5 gennaio 2018

La contestabile leadership green della Germania che brucia troppo carbone



Il 40% dell’energia elettrica tedesca viene dal carbone. Nonostante l'impetuosa crescita delle rinnovabili, il paese non raggiungerà il taglio previsto delle emissioni al 2020 per almeno 10 punti di scarto. Il tema di un'uscita dal carbone è ancora tabù per governo e sindacati.





La Germania è vista ancora come un paese leader negli investimenti in fonti rinnovabili e nella lotta al global warming con il suo ambizioso obiettivo di tagliare le emissioni di CO2 del 40% al 2020 rispetto ai valori del 1990. Quasi un terzo della sua elettricità è generato da eolico e fotovoltaico, una quota doppia, ad esempio, rispetto a quella degli Stati Uniti. Tuttavia la Germania non sembra meritare questo ruolo di leadership di paese green, ancora tutta da conquistare. Nel grafico (elaborazione Clean Energy Wire su dati AG Energiebilnzen) la quota delle diverse fonti sul mix elettrico: la forte crescita delle rinnovabili, ma al contempo il peso ingombrante dei quasi 250 TWh da carbone.


Nei fatti sappiamo quindi che il 40% dell’energia elettrica tedesca viene ancora dal carbone, e parliamo di quello sporco, lignite e carbone pesante (hard coal). Questa quota di carbone sull’elettrico è la seconda in Europa, subito dopo la Polonia che ha una dipendenza da questa fonte fossile prossima all'80%.

Per capire la fatica del processo di transizione energetica in Europa, segnaliamo che in quest’ultimo paese, che ospiterà persino la prossima Cop sul clima nel 2018, si è appena inaugurata un’unità nella più grande centrale a carbone europea, a Kozienice: brucerà circa 3 milioni di tonnellate di carbone ogni anno. E poi ci chi chiediamo perché i governi europei tutelino ancora economicamente queste centrali, che solo in Polonia hanno ricevuto 60 miliardi di euro sovvenzioni negli ultimi due decenni, e al contempo provino a rallentare in tutti i modi sulle rinnovabili?

Tornando alla Germania, va detto che anche per questo eccessivo peso del carbone l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2020 verrà mancato: basti pensare che a fine 2016 il taglio risultava appena del 27%. Quasi certamente il target rimarrà lontano di almeno 10 punti percentuali. Eppure di chiusura di centrali a carbone se ne parla poco nel paese, considerando anche l’irritazione dei sindacati di settore che, tra centrali e settore minerario, curano gli interessi di circa 130mila lavoratori.



I consumi sull’energia primaria di hard coal e lignite sono comunque calati nel 2017, rispettivamente del 10,4% e dello 0,6% in confronto al 2016. Tuttavia, nonostante l’incremento delle rinnovabili del 6,1% (passano dal 12,5 del 2016 al 13,1% sui consumi primari nel 2017), con l’aumento dei consumi energetici dello 0,8%, le emissioni di CO2 legate al settore energetico resteranno stabili anche per quest’anno. Alternative alla fuoriuscita graduale ma rapida dal carbone non se vedono.

La dipendenza dal carbone è un tema così delicato che in campagna elettorale la Merkel si è guardata bene dall’affrontarlo di petto. Con l’ipotesi, ormai fallita, di una possibile coalizione a tre insieme ai Verdi, sul tavolo c’era l’opzione della chiusura dei 20 impianti a carbone più inquinanti del paese. Non si sarebbe raggiunto il target 2020, ma almeno si sarebbe messo il paese su un percorso virtuoso di riduzione delle emissioni. Non sembra il momento giusto per questo passaggio, nonostante il tasso di disoccupazione in Germania sia ai minimi storici e migliaia di lavoratori siano stati assunti nei settori delle rinnovabili, dando persino l’idea che vi possano essere trasferiti anche i lavoratori in uscita dal settore del carbone.

Inoltre la chiusura di diverse centrali a carbone, in un quadro di sovracapacità, non porterebbe nemmeno ad un aumento significativo dei prezzi dell’elettricità, almeno nel breve periodo.

Forse l’unica possibilità di vedere la chiusura di questi impianti inquinanti è sperare nell’aumento del prezzo della CO2. La prossima riforma dell’ETS entro il 2020 potrebbe portare a una riduzione dei permessi di emissione distribuiti, facendo così innalzare il prezzo della CO2 anche di tre volte rispetto ad oggi (intorno ai 24 €/tonnellata), abbastanza da indurre ad una uscita dal carbone.

Nonostante alcuni affermino che il peso del carbone nel paese sia in aumento a causa della decisione governativa di uscire dal nucleare dopo Fukushima, più verosimilmente si può dire che abbia inciso, oltre al basso prezzo della CO2, anche il fatto che dal 2011 i costi della generazione elettrica da carbone sono calati del 30%, spinti dall'oversupply della materia prima. Fattore, questo, legato al boom dello shale gas negli Usa che ha portato gli States ad esportare più carbone, in concomitanza ad una crescita della produzione anche in Asia.


Uno studio pubblicato ad inizio 2017 commissionato dal WWF tedesco, dal titolo "Germany’s electric future/Coal phase-out 2035, e condotto da Öko-Institut e Prognos, riteneva anche in un’ottica di più lungo periodo (vedi obiettivi post accordo di Parigi) di smantellare le centrali a carbone operative da più di 30 anni, fissare al 2035 lo stop totale e definitivo di tutti gli impianti fossili, escluso il gas, accelerare l’espansione delle rinnovabili secondo il piano previsto dalla EEG 2014. Al momento tutte ipotesi difficili da incastrare insieme. Il processo di transizione energetica tedesca (Energiewende) resta pertanto in grossa difficoltà e il problema si chiama soprattutto carbone.

Un problema che non può nemmeno essere circoscritto alla sola Germania perché, come ha spiegato uno studio pubblicato da Health and Environment Alliance, Climate Action Network Europe, Wwf e Sandbag, dal titolo “La nuvola scura sull’Europa: come i paesi a carbone fanno ammalare i loro vicini”, l’inquinamento da carbone europeo, specialmente da PM 10 e PM 2,5, e i suoi effetti sulla salute delle persone arrivano ben oltre i confini nazionali (QualEnergia.it), Italia inclusa.


 * 22 dicembre 2017

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