceni. L’appello si terrà il 7 marzo: se la sentenza sarà confermata sarà fuori dalla corsa. Nel frattempo anche lui è nella pratica impossibilitato a presentare pubblicamente la candidatura.

Al-Sisi pigliatutto: per gli sfidanti non c’è spazio 

Presidenziali. La legge egiziana prevede come requisiti alla candidatura 20mila firme di cittadini e l'appoggio di 20 deputati. Ma 510 su 596 lo hanno dato al presidente. E mentre Khaled Ali rischia la prigione, Ahmed Shafiq si ritira per le minacce del Cairo

di Chiara Cruciati  ( il manifesto 11 gennaio 2018 )

Erano già tanti ma continuano ad aumentare: da martedì il numero di parlamentari che sostengono la candidatura del presidente al-Sisi – che di suo ancora non si è fatto avanti, ma lo farà – alle presidenziali di marzo è salito da 466 a 510 su 596. Un dato da non tralasciare: la legge egiziana richiede come requisiti a chi voglia candidarsi alla presidenza 20mila firme di cittadini e 20 deputati a sostegno. Ne restano «liberi» 96, come vada la corsa non sarà certo affollata. A denunciare una legge «troppo restrittiva» è Mohamed al Sadat, nipote dell’ex presidente Anwar e potenziale candidato se il clima, dice, non fosse così «scoraggiante»: Sadat non è ancora riuscito a presentare il suo programma alla stampa.
Stesso problema per Khaled Ali, candidato della sinistra, su cui pesa anche una condanna in primo grado per «gesti osceni». L’appello sarà il 7 marzo: se la condanna verrà confermata, sarà arrestato e perderà il diritto a concorrere. E poi c’è l’ex uomo forte di Mubarak, Ahmed Shafiq, il cui tentativo di candidarsi è ormai una saga: cacciato dagli Emirati dove viveva, detenuto in Egitto al suo rientro e poi rilasciato, si è «volontariamente» ritirato due giorni fa, ufficialmente perché non si ritiene «l’uomo giusto al momento attuale». Ufficiosamente, dicono fonti a lui vicine, per le pressioni del Cairo che avrebbe minacciato di tirare fuori vecchie storie di corruzione. Sicuramente vere, verrebbe da dire, visto il ruolo giocato negli anni di Mubarak, prima nell’esercito fino al grado di capo di Stato maggiore e poi come primo ministro nel gennaio 2011 per placare (invano) le piazze.
Le elezioni si terranno dal 26 al 28 marzo (dal 16 al 18 per gli elettori all’estero) e l’eventuale ballottaggio dal 24 al 26 aprile. Per candidarsi c’è tempo fino al 29 gennaio, sempre che si superino le forche caudine del parlamento.

Nella foto: Il presidente dell'Egitto generale al Sisi

21 gennaio 2018

Raid turchi su Afrin. La nuova guerra è un «Ramo d’ulivo»



Ankara senza freni. Ieri «100 obiettivi colpiti» nell’operazione contro il cantone curdo in territorio siriano. Gli Usa nell’angolo mentre Erdogan indica già il prossimo target. Le truppe Ypg, che alla prospettiva di un'aggressione erano preparate, resistono al tentativo di sfondamento da terra dell'Esercito libero siriano


 Dopo i martellanti bombardamenti dal confine, ieri la Turchia ha fatto levare in aria i propri aerei da guerra che hanno attaccato la regione nel corso dell’intera giornata, sia lungo i confini con la Turchia, sia nel centro e nei dintorni della città di Afrin stessa.

LE MILIZIE dell’Esercito libero siriano (Fsa), forte di almeno 5000 unità già in campo, hanno tentato sin dal mattino uno sfondamento sostenute dal fuoco dell’artiglieria e dei carri armati stazionati in territorio turco. Hanno però incontrato la resistenza delle truppe curde Ypg, che le stime contano tra le 10.000 e le 20.000 unità e che da tempo si preparavano a una possibile aggressione. L’aviazione turca ha dichiarato di aver colpito oltre 100 obiettivi, mentre è ancora sconosciuto il numero delle vittime, anche se le prime immagini in rete raffigurano decine di corpi senza vita e lasciano presagire il peggio.

LO STATO MAGGIORE dell’esercito turco ha diramato nella giornata di ieri il comunicato ufficiale di avvio dell’operazione, denominata «Ramo d’ulivo»: un nome paradossale, da alcuni interpretato come un messaggio indiretto agli americani e alla distinzione tra Ygp e Pkk, inesistente dal punto di vista turco. Le autorità militari legittimano l’intervento attraverso l’adesione alle linee guida della strategia globale antiterrorismo delle Nazioni unite e l’articolo 51 della Convenzione Onu in materia di autodifesa. Nel comunicato lo stato maggiore ha sottolineato che l’operazione verrà condotta nel rispetto dell’integrità territoriale della Siria, colpendo sia bersagli appartenenti alle Ypg che allo Stato islamico. Affermazioni difficili da digerire, considerato sia l’assenza di milizie dell’Is nella regione, sia la difficoltà del regime siriano ad accettare l’ennesima guerra turca sul proprio territorio.

IL MINISTRO DEGLI ESTERI TURCO Mevlut Cavusoglu si è prodigato ad inviare a Damasco lettere con i dettagli dell’operazione, mentre gli ambasciatori di Iran, Russia e Stati uniti sono stati convocati a Ankara e formalmente aggiornati sullo svolgimento del conflitto. Anche il presidente della repubblica turco Recep Tayyp Erdogan ha parlato dell’avvio della guerra. Durante un comizio del partito Akp a Kuthaya, nel cuore dell’Anatolia, ha dichiarato: «Coloro che armano i terroristi capiranno presto che non c’è esiste altro partner affidabile nella regione ad eccezione della Turchia». Un messaggio esplicito per l’odiato alleato americano. Erdogan ha promesso che, dopo Afrin, «Manbij sarà la prossima destinazione. Passo dopo passo, ripuliremo da questa pestilenza terrorista che ci assedia tutto il paese, fino al confine Iracheno».
Quello che attende il futuro pare essere un lungo braccio di ferro tra Turchia e Usa, fino a che Washington non abbandoni i propri propositi e gli alleati nel nord della Siria, oppure non imprima una decisa svolta in favore del progetto del confederalismo democratico in Rojava, il che implicherà la rottura dei rapporti non solo con la Turchia, ma anche con Damasco e Mosca.
E proprio sul progetto di autonomia si è concentrata la critica del ministero della Difesa russo, che in un comunicato dice che «la ragione principale di questa situazione critica è la provocativa decisione degli Stati uniti di sostenere un’autonomia delle regioni a maggioranza curda. Le incontrollate spedizioni del Pentagono di armi moderne, tra cui sistemi di difesa aerea portatili, destinate alle forze pro-Usa, hanno condotto all’avvio dell’operazione militare turca».

DI DIVERSO AVVISO il portavoce Ypg Nuri Mahmoud, secondo cui la Turchia starebbe utilizzando le armi americane destinati alle Sdf come scusa per attaccare Afrin: «Non c’è mai stata alcuna minaccia verso la Turchia dai confini che stiamo difendendo. La nostra gente è riuscita a mettere in campo pratiche di autogoverno che il governo turco non vuole accettare». Mahmoud ricalibra dunque il cuore del problema, passando da una questione di sicurezza a una ideologica. È la graduale istituzionalizzazione delle Sdf come esercito regolare a infastidire Ankara. Il problema è se e quando gli Stati uniti proveranno a riconoscere politicamente le strutture di autogoverno già esistenti nel nord della Siria.

LE OPPOSIZIONI IN TURCHIA contestano duramente l’operazione militare su Afrin, che condurrà il paese a un ulteriore isolamento sulla scena internazionale senza portare alcuna soluzione realistica nei confronti del Pkk e dell’autonomismo curdo in generale, capace di sopravvivere a 40 anni di confitto. Ma è il rischio dell’ennesima emergenza umanitaria che dovrebbe frenare gli istinti bellicisti. Un appello alla comunità internazionale è stato lanciato da personalità prominenti, tra cui Noam Chomsky: «Afrin è una delle regioni della Siria più stabili e sicure. Negli ultimi cinque anni ha accolto moltissimi rifugiati da tutto il paese, tanto che la sua popolazione è raddoppiata fino a 400.000 persone. Questo attacco è uno sfacciato atto di aggressione contro un territorio democraticamente e pacificamente governato».

* da il manifesto – 21 gennaio 2018

Nella foto: Miliziani curdi delle truppe Ypg a difesa di Afrin e della Rojava