30 agosto 2021

Fotovoltaico sui tetti per limitare il consumo di suolo


  di Michele Munafò *

Secondo ISPRA, nel 2020 abbiamo perso 56,7 chilometri quadrati di suoli naturali a causa di nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali, arrivando a un totale di oltre 21 000 chilometri quadrati, il 7,11% del territorio nazionale rispetto alla media UE del 4,2%. I “costi nascosti” di questo fenomeno, causati dalla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno. L'obiettivo di azzerare il consumo di suolo (**) netto entro il 2050, fissato a livello europeo, si scontra però con la necessità di installare nuovi impianti fotovoltaici che permettano la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Si stima che al 2030 saranno tra 200 e 400 i chilometri quadrati di aree agricole persi per installare panelli fotovoltaici a cui se ne aggiungerebbero 365 destinati a nuovi impianti eolici. Eppure sfruttando i tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati ISPRA stima che potrebbero essere installati pannelli per una potenza totale più che doppia rispetto ai 30 gigawatt che il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima prescrive di aggiungere entro il 2030.

Nell'immagine l'impianto fotovoltaico sul tetto del Centro Agro Alimentare Bolognese (CAAB). Crediti: Roberto Serra / Iguana Press. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.

(**) Con consumo di suolo si intende la perdita di aree agricole, naturali e seminaturali a causa di nuove coperture artificiali. Un processo prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici, fabbricati e insediamenti, all’espansione delle città, alla densificazione o alla conversione di terreno entro un’area urbana, all’infrastrutturazione del territorio e ad altri interventi di impermeabilizzazione e di artificializzazione del suolo.

* da scienza in rete – 19 agosto 2021

28 agosto 2021

Covid, preferire buone terapie a buoni vaccini è un ragionamento comprensibile ma sbagliato – 4

 


di Andrea Bellelli  Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza

Molte persone preferirebbero buone terapie contro il Covid invece di buoni vaccini, per la semplice ragione che il vaccino, essendo una misura preventiva, comporta assumere su di sé un piccolo rischio di effetti avversi mentre si è sani e ci si sente al sicuro, mentre la terapia si assume soltanto quando si è malati, ed un rischio è comunque inevitabile.

Questo ragionamento è comprensibile ma è sbagliato perché, soprattutto in corso di epidemia, i sani non sono affatto al sicuro, ma corrono un rilevante rischio di ammalarsi. Purtroppo, mentre i vaccini hanno grande efficacia, le terapie antivirali sono poche e quelle attualmente in uso per il Covid hanno efficacia modesta. Se si confronta il caso degli antivirali con quello degli antibatterici (gli antibiotici) la differenza è enorme. Sia gli antibiotici che gli antivirali propriamente detti sono veleni selettivi, che uccidono il germe ma non le cellule dell’organismo che lo ospita, e il problema cruciale sta nella selettività: veleni ne abbiamo molti di più di quanti ce ne servano, ma pochi sono selettivi; inoltre la selettività dipende spesso dal dosaggio.

I batteri sono agenti infettanti unicellulari, la cui struttura cellulare (chiamata procariotica) è molto diversa da quella delle cellule eucariotiche che costituiscono gli organismi animali o vegetali. Le differenze tra eucarioti e procarioti a livello biochimico semplificano la ricerca di veleni selettivi: ad esempio il cloramfenicolo è un veleno che blocca le funzioni di un organello cellulare, il ribosoma, dei procarioti, ma non quelle del corrispondente organello degli eucarioti. L’analogo del cloramfenicolo per il ribosoma eucariotico, la cicloesimmide, è un veleno molto potente per animali e piante.

I virus, come spiegato in un post precedente, mancano di quasi tutte le funzioni metaboliche e possono riprodursi soltanto parassitando le cellule di un organismo ospite. Poiché le funzioni metaboliche necessarie alla replicazione virale sono svolte quasi completamente dalla cellula ospite, le strategie terapeutiche volte a paralizzarle non sono utilizzabili: ucciderebbero il malato insieme al virus.

I pochi farmaci approvati dall’Aifa per il trattamento del Covid-19 sono: anticorpi monoclonali, eparina e derivati, cortisone e derivati, antiinfiammatori e antipiretici, remdesivir; altri farmaci sono ammissibili solo nell’ambito di studi clinici, previa approvazione dei comitati etici (ad esempio l’ivermectina). Come tutti gli antivirali, questi farmaci agiscono in uno di quattro modi principali:

1) possono inibire una tra quelle pochissime funzioni metaboliche specifiche del virus: ad esempio il remdesivir è un inibitore della Rna polimerasi Rna dipendente, un enzima virale non posseduto dalla cellula;

2) possono inibire funzioni cellulari che risultano, almeno sul breve periodo, più necessarie al virus che alla cellula ospite; in genere questi farmaci hanno tossicità non trascurabile (nessun farmaco approvato dall’Aifa rientra in questa categoria, ma vi potrebbe rientrare l’ivermectina);

3) possono prevenire l’ingresso del virus nella cellula o stimolare azioni cellulari protettive; alcune tra le sostanze che hanno questa azione sono prodotte dall’organismo stesso e noi somministrandone in aggiunta dall’esterno non facciamo altro che aumentarne la concentrazione (sono approvati dall’Aifa gli anticorpi monoclonali; inoltre sono stati usati in passato in modo sperimentale e a volte con discreti risultati il siero immune, dal Prof. De Donno, e l’interferone);

4) possono infine essere irrilevanti ai fini della replicazione virale, ma sopprimere o ridurre azioni difensive esagerate o simil-fisiologiche messe in atto dall’organismo, che risultano a loro volta dannose (sono approvati dall’Aifa eparina, cortisone, antipiretici e antiinfiammatori; rientra in questo gruppo anche la cura sperimentata a Napoli dal Prof. Ascierto).

L’efficacia di questi farmaci è in linea di massima modesta: ad esempio il remdesivir può abbreviare la durata della fase sintomatica nelle forme lievi della malattia, ma non riduce significativamente la mortalità delle forme gravi. Lo scopo principale di questi farmaci è rallentare la malattia e guadagnare tempo necessario per lo sviluppo delle ben più efficaci difese immunitarie, che sperabilmente porteranno alla guarigione. Può darsi che nel futuro avremo farmaci migliori, ma ci vorrà tempo perché lo sviluppo di farmaci antivirali è lento: nel caso dell’Aids, sul quale sono state investite somme enormi, ha richiesto molti anni.

Alcuni farmaci antiparassitari come l’idrossiclorochina o l’ivermectina, testati su culture cellulari infette da vari virus incluso Sars-Cov-2, hanno dimostrato attività antivirale. I parassiti sono organismi patogeni formati da cellule eucariotiche; ad esempio il Plasmodio della malaria. Non è sempre chiaro il meccanismo di azione antivirale di questi farmaci; nel caso dell’ivermectina alcuni studi suggeriscono che sia inibito il traffico intracellulare di proteine e acidi nucleici, una funzione fisiologica cellulare che risulta necessaria allo sviluppo del virus. Purtroppo l’efficacia degli antiparassitari nei confronti delle infezioni virali è alquanto modesta e la loro tossicità impedisce di usarli ai dosaggi elevati che sarebbero richiesti per ottimizzare l’azione antivirale, ed è frequente che quando si passa dagli studi in vitro agli studi clinici l’attività antivirale di questi farmaci diminuisce o scompare. Infatti anche nel caso dell’ivermectina i risultati degli studi clinici sull’uomo sono incerti e contraddittori.

L’affermazione, frequentemente ripetuta, che esisterebbero cure semplici ed efficaci per il Covid-19, specialmente se trattato in fase iniziale, è falsa e consegue ad un abbaglio. Il Covid-19 è una malattia di moderata gravità, che guarisce spontaneamente in oltre il 95% dei casi ed è mortale in meno dell’1%, sebbene con grandi differenze in relazione all’età. Di conseguenza, qualunque “farmaco”, inclusa l’acqua fresca, “guarirà” almeno quel 95% dei casi di Covid-19 che non richiede ospedalizzazione. L’effetto della terapia o del vaccino si misura sui casi, prevalentemente di anziani e soggetti a rischio, che più frequentemente sviluppano forme gravi della malattia e richiedono l’ospedalizzazione; e questi soggetti sono molto più efficacemente protetti dal vaccino che dai farmaci.

Inoltre, in quei rari casi nei quali la malattia si sviluppa nonostante il vaccino, si può sempre ricorrere ai presidi terapeutici di supporto (cortisone, eparina, antiinfiammatori) e godere del vantaggio che le difese immunitarie del malato, precedentemente stimolate dal vaccino, interverranno più rapidamente. L’inverso (usare il vaccino a malattia in atto, come coadiuvante della terapia antivirale) non è efficace. In corso di epidemia, niente riduce la mortalità in misura maggiore del vaccino: né i farmaci, né le mascherine, né il distanziamento sociale o il lockdown, né la combinazione di queste misure. Rifiutare il vaccino è lecito, ma illudere il cittadino sull’esistenza di misure protettive diverse dal vaccino e dotate di pari efficacia è criminale.

* Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza - Ho due lauree, in Medicina e Chirurgia ed in Psicologia. Sono stato ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche e ora insegno Biochimica alla facoltà di Farmacia e Medicina dell’Università di Roma Sapienza. Sono stato segretario della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare (SIB) dal 2003 al 2006. Dal 2010 al 2015 ho diretto il Dipartimento di Scienze Biochimiche “A. Rossi Fanelli” dell’Università di Roma Sapienza. Dal 2015 al 2018 sono stato Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia B dell’Università di Roma Sapienza. Ho svolto e svolgo ricerche sulle proteine respiratorie e sugli enzimi del parassita Schistosoma mansoni, agente causale di una grave malattia dell’uomo. Ho pubblicato su questi argomenti oltre 100 articoli su riviste scientifiche. Stimolato dalle domande dei miei allievi, ho studiato alcune teorie mediche proposte tra il XVIII e il XX secolo, che si sono poi rivelate erronee nonostante il successo di cui hanno goduto e continuano a godere, e ho pubblicato due libri su di esse: Logica e fatti nelle teorie freudiane (Antigone Edizioni, Torino 2007) e La costruzione dell’omeopatia (Mondadori Università, Milano 2010). Nel 2017 ho pubblicato, insieme con la Prof.ssa Jannette Carey dell’Università di Princeton (NJ, USA) il trattato Reversible Ligand Binding: Theory and Experiment. http://biochimica.bio.uniroma1.it/

dal blog di Andrea Belleli leggi anche:

Vaccini, i più efficaci sono anche i più innovativi. Ma come funzionano? – 1 ( 5 agosto 2021)

Vaccini ad alta tecnologia, come funzionano Pfizer, AstraZeneca e simili – 2 (10 agosto 2021)

Vaccini, come se ne misura l’efficacia e il caso dei rari effetti collaterali – 3 ( 18 agosto 2021 )

26 agosto 2021

Declino dell’Occidente: le tre crisi che richiedono idee nuove

 di Massimo Marino

Ci mancava Kabul per completare il quadro di chi parla di declino dell’Occidente. Un’ estate così miserabile, così triste, così apocalittica in qualche momento, non me la ricordo. Che si guardi al Pianeta o che si guardi solo al nostro modesto ombelico italiano sembra di assistere ad una marcia funebre. Disastro climatico, disastro sanitario, disastro migratorio

Disfattismo? Eccesso di imbelle pessimismo? Non mi sembra. Anzi, per quanto mi riguarda penso che non sarebbe mai tardi per darci una mossa. Di fronte alle tre crisi continuo a pensare:

- Che ne vanno studiate in modo meno superficiale le ragioni e indicati i responsabili. Oggi non è così.

- Che vanno approfonditi i modi di uscirne, ponendo obiettivi concreti, efficaci e ragionevolmente ottenibili, invece dei blabla da social club. Oggi non vedo proposte adeguate.

- Che si debbano cercare le forme di aggregazione sociale, solidale, organizzata e dotata di quelle leadership plurali che servirebbero per affrontare le crisi. Impegno realizzabile ma oggi vedo modesti narcisi, non idee né protagonisti adeguati al compito.  

La crisi climatica

Dalla COP 21 (Conferenza delle Parti di Parigi, novembre 2015) sono passati quasi sei anni e la COP 26 (Glasgow, organizzatori UK e Italia, novembre 2021) constaterà inevitabilmente che gli impegni, a suo tempo già dichiarati non adeguati da molti, non sono stati presi seriamente quasi da nessuno. Praticamente la gran parte dei paesi (non sanzionabili in alcun modo se non lo fanno i loro elettori) sono lontani dagli obiettivi e le azioni promesse non sembrano in corso. I pre-colloqui di COP 26 girano a vuoto su tre argomenti:

1)    Scaricare le colpe: è’ tutta colpa di Cina e India. Fingendo di dimenticare i consumi unitari di fossili e le emissioni di gas serra dell’Occidente, cioè USA ed Europa, che sono di gran lunga i maggiori e la vera causa della crisi. Un cittadino americano consuma circa otto volte il consumo medio individuale calcolato sull’intera popolazione del pianeta.

2)    Introdurre mediaticamente il concetto di irreversibilità (alcuni fenomeni naturali sarebbero ormai irreversibili quindi mettiamoci l’anima in pace e tiriamo avanti) senza approfondire troppo le conseguenze di questa grave rinuncia a mantenere gli impegni.

3)    Mettersi d’accordo su quanti soldi l’Occidente è in grado di impegnare in funzione anticrisi e sulle condizioni per garantire che siano sempre le stesse multinazionali dei fossili e dell’automotive e i loro cugini delle banche e della finanza a ottenere a loro favore questi soldi.


 Dal 2015 non c’è stato nessun atto concreto per invertire seriamente il flusso di estrazione e consumo di fossili. Nel mondo anzi l’estrazione di petrolio, metano e carbone ha continuato ad aumentare all’incirca del 2% all’anno. In alcune aree dell’Occidente europeo una modesta parte del carbone è stato sostituito dal gas metano. In pratica ad oggi i cinque appuntamenti annuali COP degli ultimi anni si sono rivelati una montagna di chiacchiere come d'altronde in più occasioni ci ha ricordato Greta Thumberg. La situazione italiana dal 2014 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte1-2, Draghi) rispecchia perfettamente questa situazione di immobilità del modello energetico.

Invece di diminuire, le emissioni annuali di CO2 nel mondo sono rimaste stabili (con lievi aumenti in alcuni anni) dal 2015 al 2019, quando hanno raggiunto i 33 miliardi di tonnellate. Soltanto il Covid nel 2020 ha portato ad una riduzione di quasi il 6% sull'anno precedente.

La concentrazione di CO2 in atmosfera era di 400 ppm all’epoca di COP 21 nel 2015. Nel novembre del 2019 è stato annunciato il nuovo preoccupante record: 410 ppm. Squilibri metereologici, siccità e inondazioni, proliferazione degli incendi spontanei e dolosi in varie parti del pianeta, sono le evidenti conseguenze della assenza di fatti nuovi.  L’unica vera novità sembra essere la costatazione che le previsioni da tempo annunciate sul deterioramento del clima in mancanza di drastici interventi si stanno rivelando inaspettatamente imprecise. La velocità della crisi sembrerebbe essere molto maggiore di quanto previsto. Ho in più occasioni parlato di generazione cento, intendendo i nati dall’inizio dell’anno 2000 che nel corso di questo intero xxi° secolo vivranno i pesanti effetti di questa crisi. Per certi versi potrei essermi sbagliato per eccesso di ottimismo e la crisi sarà forse vissuta in pieno già nella prima metà del secolo anche da quella parte di nati nel dopoguerra del secolo scorso più longevi. I primi annunci sono ormai evidenti.

Nell’ultima parte di un mio precedente intervento (qui) ho indicato obiettivi realistici ed essenziali della transizione indispensabili per invertire la rotta. In sintesi:

- uscire dall’era dell’auto (che non vuol dire eliminarle ma almeno dimezzarne l’uso in termini di km/persona/anno ) spostando la mobilità, dove non è possibile andare a piedi o in bicicletta, su reti pubbliche metropolitane nelle principali città.  Per l’Italia servono 1000 km di rete cioè 4-5 volte quella esistente. Progetto fattibile entro 10-15 anni.

- dimezzare i consumi di carne combattendo il modello alimentare che alimenta emissioni, impoverimento del suolo, diffusione dell’obesità. La scuola è probabilmente la prima linea per riorientare i comportamenti su come e cosa mangiare.

- riformare i modelli di costruzione o ristrutturazione delle abitazioni sia attraverso la protezione naturale sia con apparati tecnologici per schermarci dall’insolazione estiva diretta ed evitare così il condizionamento, sia usando tetti e superfici per il fabbisogno energetico per il  riscaldamento e per le utenze elettriche, ottenendolo da rinnovabili attraverso pannelli e altre tecnologie. In Italia abbiamo almeno 15 milioni di tetti di abitazioni e capannoni utilizzabili di cui molto meno del 10% sono coinvolti da interventi a fini energetici.

La crisi sanitaria   

A 18 mesi dalla comparsa ufficiale del Covid nel mondo si fanno strada valutazioni che ritengono che forse non ne stiamo uscendo affatto, che non bastano le vaccinazioni e che per uscirne ci vorranno anni. In Italia come in altri paesi stiamo cercando in realtà di non far collassare le strutture ospedaliere e trovare un equilibrio fra il numero di ammalati e di morti e la continuità delle attività economiche. Che è cosa diversa da una strategia di eradicamento del covid. Fra gli altri trovo chiaro e sintetico il punto di vista recente del sociologo Luca Ricolfi (qui e qui).

 A due mesi dalla comparsa del Covid nell’aprile 2020 lo psicologo spagnolo Tomas Pueyo pubblicò due lunghi interventi (ne parlai qui), ricchi di dati e tabelle riguardanti vari paesi, nei quali in  sintesi si sosteneva che “il balletto” con il coronavirus sarebbe durato a lungo nel mondo e che solo con rapidi, brevi ma durissimi lockdown, accompagnati da altrettanto rigide procedure di comportamento ( mascherine, distanziamento, tracciamento e rigido isolamento dei positivi )  in attesa di cure e/o vaccini davvero efficaci, avremmo limitato i danni. Gli interventi di Pueyo, tradotti in decine di lingue, sono stati letti da molte decine di milioni di persone nel mondo, fra le quali non sembrano esserci in Italia né i promotori entusiasti delle campagne provax (alcuni dei quali ad aprile 2020 sostenevano che entro 3-6 mesi ci sarebbe stato  il vaccino che avrebbe risolto tutto, né quelli delle campagne novax (nelle mille sfumature da “il virus non esiste” a “i vaccini portano malattie” fino a “è solo un influenza” oppure “i morti sono finti “). L’approccio sensato di Pueyo è rimasto pressoché ignorato; nelle centinaia di dibattiti e interventi che ho seguito in 18 mesi non ho mai sentito citare da politici, esperti o contestatori le riflessioni, tutt’oggi assolutamente attuali, di Pueyo.

Va detto infatti che non c’è stato nessun vero lockdown in Italia nella primavera del 2020 in particolare nelle aree industriali del nord. A fine aprile 2020 quotidiani regionali indicavano che in Veneto almeno 15mila aziende avevano “derogato” di fatto ai decreti continuando la propria attività sulla base di un singolare criterio di silenzio-assenso prefettizio. In Lombardia le deroghe di fatto sono state almeno il doppio. Si tratta solo di esempi ma determinanti per la tragedia lombardo-veneta durata almeno 12 mesi e concause della cosiddetta seconda e terza ondata di contagi. Ricordo anche il fallimento di Immuni e di una seria azione di tracciamento-isolamento in buona parte mancata in varie zone del paese. Infine, ricordo i festeggiamenti romani per i successi mondiali del calcio italiano, il rave musicale recente sospeso solo dopo una settimana quando era finito, quanto si profila dopo la riapertura nel passato weekend degli stadi di calcio con l’avvio della serie A (27mila persone nello stadio romano sedute, accalcate, urlanti per almeno due ore). Facciamo finta che ne stiamo uscendo appellandoci a san gennaro, alle vaccinazioni o ad un protocollo di cura certificato e fra qualche mese si vedrà.

Dichiarazioni contraddittorie, desolante strumentalizzazione politica, protagonismo immeritato quanto incompetente di governatori di vario colore, hanno progressivamente indebolito la credibilità delle iniziative e allentato i comportamenti individuali che sono il principale strumento di difesa. Comportamenti di una consistente minoranza ai quali la variegata nebulosa novax ha fornito una deleteria giustificazione.

Che la difficoltà a mettere sotto controllo il virus sia diffusa a quasi tutte le latitudini del pianeta non è alibi per tacere alcuni nostri errori e soprattutto non promuovere quella necessaria riorganizzazione delle strutture sanitarie, che era tema rilevante già prima, ma che non riesce ad emergere neanche oggi come tema prioritario e urgente.

Al di là del Covid il settore della salute e sanità (pubblica e privata) è un grande imbuto che accoglie risorse economiche enormi, addirittura difficili da misurare. La sanità pubblica (aziende, ospedali e ps, ambulatori, medicina generale di famiglia, pediatri, assistenza domiciliare, guardie mediche, farmaci mutuabili e ricerca interna) assorbe annualmente circa 120 mld (dati 2020, legge di bilancio pre-covid). In realtà almeno un terzo di questa spesa attraverso le convenzioni viene ormai dirottata al privato. In aggiunta la spesa privata fatta direttamente dalle famiglie che ne hanno la possibilità è di circa 40 mld compresa parte dei costi per RSA, mutue e fondi assicurativi. In valori reali i dati della spesa pubblica sono pressoché stabili o lievemente in crescita negli ultimi 20 anni anche se la composizione interna è mutata (da qui la diffusa opinione sui “tagli alla sanità”): diminuzione delle spese per il personale (data in primis dal blocco del turnover) e aumento dei consumi intermedi (spesa per i farmaci ordinari e per malattie rare). L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (legge 833 del 1978) introducendo l’assistenza sanitaria per tutti con abolizione delle mutue professionali e poi  l’affido delle competenze alle Regioni, è stata una riforma storica, per vari aspetti esemplare nell’intero occidente. Ha dovuto fare i conti progressivamente con la sostenibilità economica, con i fenomeni corruttivi e clientelari, con la pesante interferenza degli interessi privati.

Le due riforme correttive, la prima basata sulle Aziende, considerate la strada giusta per ridurre i costi (legge 502/1992), la seconda invece puntando sulla Razionalizzazione dei costi dei servizi offerti (legge 229/1999) hanno progressivamente trascurato i servizi territoriali e la necessità di fare rete fra scuola, assistenza, ambulatori, medici di famiglia e le strutture maggiori, le aziende ospedaliere e il pronto soccorso.

L’attenzione dei media sulla presunta sfida fra il sì e il no ai vaccini. Lo scarso interesse alle possibili alternative di cura per il covid e la mancata definizione di seri protocolli ufficiali. Lo strabordare di numeri quotidiani privi di significato dove non si rispetta neanche la matematica elementare basata su contagi, ricoveri in terapia intensiva, decessi, che andrebbero espressi sulla popolazione di uno Stato o una Regione e non in valori assoluti. La valutazione dei dati quotidiani grezzi che invece andrebbero espressi almeno come andamento giornaliero visualizzato in media mobile a sette giorni. Un modo ciarlatano, distorto, di fare informazione strampalata.

Tutto ciò ha diffuso qualunquismo e sfiducia e consolidato una consistente minoranza che in fin dei conti ritiene che il peggio è passato, che il vaccino non è indispensabile e che non vale la pena mantenere le precauzioni di base, ignorando che nella gran parte del pianeta il virus è ancora in espansione, le vaccinazioni sono privilegio per pochi e sulle cure alternative c’è molta incertezza o disimpegno.

Se nell’immediato non abbiamo altre possibilità che completare il primo ciclo vaccinale non possiamo ignorare che tutto ciò ha allentato tragicamente i comportamenti individuali e l’efficacia del tracciamento mentre  ostacola il procedere di un dibattito sulla necessità di rivedere i capisaldi del nostro sistema sanitario e della qualità della salute. Non riusciamo ad andare più in là dell’idea che l’unica eventuale riforma si basi solo sull’aumento più o meno alto della spesa annuale da mettere in bilancio. Si veda il dibattito strumentale sul MES sanitario.

Accenno qui solo con qualche battuta alle convinzioni che mi sono fatto su come si debba ricentrare l’impegno sulla salute aggiornandolo al nuovo secolo di fronte alle tre crisi di cui qui si parla.

1)    È necessario aumentare il livello di salute di base delle nuove generazioni (che viene prima della cosiddetta prevenzione) nell’arco della scuola primaria e secondaria (circa 6-18 anni) introducendo una nuova materia specifica comune a tutti i gradi di istruzione (salute-alimentazione-clima-conversione ecologica) ad esempio raddoppiando le 33 ore recentemente reintrodotte per la cosiddetta educazione civica-ambientale. Tutta la popolazione giovane, compresi i giovani immigrati, attraverso le strutture scolastiche e combattendo la dispersione deve praticare una attività sportiva idonea in modo costante e  pressoché gratuito, con l’introduzione anche del medico scolastico a livello di distretto. Riflettere in modo pratico su come mangiare, come consumare e riciclare, come muoversi e come vivere in casa. Non parlo della solita generica lagna ambientalista diffusa in qualche scuola senza lasciare tracce, ma di imparare a praticare comportamenti nella vita quotidiana concreti, creativi, sostenibili. Ci sono già esempi nati dalla iniziativa individuale di insegnanti virtuosi.

2)      Il baricentro dell’assistenza sanitaria deve spostarsi dagli ospedali (il cui numero in Italia forse deve diminuire non aumentare) a nuove sedi di ambulatori attrezzati di zona che raccolgano al loro interno in un'unica struttura tutto quello che in buona parte già esiste (medici di famiglia da riconvertire, laboratori di analisi, fisioterapie, assistenza domiciliare, guardie mediche, assistenza sociosanitaria comunale, affiancati da una piccola rivendita di farmaci urgenti). Queste strutture di zona dotate di una esile presenza infermieristica e delle apparecchiature strumentali e di analisi meno complesse devono essere in funzione H24 per sette giorni alla settimana e tranne eccezioni estreme devono filtrare e lavorare in rete con gli ospedali riducendo drasticamente gran parte dell’attività dei Pronto Soccorso Ospedaliero. Garantendo assistenza adeguata a qualunque ora di giorno e di notte con un mini-ticket per le visite e con la disponibilità immediata dei farmaci più comuni.

  La crisi migratoria

Della crisi migratoria noi conosciamo in fin dei conti una minuscola frazione attraverso l’eco mediatico (a fasi alterne a seconda della maggiore o minore assenza di altre notizie) e la visione di qualche singolo fotogramma, quello dei barconi, degli sbarchi e in qualche caso l’eco dei morti in mare. Per lo più prevale l’uso interno del tema che si presta bene per ogni campagna elettorale.  

Milioni di profughi da guerre locali e crisi ambientali sono invece ammassati per lo più lontani da noi.

Di quella minoranza che arriva ai nostri confini, in parte consistente fatta oggi dai cosiddetti migranti economici, non conosciamo le storie né di un attimo prima né di un attimo dopo l’avvistamento in mare e lo sbarco. Del prima e del dopo dei migrati, come degli scafisti, degli organizzatori dei barconi, del centinaio di gruppi e gruppetti criminali che gestiscono l’affare, compreso lo sfruttamento successivo dei migrati (specie delle donne) solo pochi validi cronisti d’inchiesta tentano di gettare una luce. Il più è fuffa mediatica e agitprop politica fra i cosiddetti razzisti e antirazzisti. Ho in più occasioni sostenuto (es qui) che non mi entusiasmano né gli uni né gli altri. Difficile capire se creano più problemi i comportamenti di Salvini o quelli di Carola Rackete pur considerando che entrambe le posizioni hanno alcune sacrosante ragioni ma pochissime idee su come affrontare come società e come istituzioni il problema nella sua oggettiva complessità.

Bisogna sradicare qualunque forma di immigrazione clandestina o irregolare (dal mare, da terra, dal cielo o attraverso i visti turistici), chiudere i porti  e cancellare gli scafisti, in particolare quella parte più organizzata come banda criminale che agisce sull’arco africano, mediorientale e in parte asiatico. Il Mediterraneo è come un pozzo il cui fondo è collegato ad una immensa falda acquifera. Se con un secchio tiri fuori dal pozzo qualcuno e poi te ne disinteressi svuotando il secchio per terra, semplicemente rinnovi il livello del pozzo con acqua nuova pressoché all’infinito. Si tratta quindi di fare in modo meno disastroso tutto quello che è possibile fare. Né il salvinismo né il racketismo ci sono molto utili.

Lo Stato deve sostituirsi agli scafisti, aprendo canali di immigrazione diffusa, regolata, permanente, aprendo l’iscrizione a liste di immigrazione in tutti i principali paesi (a partire da ambasciate e consolati) in particolare quelli nelle aree o a ridosso di aree coinvolte da guerre o calamità. Chiamiamoli corridoi umanitari permanenti. Esistono già da alcuni anni pochi esempi praticati da alcune associazioni cattoliche con un minimo supporto del ministero competente. Molti italiani sono a conoscenza di questo nome soltanto da pochi giorni a causa dei voli di profughi da Kabul che però hanno caratteristiche emergenziali mentre i corridoi umanitari dovrebbe diventare la forma principale, stabile e permanente di immigrazione programmata e legittima. Ad esempio si potrebbe iniziare portando a termine davvero il progetto di svuotare con un ponte aereo o navale i luoghi di detenzione libici dove vengono reclusi migliaia di migranti di diversa provenienza, invece di rifinanziare la guardia costiera libica come fatto dal Parlamento a metà luglio.  Aprendo una intensa battaglia per imporre all’intera UE questo metodo che mi sembra la sola Merkel abbia in qualche modo compreso nel caso dei siriani. Organizzare forme regolari di immigrazione, sbarrare la via a qualunque forma di immigrazione irregolare, organizzare le strutture di integrazione indispensabili (abitazione, scuola, aggiornamento culturale, canali di indirizzo lavorativo) è sicuramente un impegno ingente ma non ha nulla di impossibile. Peraltro, è meno strumentalizzabile da quelle forze xenofobe che in fin dei conti dalla irrisolta situazione attuale hanno tutto da guadagnare.  

*

Che si condivida o no queste proposte, che se ne privilegino altre simili o decisamente diverse, credo che non si possa evitare di mettere in primo piano la drammatica assenza di protagonisti organizzati del cambiamento. In Italia per una decina di anni molti di noi (io per primo) si sono affidati, magari senza particolari entusiasmi, alle possibilità di cambiamento data dal singolare successo del Movimento 5Stelle in un deserto culturale e politico in cui né la nebulosa vagamente ambientalista, tantomeno i rimasugli della cosiddetta sinistra producevano altro che frammenti insignificanti di idee, di progetti, insieme a leader inadeguati alla sfida. Tant’è che oggi ne l’ecologismo né la sinistra del passato sono in grado di proporre al paese un qualunque progetto in grado di superare il consenso di più del 2-3% degli elettori. La comparsa della tenerissima quindicenne Greta Thumberg, che ha messo in campo anche da noi migliaia di giovanissimi, ci ha dato nuove speranze ma non si capisce che altro le potremmo chiedere adesso che è diventata diciottenne e continua a denunciare che non sta cambiando nulla. Le due nuove sigle che si sono così aggiunte nel campo ambientalista (Friday For Future e Extinction Rebellion) almeno in Italia sono rapidamente diventate gruppuscoli, due delle tante siglette in aggiunta a Greenpeace, Legambiente, WWF, etc.. etc.. . Il nuovo partito (tale dovrebbe essere) di Conte, che dovrebbe nascere sulle ceneri di quel che resta dei grillini, non ha ancora deciso in modo definitivo se sarà un terzo polo radicale collocato al centro della scena politica e culturalmente autonomo da tutti, o un altro gregario del cosiddetto campo progressista candidandosi in questo caso ad una rapida dissoluzione al primo appuntamento elettorale.

Eppure, dalla società italiana in più occasioni è emersa una chiara maggioranza (certo senza padri e riferimenti), disponibile ad un radicale cambiamento sociale.  A parte il lontano referendum antinucleare del novembre 1987 ricordo i referendum del giugno 2011 (acqua pubblica, beni comuni, di nuovo no al nucleare), il sorprendente successo grillino delle elezioni politiche del febbraio 2013, il rifiuto della riforma costituzionale di Renzi (dicembre 2016), la debacle dei vecchi partiti di destra e sinistra rottamati nelle elezioni politiche del marzo 2018.

Nel resto dell’Europa siamo all’immobilismo più totale. Le elezioni in Germania di settembre difficilmente vedranno una nuova leadership fuori dal campo CDU-SPD insieme all’uscita di scena della Merkel, forse l’unico vero leader europeo. Gli altri paesi più rilevanti preannunciano eventuali nuove leadership ancora più desolanti di quelle attuali: Boris Johnson, Pedro Sanchez, Emmanuel Macron.

Davvero possiamo sopportare di affrontare le crisi che incombono con questo scenario desolante rassegnandoci all’idea che non si possa fare nulla per cambiarlo?

nelle foto: 1) c’era una volta un lago 2) condizionatori, dal video musicale Crow (Forest Swords) 3) panorami, dal video musicale  Gosh (Jamie XX)

24 agosto 2021

Afghanistan, chi finanzia le casse dei talebani?

 di Andrea Nicastro *

«Se pensate che il peggio sia passato, se pensate che la situazione all’aeroporto sia tragica, vi sbagliate di grosso. Finita la crisi militare comincerà quella economica. Con le banche chiuse, senza accesso ai finanziamenti stranieri, c’è da aspettarsi una catastrofe umanitaria e un’ondata di migranti». Le parole di Ajmal Ahmadi, il governatore della Banca Centrale Afghana in fuga, suonano peggio di una condanna. Eppure sono allo stesso tempo una delle poche speranza rimaste all’Occidente per non vedere vent’anni di investimenti e sacrifici finire nelle fogne della storia. Il ragionamento, espresso anche dal presidente Joe Biden a più riprese, è lineare: l’Afganistan si reggeva sugli aiuti internazionali, se i talebani vogliono evitare il collasso economico e la conseguente esplosione sociale, devono rispettare l’impegno ad un «governo inclusivo» e moderare certi loro atteggiamenti verso donne e diritti umani. Cioè, dato il ritiro, l’influenza americana da «bastone e carota», diventa solo «carota». Il problema per gli afghani che hanno creduto nei valori occidentali è che probabilmente non basterà. I conti sono solo in apparenza a favore dell’Occidente.

I conti

Vediamoli. L’ex Stato filoamericano e i talebani assieme incassavano rispettivamente 2,5 e 1,5 miliardi: mezzo miliardo dalla droga, un miliardo dalle miniere il resto dalle dogane. Sul lato uscite, però, l’Afghanistan del presidente in fuga Ashraf Ghani contava su un budget di circa 8 miliardi l’anno di cui 6 erano donazioni. Il grosso delle spese (e degli aiuti) andava all’apparato militare: circa 5 miliardi. I talebani, invece, finanziavano la loro guerriglia con 1,5 miliardi. Le due parti in conflitto spendevano quindi un totale di quasi dieci miliardi di cui la guerra assorbiva il 60%. Se il miraggio del «governo inclusivo» (formula magica quanto vaga suggerita a Doha dagli americani) dovesse realizzarsi è facile che le spese militari precipitino. Vero è che i poliziotti dovranno rimanere o essere sostituiti; non tutti i soldati (e tanto meno i combattenti talebani) potranno essere smobilitati per non alimentare rivolte; in compenso non ci sarà bisogno di acquistare armi per parecchi anni a venire. Il risparmio può arrivare a circa 3 miliardi così che al nuovo Emirato talebano servirebbero più o meno 7 miliardi per sostituire (con meno spese belliche) l’attuale macchina statale.

Il ruolo delle Ong

Un peso importante nell’economia veniva delle agenzie umanitarie e da centinaia di Ong che non passavano dalle casse pubbliche, ma che comunque contribuivano a far funzionare tutto. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pronte 500 tonnellate di farmaci e strumentazione sanitarie, ma non riesce a portarle in Afghanistan perché non trova un velivolo disponibile ad atterrare nel Paese. Ammesso e non concesso che gli aiuti umanitari continuino a fluire anche verso un Emirato talebano, mancherebbero comunque tre miliardi l’anno di aiuti soprattutto Usa perché l’Afghanistan talebano resti povero com’era quello filoamericano. Sono questi tre miliardi (più gli aiuti umanitari) la «carota» su cui conta l’Occidente per avere ancora influenza sul futuro del Paese: troppi burqa vorrà dire meno pozzi. Ai talebani non converrà, è la speranza dell’Occidente.

L’economia informale

Tutti questi dati sono in parte nei bilanci governativi verificati dai consiglieri americani, in parte stimati delle Nazioni Unite. Il limite tanto dell’allarme dell’ex governatore della Banca Centrale di Kabul quanto delle speranze di Biden e dell’Occidente tutto è che solo il 10 per cento degli afghani ha un conto in banca e oltre l’80 per cento dell’economia è informale, sfugge ai calcoli del Pil. Un esempio: l’export afghano è ufficialmente inferiore a un miliardo, meno del confinante e poverissimo Tajikistan che però ha un quarto degli abitanti. Difficile da credere a meno che si considerino il contrabbando come un effetto inevitabile di 40anni di guerra. Il discredito del governo filoamericano viene anche dal non aver fatto nulla per cambiare la situazione.

Le donazioni

I talebani, con i loro mezzi brutali, potrebbero invece riuscire a ridurre la vasta area di corruzione e recuperare risorse. Altri miliardi possono venire dai donatori del Golfo, i cui giornali scrivono che soffocare l’Afghanistan togliendo gli aiuti sarebbe un errore. Altri ancora dalla Cina interessata a sfruttare finalmente i diritti che vanta sulle miniere di rame, ma anche contrattarne di nuove per zinco e terre rare. Mentre guardiamo alle tragedie dell’aeroporto, i talebani costruiscono già il loro apparato amministrativo. L’ex capo della loro «commissione economica» a Doha è diventato governatore della Banca Centrale, Haji Mohammad Idris. I dipendenti del ministero delle Finanze hanno fatto sapere di essere al lavoro. Il primo Emirato tra il 1996 e il 2001 riuscì a ridurre la violenza interna e a garantire stabilità economica. Avevano un perfetto controllo del territorio tanto che fermarono (in cambio di aiuti) anche la coltivazione dell’oppio. Chi crede di cambiarli con una sola «carota» da tre miliardi, li sta sottovalutando.

da corriere.it - 24 agosto 2021