30 novembre 2018

La crescita illimitata è impossibile e dannosa



A breve distanza di tempo dalla mobilitazione in favore della Nuova Linea Ferroviaria Torino-Lione del 10 ottobre scorso si è tenuto, sempre a Torino, un interessante convegno “Science and the future-2” presso il Politecnico e il Campus Einaudi. Si è trattato in realtà della seconda edizione (la prima fu nel 2013) di un incontro di carattere internazionale al quale hanno partecipato scienziati (tra gli altri è intervenuto come relatore il rettore del Politecnico) sia italiani che esteri e accademici dell’area giuridica, economica e sociale. È stata un’occasione importante per avere un quadro aggiornato della situazione ambientale e per verificare la compatibilità dell’attuale modello socioeconomico con il sistema della natura.

Come sappiamo nel dicembre 2015 con l’accordo di Parigi i principali Paesi hanno deciso di cercare di mantenere l’innalzamento della temperatura media dell’atmosfera ben al di sotto di 2°C o meglio fino a 1,5°C entro il 2030. Secondo il report 2018 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change):
«oggi il riscaldamento prodotto dalle attività umane ha già raggiunto il livello di circa 1°C rispetto al periodo pre-industriale. Nel decennio 2006-2015 la temperatura è cresciuta di 0,87°C (±0,12°C) rispetto al periodo pre-industriale (1850-1900). Se questo andamento di crescita della temperatura dovesse continuare immutato nei prossimi anni, il riscaldamento globale prodotto dall’uomo raggiungerebbe 1,5°C intorno al 2040. […] Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, il mondo dovrà affrontare una serie di trasformazioni complesse e connesse. Se alcune città, regioni, stati, aziende e comunità stanno già portando avanti transizioni per diminuire le emissioni di gas serra, sono poche le realtà che sono attualmente in linea con l’obiettivo di 1,5°C. Rispettare questo limite richiederà un’accelerazione nella dimensione e nel ritmo del cambiamento, soprattutto nei prossimi decenni. Sono molti i fattori che influiscono sulla fattibilità delle diverse opzioni di adattamento e di mitigazione che possono contribuire a limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e di adattarsi con successo alle relative conseguenze. […] Gli impatti dei cambiamenti climatici riguardano tutti i continenti e gli oceani. Tuttavia, non sono distribuiti sul pianeta in maniera uniforme: nelle varie regioni gli impatti dei cambiamenti climatici si manifestano in maniera diversa. Tra i molti impatti possibili, un riscaldamento medio globale di 1,5°C aumenta il rischio di ondate di calore e piogge intense».

Sono cronaca di questi ultimi mesi i grandi incendi in California, dove da anni persiste una forte siccità, e, all’opposto, l’alluvione a Petra in Giordania in piena zona semi desertica; e in ambito locale le mareggiate sulle coste italiane, le alluvioni in Sicilia e i forti venti che hanno distrutto le foreste del Friuli. Questi fenomeni non devono stupire: a fine ottobre l’Agenzia europea per l’ambiente ha diffuso un rapporto sul tema dell’inquinamento atmosferico che, come sappiamo, è causa primaria dell’innalzamento della temperatura. L’Italia è il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per decessi prematuri dovuti all’inquinamento da polveri sottili (più di 60 mila morti nel 2015); è invece al primo posto in Europa per le morti premature connesse all’inquinamento da biossido di azoto (20.500) e da ozono (3.200). Secondo l’Agenzia oltre 47 milioni di europei (8,9% del totale) sono esposti al rischio determinato dagli sforamenti di almeno due dei limiti delle polveri sottili, del biossido d’azoto o dell’ozono. All’interno di questo folto gruppo, però, 3,9 milioni di cittadini vivono in zone a “super rischio” dove gli sforamenti riguardano tutti e tre i fattori: di essi 3,7 milioni, cioè il 95%, abitano le aree urbane della Pianura Padana. Ma anche dal punto di vista del terreno la Pianura Padana è messa male: nel convegno citato è emerso che la nostra pianura è la meno fertile in Europa a causa dell’agricoltura intensiva del mais, in particolare.
In sostanza, secondo gli scienziati che sono intervenuti a Torino, c’è un evidente e insanabile conflitto tra l’economia circolare della natura e l’economia della crescita continua: basta anche solo pensare, oltre all’enorme consumo energetico attraverso la combustione (che in natura non esiste se non per piccole eccezioni), al tema dei rifiuti e del loro necessario, ma difficile riciclo. A questo proposito è emerso durante il convegno un dato interessante: quando si parla di rifiuti generalmente ci si riferisce ai rifiuti urbani. Essi, però, sono solo una piccola parte del volume molto più grande di rifiuti prodotti dalle diverse attività economiche: la parte principale dei rifiuti è dovuta infatti all’attività edilizia. Viene da chiedersi quanto fossero informati su questi dati ambientali i partecipanti alla manifestazione di Piazza Castello a Torino.

I relatori del convegno di Torino si sono soffermati altresì sugli aspetti economici e sociali del modello attuale per dire innanzitutto che l’idea di una crescita economica continua e illimitata è priva di fondamenti scientifici: la curva dell’economia reale non è, dunque, quella esponenziale che sognano alcuni economisti, ma molto più realisticamente una curva logistica che all’inizio cresce rapidamente per poi rallentare e stabilizzarsi lungo un asintoto superiore.
Anche il tema delle disuguaglianze sociali, che è oggi scoperto e trattato persino dai fautori della crescita illimitata perché temono che esso possa portare a una stagnazione economica (che in realtà è già in atto) e a un forte conflitto sociale e internazionale, è stato affrontato dai relatori. È stato detto che in una logica economica di crescita continua e di competizione esasperata l’aumento delle disuguaglianze è inevitabile. Infatti, se la curva che meglio interpreta l’economia attuale è quella logistica, allora esistono due curve logistiche: quella della minoranza dei più ricchi, che segue l’andamento descritto prima per l’economia in generale, e quella della maggioranza via via più povera che inizialmente sale quasi parallela a quella dei ricchi, ma che poi declina molto prima e continua a scendere stabilizzandosi lungo un asintoto inferiore molto basso. Su questo aspetto almeno i partecipanti alla manifestazione di piazza Castello a Torino erano sicuramente informati e coscienti, visto che si sono dichiarati in continuità con la marcia del 40 mila del 1980 contro gli operai di Mirafiori. La loro speranza è sicuramente quella di restare appesi alla curva logistica dei ricchi e di non precipitare su quella dei poveri.

Se la situazione economica, ambientale e sociale è questa, non resta che sperare nell’innovazione tecnologica perché ci salvi dalla distruzione ambientale e dal degrado sociale. Ma anche qui le osservazioni che ci arrivano dal convegno “Science and the future-2” non sembrano confortare questa speranza.
Qual è la curva che descrive meglio i rendimenti non solo economici delle innovazioni tecnologiche? Non è in questo caso la logistica – che non andrebbe neanche male – ma quella detta di Seneca che, a fronte della complessità crescente della società, vede crescere inizialmente i benefici sociali per poi rallentare e raggiungere un massimo, dopo il quale la curva inizia rapidamente a scendere. Un esempio che descrive bene questo andamento è la scoperta della penicillina e degli antibiotici: inizialmente ha portato a un rapido miglioramento delle condizioni sanitarie; poi l’effetto si è stabilizzato e ora incomincia a decrescere. Questa interpretazione dei rendimenti decrescenti delle innovazioni tecnologiche è stata suffragata con l’analisi degli effetti socioeconomici delle tre grandi rivoluzioni industriali: del vapore, dell’elettricità e del digitale. In tutti e tre i casi i dati dei principali Paesi mostrano l’andamento suindicato.

Provando a tirare le fila di quanto fin qui detto, risulta evidente che occorra mettere mano alla costruzione della proposta di un modello socioeconomico diverso da quello attuale, superando la parzialità dei singoli movimenti che si occupano della salvaguardia dell’ambiente, se non addirittura di un suo specifico elemento (l’aria, l’acqua, i rifiuti ecc.) oppure dell’opposizione a grandi opere o grandi eventi finalizzati solo al doping di un’economia stagnante oppure ancora alla difesa della dignità sociale ed economica di chi vive o vorrebbe vivere del proprio lavoro.
Certo un intento di questo genere non può essere esente da dubbi, incertezze e anche vere contraddizioni, ma una certezza su tutte ci rimane: nessuno dei partecipanti alla manifestazione di piazza Castello a Torino vorrà e potrà contribuire a un progetto del genere.

*  da volerelaluna.it   27 novembre 2018

La decrescita necessaria


Da molti decenni il divario economico tra ricchi e poveri dilaga tra i continenti come all’interno di ogni nazione. I dati macroscopici, oltre 4 miliardi di persone vivono con niente e una decina di nababbi possiede la ricchezza di mezzo pianeta, sono tanto noti quanto ignorati nei fatti. La sola strategia per ridurre la povertà attuata da chi detiene il potere di decidere è aumentare la crescita del Pil, ma i suoi rendimenti sono distribuiti in modo che il 60% più povero dell’umanità riceva solo il 5% della ricchezza generata dalla crescita economica. Il rimanente 95% del nuovo reddito va al 40% più ricco della popolazione mondiale. “The Divide“, il libro dell’antropologo Jason Hickel, edito in Italia dal Saggiatore, ripercorre la storia dello squilibrio economico globale, smontando una dopo l’altra le bugie che hanno accompagnato la narrazione colonialista, la retorica degli aiuti ai paesi “sottosviluppati” e la trappola del debito. Per eliminare davvero la povertà assoluta, con questo sistema, ci vorrebbero 200 anni, mentre il Pil globale dovrebbe crescere di 175 volte estraendo, producendo e consumando risorse naturali 175 volte più di quanto facciamo oggi. Il pianeta terra sarebbe letteralmente consumato. La sola via che resta è tagliare i consumi dei più ricchi, redistribuire la ricchezza accumulata, liberarci dell’ideologia del consumo e scegliere una politica di decrescita guardando a esempi di società in cui le persone hanno una lunga aspettativa di vita, livelli di pace sociale e felicità individuale elevati e bassi livelli di consumo

di Riccardo Mastini*


A tutt’oggi circa 4,3 miliardi di persone – oltre il 60% della popolazione mondiale – vivono in estrema povertà, lottando per sopravvivere con meno dell’equivalente di 5 dollari al giorno. Inoltre, la metà di queste persone è denutrita. E questi numeri sono cresciuti costantemente negli ultimi decenni. È con questi dati che Jason Hickel, professore di antropologia ed esperto di sociologia dello sviluppo, inizia il suo libro The Divide: Guida per risolvere la disuguaglianza globale che è appena stato tradotto in italiano. 


Lo scopo del libro è quello di smascherare la narrativa ottimistica propugnata dall’ONU e da personalità pubbliche quali Bill Gates e Steven Pinker per dimostrare come in verità risolvere la disuguaglianza globale richieda un radicale cambio di paradigma economico. Infatti, mentre la propaganda diplomatica e mediatica ci porta a credere che la povertà sia diminuita in tutto il mondo, in realtà gli unici paesi in cui questo è vero sono la Cina e qualche altro paese dell’Asia orientale. E questi sono alcuni degli unici paesi al mondo in cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale non sono riusciti ad imporre la dottrina neoliberista, consentendo a questi governi di perseguire politiche di protezionismo e dirigismo statale.
Ma le agenzie di sviluppo, le ONG, e i governi dei paesi ricchi cercano di convincerci che la povertà dei paesi nel Sud del mondo è un problema tecnico, che può essere risolto adottando le giuste istituzioni e le giuste politiche economiche, lavorando sodo e accettando un po’ di aiuto allo sviluppo (una forma di aiuto finanziario fornita da governi ed altre agenzie a sostegno dello sviluppo economico, sociale e politico). Ma Hickel argomenta in maniera convincente che questa retorica confortante è soltanto un inganno poiché l’intero sistema economico globale si fonda proprio sul mantenere il Sud del mondo in povertà.

Lo scambio iniquo nel corso dei secoli
L’argomento principale presentato nel libro è che il discorso sull’aiuto allo sviluppo ci distrae dal vedere il quadro più ampio. Tale narrativa nasconde le dinamiche di sfruttamento che stanno causando attivamente l’impoverimento del Sud del mondo per mano dei paesi ricchi. Il paradigma della beneficenza oscura le vere questioni in gioco: sembra che l’Occidente stia “sviluppando” i paesi poveri, quando in realtà è vero il contrario. Hickel sostiene che i paesi poveri stanno effettivamente sviluppando i paesi ricchi dalla fine del XV secolo. Nel libro è chiaramente dimostrato che il sottosviluppo nel Sud del mondo non è una condizione naturale, ma una conseguenza del modo in cui le potenze occidentali hanno organizzato il sistema economico mondiale dall’epoca del colonialismo in poi.
Ad esempio, nel 2012 (l’ultimo anno per il quale abbiamo dati completi) tutte le risorse finanziarie trasferite dai paesi ricchi a quelli poveri ammontano a poco più di 2 trilioni di dollari. Ma più del doppio di questa somma, circa 5 trilioni di dollari, è fluito in direzione opposta. In altre parole, i paesi in via di sviluppo hanno inviato 3 trilioni in più al resto del mondo di quanto abbiano ricevuto.
Ma in cosa consistono questi grandi transfer di ricchezza dal Sud del mondo? Alcuni di questi sono pagamenti sul debito. Oggi, i paesi poveri pagano ogni anno oltre 200 miliardi di dollari in interessi ai creditori stranieri, in gran parte su vecchi prestiti che sono già stati ampiamente ripagati ma che l’interesse composto ha reso delle vere e proprie sabbie mobili dalle quali è impossibile uscire. Un altro elemento è il reddito che investitori stranieri accumulano e rimpatriano. Ad esempio, basti pensare a tutti i profitti che Shell estrae dalle riserve petrolifere della Nigeria o che Anglo American plc estrae dalle miniere d’oro del Sud Africa. Altra parte considerevole di questo transfer di ricchezza ha a che fare con la fuga di capitali. Gran parte di ciò avviene attraverso “leakages” nella bilancia dei pagamenti tra paesi. Non bisogna poi dimenticare quanto viene sottratto attraverso una pratica illegale nota come “trade misinvoicing”: le multinazionali operanti nel Sud del mondo riportano falsi prezzi sulle loro fatture commerciali allo scopo di trafugare capitali direttamente nei paradisi fiscali.

Ma la perdita più significativa ha a che fare con lo sfruttamento attraverso le regole del commercio internazionale. Hickel spiega che dai tempi del colonialismo fino alla globalizzazione, l’obiettivo principale del Nord del mondo è stato quello di ridurre il costo del lavoro e delle merci acquistate dal Sud. In passato, i poteri coloniali erano in grado di dettare direttamente alle loro colonie i termini dei contratti commerciali. Oggi, poiché il commercio è tecnicamente “libero”, i paesi ricchi sono in grado di estorcere ricchezza attraverso il loro potere contrattuale. Gli accordi di libero scambio impediscono ai paesi poveri di proteggere i loro lavoratori nei modi che fanno i paesi ricchi attraverso politiche protezionistiche. E poiché le multinazionali hanno oggi la possibilità di delocalizzarsi alla ricerca della forza lavoro a più buon mercato, i paesi poveri sono costretti a competere fra di loro per ridurre le tutele per i lavoratori e per l’ambiente. Come risultato di tutto ciò, c’è un divario tra il “valore reale” del lavoro e delle materie prime che i paesi poveri vendono e i prezzi a cui queste sono effettivamente pagate. Questo è ciò che gli economisti chiamano “scambio iniquo“.
Dagli anni ’80 i paesi occidentali hanno usato il loro potere di creditori per dettare politiche economiche e commerciali ai paesi indebitati del Sud, governandoli remotamente, senza -almeno nella maggior parte dei casi- la necessità di interventi militari. Facendo leva sul debito, hanno imposto “aggiustamenti strutturali” per annullare tutte le riforme economiche che i paesi del Sud avevano faticosamente attuato nei due decenni successivi alla decolonizzazione. Nel processo, i paesi occidentali sono arrivati al punto di mettere al bando le politiche protezionistiche e keynesiane che loro stessi avevano adottato per sviluppare le loro neonate industrie nella prima metà del Novecento.

Decrescita in Occidente per un giusto sviluppo nel resto del mondo
Hickel prosegue la sua analisi interrogandosi su quali sarebbero le conseguenze se i paesi poveri fossero effettivamente lasciati liberi di sviluppare le loro economie. A tale fine, fa riferimento a uno studio dell’economista David Woodward in cui si dimostra che, dato il nostro vigente modello economico, l’eradicazione della povertà su scala globale è fisicamente impossibile.
Attualmente la principale strategia per eliminare la povertà è aumentare la crescita del PIL. L’idea è che la crescita economica aiuti a ridurre la povertà. Ma tutti i dati che abbiamo mostrano chiaramente che la crescita del PIL non avvantaggia realmente i poveri. Mentre il PIL pro capite globale è cresciuto del 65% dal 1990, il numero di persone che vivono con meno di 5 dollari al giorno è aumentato di oltre 370 milioni. Perché la crescita non aiuta a ridurre la povertà? Perché i rendimenti della crescita sono distribuiti in modo non uniforme. Il 60% più povero dell’umanità riceve solo il 5% della ricchezza generata dalla crescita economica. Il rimanente 95% del nuovo reddito va a beneficio del più ricco 40% della popolazione mondiale.
Dato questo rapporto di distribuzione, Woodward calcola che ci vorrebbero più di 200 anni per eradicare la povertà assoluta misurata a 5 dollari al giorno. E a tale fine, il PIL globale dovrebbe aumentare fino a 175 volte la sua dimensione attuale. In altre parole, abbiamo bisogno di estrarre, produrre, e consumare 175 volte più risorse naturali di quanto facciamo attualmente. Vale la pena soffermarsi un attimo a riflettere su cosa ciò effettivamente significhi. Tale crescita economica sarebbe disastrosa per la biosfera. Così facendo divoreremmo rapidamente gli ecosistemi del nostro pianeta, distruggendo le foreste, i fiumi, i suoli, e il clima.
Secondo i dati raccolti dai ricercatori del centro di ricerca Global Footprint Network, il nostro pianeta ha una “capacità ecologica” sufficiente per assicurare ad ogni essere umano sulla Terra un massimo di 1,8 ettari globali di impronta ecologica annua. Tale un’unità tiene conto della quantità di suolo necessario per estrarre risorse, assorbire rifiuti, e mitigare emissioni di CO2. Un consumo di risorse individuali in eccedenza di tale soglia implica un percorso di progressivo degrado degli ecosistemi. Un’impronta ecologica individuale di 1,8 ettari globali è approssimativamente quella del cittadino medio del Ghana o del Guatemala. In contrasto, gli europei consumano in media 4,7 ettari globali a persona, mentre negli Stati Uniti e in Canada la persona media consuma 14,4 ettari globali. Per avere un’idea di quanto sia estremo questo eccessivo consumo, basti pensare che se tutto il mondo vivesse come il cittadino medio dei paesi ricchi, avremmo bisogno della capacità ecologica equivalente a 3,4 pianeti Terra.

Gli scienziati ci dicono che anche agli attuali livelli di consumo globale stiamo già superando la capacità ecologica del nostro pianeta di circa il 60% ogni anno. E tutto ciò agli attuali livelli di attività economica aggregata, con i livelli di consumo esistenti nei paesi ricchi e poveri. Se i paesi poveri aumentassero i loro consumi fino al livello di opulenza attuale dei paesi ricchi, ciò assicurerebbe un’apocalisse ecologica. A meno che i paesi ricchi non inizino a consumare meno per liberare spazio ecologico per incrementare i livelli di sussistenza dei 4,3 miliardi di persone che vivono sotto la soglia di povertà.
Se vogliamo avere una possibilità di limitare il riscaldamento globale entro la soglia dei 2°C -che l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici pone come limite assoluto- possiamo ancora emettere un massimo 805 gigatonnellate di CO2 a livello globale. Allo stesso tempo dobbiamo anche accettare che i paesi poveri avranno diritto ad utilizzare usare una parte più cospicua di questo budget di CO2 per far crescere le loro economie quanto basta per eliminare la povertà. Tale principio è già sancito negli accordi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dove si riconosce che tutti i paesi hanno una “responsabilità comune ma differenziata” per ridurre le emissioni. Poiché i paesi poveri hanno contribuito meno alle emissioni storiche, hanno il diritto di utilizzare una fetta più generosa del bilancio di CO2 restante rispetto ai paesi ricchi. Ciò significa che noi cittadini dei paesi ricchi dobbiamo accontentarci di ciò che resta di tale budget.
L’autorevole climatologo Kevin Anderson ha studiato potenziali scenari di riduzione delle emissioni a livello globale alla luce dei principi di giustizia spiegati sopra. Se vogliamo avere una probabilità del 50% di rimanere sotto i 2°C, c’è fondamentalmente solo un modo fattibile per farlo: i paesi poveri possono continuare a far crescere le loro economie al ritmo attuale fino al 2025. Non è un tempo molto lungo, quindi questa strategia per eradicare la povertà funzionerà solo se i proventi della crescita economica vengono redistribuiti in maniera estremamente progressiva. Per quanto riguarda i paesi ricchi, l’unico modo di limitare le proprie emissioni alla quota restante del budget di CO2 è tagliare le emissioni in modo radicale, di circa il 10% all’anno. I miglioramenti nell’efficienza energetica e l’energia rinnovabile contribuiranno a ridurre le emissioni di massimo il 4% all’anno. Ma per colmare il gap restante, i paesi ricchi dovranno ridurre i loro consumi di circa il 6% ogni anno. E i paesi poveri dovranno seguire tale esempio dopo il 2025, ridimensionando l’attività economica di circa il 3% all’anno.
Hickel conclude il libro affermando che affinché una strategia di ridimensionamento dei consumi di tale portata non si trasformi in un collasso socio-economico è necessario che un paese adotti una politica di decrescita. Ciò consiste nel tagliare i consumi dei più ricchi, ridistribuire la ricchezza già accumulata, e liberarci dell’ideologia del consumismo. Alla luce di ciò, non dovremmo più considerare paesi come il Costa Rica “sottosviluppati”, ma piuttosto come “adeguatamente sviluppati”. Dovremmo perciò guardare alle società in cui le persone hanno una lunga aspettativa di vita, livelli di pace sociale e felicità individuale elevati, e al contempo bassi livelli di consumo come esempi da seguire.

 * Dottorando in economia ecologica e ecologia politica all’ Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona. Lo potete seguire su Twitter a @r_mastini e leggere i suoi articoli sul suo sito“.

da comune-info.net - 27 novembre 2018 



(nota mm : il contributo pubblicato sul tema non comporta da parte mia la condivisione completa dell’intervento )