29 aprile 2022

Egitto: El Sisi la centrale nucleare la costruisce con i russi

 GUERRA IN UCRAINA. Incurante delle sanzioni americane ed europee contro Putin, l'Egitto conferma la costruzione del suo primo impianto atomico con i finanziamenti e l'aiuto di Mosca.

di Michele Giorgio *

Joe Biden lavora a nuove sanzioni contro la Russia e ne chiede il rispetto. Ma non riesce ad ottenere l’isolamento totale di Mosca, anche da parte di paesi stretti alleati di Washington. A cominciare da quelli del Medio Oriente e del Nordafrica. Uno di questi è l’Egitto di Abdel Fattah el Sisi – che non ha mai digerito la linea nella regione dell’Amministrazione Usa in carica – che mantiene ben saldi i rapporti con il Cremlino. Il 17 aprile una delegazione russa ad alto livello ha visitato la centrale nucleare in costruzione di Dabaa in Egitto. Ne facevano parte dirigenti e tecnici dell’impianto chimico di Novosibirsk e della TVEL Fuel Company guidati da Alexander Lokshin, vicedirettore generale di Rosatom, la compagnia statale russa dell’energia atomica.

Ad accompagnare i delegati russi c’era Amjad al Wakil, capo dell’Autorità egiziana per le centrali nucleari. Al Wakil ha confermato a giornali locali che la costruzione dell’impianto di Dabaa procede senza intoppi in coordinamento con i russi e che l’Egitto avrà, nei tempi programmati, la sua prima centrale atomica per la produzione di energia elettrica. Lokshin da parte sua ha assicurato che saranno fatti «i passi necessari per portare a termine i compiti prefissati». L’accordo per la costruzione della centrale a Dabaa nel governatorato di Marsa Matrouh – quattro reattori con una capacità di 4.800 megawatt – risale al 2015. Sono già state scavate le basi di contenimento del primo reattore e non appena arriverà il via libera della commissione egiziana per la sicurezza nucleare, i lavori riprenderanno a pieno ritmo.

L’attacco russo all’Ucraina è stato un fulmine a ciel sereno in Africa e Medio Oriente dove la penetrazione russa, a tutti i livelli, è stata intensa negli ultimi dieci anni. Nelle capitali di non pochi paesi poveri o in via di sviluppo, è salita l’ansia per la possibile interruzione di progetti, spesso di infrastrutture civili, avviati con Mosca. La recente visita della delegazione russa in Egitto ha avuto lo scopo anche di smentire chi aveva paventato la sospensione della costruzione della centrale di Dabaa a causa delle sanzioni occidentali contro il governo russo, che è il principale finanziatore del progetto. Aderire alle sanzioni Usa ed europee contro la Russia per l’Egitto significherebbe rinunciare a un’opportunità molto favorevole. Il costo totale della centrale è di 30 miliardi di dollari e il Cairo godrà di un prestito agevolato garantito dalla Federazione Russa di 25 miliardi, che comincerà a restituire solo a partire dal 2029. Il completamento dell’impianto ora è diventato più importante per il Cairo che già deve fare i conti con la diminuzione di forniture di grano russo e ucraino a basso costo e lo stop all’arrivo di turisti russi, da anni i principali frequentatori dei resort del Sinai. Ogni giorno di ritardo nella realizzazione della centrale significheranno per l’Egitto la perdita di due milioni di dollari per la mancata vendita di energia all’estero. La telefonata del 9 marzo tra Abdel Fattah el Sisi e Vladimir Putin è perciò servita a confermare che a Dabaa le cose andranno come previsto.

Altrettanto rilevanti sono le relazioni tra i due paesi per l’istruzione superiore. L’ambasciatore russo al Cairo, Georgy Borisenko, il 23 marzo ha assicurato che le porte delle università russe resteranno aperte per i giovani egiziani. Americani ed europei non capiscono quanto sia importante per africani e arabi avere accesso alle università russe, buone e a basso costo, in alternativa a quelle occidentali raggiungibili solo da una élite.

* da il manifesto - 29 aprile 2022

leggi ancheEgitto, critica il governo: arrestata una giornalista

È stata arrestata giovedì la giornalista egiziana Safaa al-Korbigi e di lei non si sa più nulla. La denuncia arriva dall’Egyptian Network for Human Rights e dai tanti che sui social chiedono conto della sua sparizione. Al-Korbigi lavora per Radio and Television Magazine, di proprietà statale, ed è nota per le sue critiche al governo per le pessime condizioni socio-economiche della popolazione. Intanto, pochi giorni fa è stata condannata a tre anni di prigione in appello (erano dieci in primo grado) e una multa di quasi 11mila dollari l’influencer di TikTok Haneen Hossam per «traffico di esseri umani»: aveva postato un video in cui spiegava come guadagnare soldi con video online. Per le autorità un invito al sesso online a pagamento.

 

23 aprile 2022

Presidenziali in Francia: “L’impressione è dover scegliere fra la peste e il colera”

di Massimo Marino 

Una battuta davvero cattiva ma efficace, pronunciata da una ragazza al primo voto di un quartiere popolare parigino, riassume lo spirito con il quale molti francesi si sentono di fronte alla scadenza elettorale che si conclude domani con il ballottaggio fra i primi due votati al primo turno: Macron e Le Pen.


Non so quanto consapevolmente la nostra ragazza ha sfiorato la vera malattia che rende esangue la Francia e purtroppo molti alti paesi dell’Occidente “democratico”: i sistemi maggioritari, ancor più quelli a doppio turno, peggio quelli di tipo presidenziale, di cui quello francese è fra i peggiori. Ultimamente, a seguito della riforma che ha avvicinato le legislative alle presidenziali e che quindi si svolgeranno già il prossimo giugno, si parla addirittura di iperpresidenzialismo, anche se formalmente la Francia sarebbe una Repubblica semipresidenziale dove però il Presidente direttamente eletto ( il sogno di Meloni e forse di Salvini ) oltre alla politica estera ed alla difesa, gestisce di fatto tutta la politica interna forzando e controllando con relativa facilità l’attività legislativa del Parlamento e mettendo del tutto in ombra la figura del Presidente del Consiglio che ha da tempo un ruolo molto marginale. (quanti italiani sanno che si chiama Jean Castex ?)

Per comprendere quanto il Presidenzialismo, specie con i leader che passa il convento di questa epoca storica, sia un fiore appassito anche in Francia, tanto da spingere pure i vescovi francesi a sostenere che l’astensionismo è accettabile, è bene ricordare qualche numero che i nostri media si guardano bene dal mostrarci  ( ma molti giornalisti che fanno i commenti sulla Francia i numeri veri neppure li conoscono ).

Gli elettori attuali delle Presidenziali sono 48,747 milioni ed hanno potuto scegliere al primo turno fra 12 candidati (quelli che sono stati in grado di raccogliere a loro sostegno 500 firme di parlamentari, consiglieri regionali e comunali in carica). La frammentazione si è accentuata rispetto al 2017 quando i candidati erano stati 11. Molte presenze sono quasi simboliche : 8 su 12 non hanno neanche raggiunto il 5%, 3 di questi neanche il 3%. Nel 2017 6 su 11 non avevano raggiunto almeno il 5% e di questi 5 su 11 erano rimasti sotto il 3%.

Le astensioni al primo turno sono ancora aumentate e i dati ufficiali non calcolano bianche e nulle che sono sempre 800-900 mila.

Macron ha ottenuto 9,783 mil. di voti, esattamente il 20% del totale degli elettori abilitati al voto. La Le Pen ha ottenuto 8,133 mil. di voti, il 16,7% del totale.

Il terzo, escluso dal ballottaggio, è il candidato di alcune parti della sinistra che ha ottenuto 7,712 mil. di voti, il 15,8 % del totale. Cioè se avesse ottenuto 200mila voti in più e la Le Pen altrettanti in meno sarebbe andato al ballottaggio con Macron. E molti commentatori sussurrano sottovoce che avrebbe avuto molte più chance della Le Pen di battere Macron. Per dare l’idea un altro candidato, il verde Jadot, ha preso 1,627 mil di voti malgrado fosse chiaro che la sfida vera era a due o al massimo a tre.

E’ possibile avallare un sistema così bizzarro?

Per essere più chiari: come in un lancio di dadi questo sistema demenziale comporterebbe che 200mila voti spostati potrebbero cambiare 15 giorni dopo il nome del Presidente francese, di certo stravolgerebbero del tutto i risultati delle successive legislative per 5 anni, capovolgerebbero la politica interna ed estera della Francia (che sarebbe molto diversa fra Macron e Melenchon) e verosimilmente influenzerebbe molto quella dell’intera Unione Europea. Tutto questo per astrusi marchingegni elettorali inventati per rendere impossibili veri cambiamenti (qui la volontà degli elettori è davvero resa difficile ad esprimersi). Si può scegliere così la persona che ha di fatto tutti i poteri in Francia ?

Il ballottaggio di domani sarà quindi fra il Presidente uscente (alcuni sostengono sia il più odiato e più lontano dal suo popolo dell’intera Europa, spesso considerato il Renzi della Francia) che non è stato votato da esattamente 80 su 100 dei francesi e la signora Le Pen non votata da 83,3 su 100 dei francesi.

Nel 2017 i due sfidanti avevano ottenuto risultati quasi uguali al primo turno con il non voto rispettivamente di 81,8 e di 83,9 elettori su 100. Al ballottaggio Macron aveva prevalso su Le Pen con 20,743 contro 10,638 mil di voti ottenendo quindi il voto “forzato” di non più di 44 elettori su 100. Malgrado la costrizione al voto ben 56 francesi su 100 non lo hanno comunque votando rifiutando di scegliere fra “la peste e il colera “.

Non entro qui nel merito delle diverse posizioni politiche fra Le Pen e Macron. Non è il tema di questo breve intervento a due mesi dalle legislative. Quelle concrete dei due personaggi, fuori dalle sceneggiate mediatiche, a mio parere sono entrambe decisamente pericolose per l’Europa. Neppure entro nel merito delle responsabilità e dei limiti storici, gravi e sembra incurabili, delle forze che dovrebbero e potrebbero promuovere una alternativa solidale ed ecologica in uno dei paesi più importanti del continente europeo.  Noto solo che un paese che per tre anni è stato travolto dalle manifestazioni dei gilets jaunes, poi da quelle sulla riforma delle pensioni, infine dai movimenti per il clima, grazie anche ad un sistema elettorale e politico ottuso e immobile risulta dopo cinque anni del tutto immutato e irriformabile.

E’ un fatto che se non si mette in discussione, in modo preminente e radicale, il carattere insopportabile dei sistemi elettorali truffaldini che ci circondano qualunque offerta politica di alternativa risulta del tutto insignificante e impraticabile.  

                                                                   sabato 23 aprile 2022 

22 aprile 2022

Elezioni: Contro la Colombia di Petro si scatena la peggiore destra

  Il presidente Duque guida gli attacchi contro il candidato della sinistra al voto del 29 maggio. Il leader di Pacto Histórico costretto a rinunciare alla sua alleata storica, la senatrice Córdoba, sotto inchiesta per legami con le Farc

di Claudia Fanti *

Per scongiurare la vittoria di Gustavo Petro alle presidenziali del 29 maggio in Colombia, le forze conservatrici sono pronte a tutto. Dopo i brogli elettorali che hanno segnato le parlamentari del 14 marzo scorso, senza peraltro impedire la vittoria della sua coalizione, il Pacto Histórico, le destre hanno scatenato una delle campagne più sporche di cui si abbia memoria.

UNA STRATEGIA portata avanti con la benedizione del presidente Iván Duque che, malgrado la sua carica dovrebbe impedirgli di interferire nella campagna elettorale, non perde occasione per attaccare il candidato di sinistra, senza nominarlo.

Come quando, ricordando la propria devozione alla Vergine di Chiquinquirá, patrona della Colombia, si è detto sicuro della sua protezione «affinché la nostra democrazia non cada negli artigli della demagogia e del populismo».

Così, dal primo febbraio al 13 aprile, un discorso su tre di Duque – secondo il calcolo del sito di notizie La Silla Vacía – ha avuto come bersaglio una delle proposte della campagna di Petro, a cominciare da quella di una moratoria dello sfruttamento degli idrocarburi: «Forse non sanno, quanti promuovono queste idee, che questo settore rappresenta la maggiore fonte di attrazione dei capitali esteri, di royalty e di imposte».

Stessa sorte per le proposte del candidato di sinistra di rivedere le concessioni minerarie, di sciogliere la Esmad (lo Squadrone mobile antisommossa della polizia colombiana tristemente celebre per le sue violazioni dei diritti umani), di modificare il sistema delle pensioni per renderlo a maggioranza pubblica, di riformare il sistema di salute.

MA È STATA LA VISITA di suo fratello Juan Fernando ad alcuni detenuti rinchiusi nel carcere La Picota, l’8 aprile, a scatenare la più violenta offensiva contro il candidato del Pacto Histórico. P

oco importa si trattasse di una visita della Comisión Intereclesial de Justicia y Paz incaricata di accertare il rispetto dei diritti umani nelle carceri: le destre ne hanno approfittato per accusare Petro di negoziare uno sconto di pena per i politici condannati per corruzione in cambio di voti.

E tanto più furibondi sono stati gli attacchi quando Petro si è richiamato al concetto di perdono sociale di Jacques Derrida, benché non volesse certo proporre riduzioni di pena per i corrotti, indulti o amnistie, bensì indicare nella riconciliazione la via per sanare le ferite provocate dalle molteplici tragedie sofferte dal paese.

«IL PERDONO SOCIALE – ha spiegato su Twitter – non è impunità, è giustizia riparativa. Non è occultamento, è un processo di verità storica. Non è né giuridico, né divino, è il perdono terreno della cittadinanza. Non lo ordina il presidente, ma la società».

Eppure, per tutta la settimana, Petro ha dovuto ripetere in tutte le salse che «non c’è mai stata un’offerta di riduzione di pena né mai ci sarà».

Il polverone sollevato dalla visita del fratello a La Picota ha avuto, però, anche un’altra conseguenza: indurre Petro a chiedere alla senatrice e sua alleata storica

di fare un passo indietro in attesa di risolvere i problemi giudiziari in cui è coinvolta.

Una decisione dolorosa per il candidato presidenziale, che aveva voluto con sé a tutti i costi la senatrice, nota per aver mediato tra le Farc e il govero Uribe a favore della liberazione di politici sequestrati dalla guerriglia, ma accusata dalla Procura di aver tratto benefici economici e politici dai suoi vincoli con Hugo Chávez e con i comandanti delle Farc, oltre che di aver presentato a Maduro l’imprenditore colombiano Alex Saab, ora detenuto negli Stati Uniti per corruzione.

BENCHÉ CÓRDOBA abbia sempre negato ogni accusa, un’eventuale condanna giudiziaria nelle prossime settimane sarebbe stata per la campagna di Petro un colpo troppo duro.

nella foto:  Francia Marquez abbraccia Gustavo Petro

* da il manifesto 22 aprile 2022

 

leggi anche:

Colombia, Gustavo Petro favorito per la presidenza. Risultato storico per la sinistra

AMERICA LATINA. Doppio appuntamento elettorale: primarie e rinnovo del Congresso. Per la prima volta in vent'anni il protagonista non è l'ex narcopresidente Álvaro Uribe

( di Claudia Fanti – il manifesto 16 marzo 2022)

È iniziata nel migliore dei modi la corsa di Gustavo Petro alla presidenza della Colombia. Il doppio appuntamento elettorale di domenica scorsa – per il rinnovo del Congresso e per la definizione dei candidati alle presidenziali del 29 maggio – è stato un successo, per lui e per la sinistra. Alle primarie presidenziali, Petro si è infatti affermato non solo come il candidato ufficiale della sua coalizione, il Pacto Histórico, con oltre l’80% di preferenze, ma anche, con 4 milioni e mezzo di voti, come quello più votato in assoluto, incassando mezzo milione di voti in più di quelli che l’attuale presidente Iván Duque era riuscito a raccogliere nelle primarie del 2018.

NESSUN DUBBIO quindi che sia lui il favorito alle elezioni del 29 maggio, quando dovrà vedersela con Sergio Fajardo, vincitore delle primarie della coalizione Centro Esperanza, con circa 720mila voti, e soprattutto con l’ex sindaco di Medellín Fico Gutiérrez, che, con più di 2 milioni di preferenze, ha trionfato in quelle della coalizione di destra, Equipo por Colombia, oltre che con alcuni candidati che non hanno concorso alle primarie, come Ingrid Betancourt, la leader e fondatrice del Partido Verde Oxígeno sequestrata dalle Farc nel 2002.

Sono state anche le prime elezioni dopo 20 anni che non hanno avuto come protagonista l’ex narcopresidente Álvaro Uribe, il quale ha rinunciato a candidarsi al Congresso dopo essere risultato, nel 2018, il senatore più votato della storia del Paese con oltre 860mila preferenze.

CHE L’URIBISMO, rimasto escluso dalle primarie, sia ormai sul viale del tramonto lo ha indicato del resto il magro risultato delle legislative, in cui ha visto ridursi di molto la sua pattuglia parlamentare – dai 19 senatori e 32 deputati del 2018 ai 14 e 16, rispettivamente, di oggi -, passando dal primo al quinto posto al Senato e dal primo al quarto posto alla Camera. Un risultato su cui ha pesato indubbiamente l’infimo livello di consensi nei confronti del “subpresidente”, come il popolo colombiano ha ribattezzato Duque per la sua dipendenza dal leader della destra più estrema e guarrafondaia: è lui uno dei grandi sconfitti della giornata, pagando la totale chiusura alle rivendicazioni portate avanti dalla rivolta sociale, la sconfessione completa degli accordi di pace del 2016, la continuità del genocidio politico.

E non è un caso che Oscar Zuluaga, il candidato del Centro Democrático fondato da Uribe, abbia già annunciato il ritiro dalle presidenziali, garantendo, in funzione anti-Petro, il proprio appoggio a Gutiérrez, il nuovo volto della destra colombiana.

A festeggiare il risultato delle elezioni, in cui non sono mancate irregolarità e violenze, è comunque, oltre a Petro, tutto il Pacto Histórico, risultato la forza principale tanto al Senato (con poco più del 14% dei voti) quanto alla Camera dei deputati. Ma per quanto si tratti del miglior risultato del progressismo nella storia del paese, il Pacto Histórico, con i suoi 16 senatori e 25 deputati, resta comunque una forza di minoranza all’interno di un Parlamento estremamente frammentato. Con la conseguente necessità per Petro, nel caso in cui sia lui a vincere le presidenziali, di negoziare con altre forze politiche. Non per niente il leader progressista, nel suo discorso dopo la vittoria, ha invitato il Partido Verde, il Partido Liberal e persino i «conservatori con etica» a dare vita «a un grande fronte ampio e democratico».

SORRIDE in particolare, all’interno della coalizione progressista, la grande rivelazione di queste elezioni: la leader afrocolombiana e Premio Goldman (il Nobel per l’ambiente) 2018 Francia Márquez, che, con il suo slogan «Io sono perché noi siamo», ispirato all’etica tradizionale sudafricana Ubuntu, è giunta seconda dietro a Petro con ben 781mila voti, più di quelli ricevuti dal vincitore delle primarie del centro Sergio Fajardo.

 

 

16 aprile 2022

Francia verso il ballottaggio, l’incognita studenti, ecologisti e insoumise

 PRESIDENZIALI. «Né con Le Pen, né con Macron»: occupate le università, Sorbona compresa. Oggi il risultato della consultazione online di Mélenchon

di Anna Maria Merlo *

Oggi, molte manifestazioni sono organizzate in Francia contro l’estrema destra, che è sulla soglia del potere (a Parigi, partirà nel primo pomeriggio un corteo da Place de la Nation). Mentre già dai giorni scorsi ci sono stati dei movimenti nelle università, trenta ore di occupazione alla Sorbonne, l’università di Censier è chiusa fino al 23 aprile, giorno della fine del secondo semestre e vigilia del ballottaggio. A Sciences Po, ci sono stati scontri con l’estrema destra, poi gli gli studenti che hanno bloccato il sito della rue Saint-Guillaume sono stati “sloggiati”. Ma non ci sarà una mobilitazione simile a vent’anni fa, quando Jean-Marie Le Pen era arrivato al secondo turno, suscitando sorpresa e un ampio rigetto (Jacques Chirac fu poi eletto con l’82%). La posizione «né Macron né Le Pen» è stata difesa nell’occupazione della Sorbonne, con l’equiparazione tra «la distruzione sistematica della gioventù» di Macron e la «politica razzista, xenofoba, anti-sociale» di Le Pen. Ma non tutti sono d’accordo, a cominciare dalla Fage, la principale organizzazione degli studenti.

OGGI ALLE ORE 20, la France Insoumise rivelerà il risultato della consultazione social, tra i 310mila militanti, per sapere cosa fare del 22% dei voti che Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto al primo turno: astensione, voto Macron oppure voto Le Pen, anche se il leader ha chiesto «nessun voto per l’estrema destra»). Mélenchon, intanto, prepara le legislative di giugno: ieri, ha scritto a Pcf, Europa Ecologia e Npa, per invitarli a raggiungere le liste dell’Union populaire, in un programma di «avvenire in comune» redatto sulla base del suo al primo turno delle presidenziali. Nessuna lettera, invece, al Ps (e a Lutte Ouvriere), i socialisti, crollati sotto il 2% e che senza alleanze rischiano di sparire dall’Assemblée nationale, contestano a Mélenchon le posizioni sulla laicità, che trovano sia poco difesa, e sulla geopolitica, in particolare il rifiuto delle sanzioni alla Russia e l’invio di armi all’Ucraina in nome di una scelta di «non allineati».

La direzione dell’Union populaire cammina sulle uova, mentre il Pcf ieri ha invitato a «non confondere un avversario con una nemica» ed Europa Ecologia ha ripetuto l’indicazione per un voto Macron. Clémentine Autain, deputata insoumise afferma che non c’è «eguaglianza tra il progetto di estrema destra e quello della macronia, che peraltro abbiamo combattuto con determinazione, Marine Le Pen è molto liberista, ma si dà arie sociali, con la preferenza nazionale molte famiglie cadranno nella povertà». Mentre Manuel Bompard, che è stato direttore di campagna di Mélenchon, è molto meno chiaro, ieri ha affermato che «effettivamente, il programma di Emmanuel Macron e il suo bilancio sono talmente insopportabili che capisco chi dice che forse bisogna usare la scheda Le Pen per batterlo, ma dico loro che non credo sia una buona decisione, perché il programma di Marine Le Pen sulle questioni sociali non è molto lontano da quello di Macron».

QUESTA ESTREMA prudenza segnala che sarà molto difficile ricostruire il “fronte repubblicano” contro l’estrema destra, del resto Macron stesso dice che non esiste più e che Le Pen deve essere contestata «proposta contro proposta». Adesso, è Le Pen che cerca un “fronte” comune “anti-Macron” e tende la mano ai voti dell’Unione populaire, parla di «voto popolare» nazionale contro «l’élite» europeista, insiste sul tasto che le ha dato il successo al primo turno – il potere d’acquisto delle classi popolari – ma ricomincia a parlare di immigrazione.

Oggi, ci sarà un chiarimento sul fronte di quella che viene considerata la prima preoccupazione dei francesi, e dei giovani in particolare: la lotta contro il riscaldamento climatico. È il tema del comizio di Macon a Marsiglia. Il presidente uscente ha già spiegato che non riprenderà le posizioni dei suoi avversari, il verde Jadot e Mélenchon, ma che alcune proposte potranno essere prese in considerazione, nel quadro di un’«ecologia di progresso», che comprende la «sobrietà» ma non la «decrescenza». Secondo il Reseau Action Climat, «nessuno è all’altezza» della sfida climatica, «ma il programma di Emmanuel Macron, impreciso e incompleto, ci fa stagnare, mentre quello di Marine Le Pen, vuoto e pericoloso, ci fa indietreggiare». Per Clément Sénéchal di Greenpeace France, la scelta è tra «un cinico e una scettica». Le Pen vuole uscire dal Green Deal della Ue.


nella foto: Parigi, centinaia di studenti occupano un’ala dell’Università della Sorbona

* da il manifesto - 16 aprile 2022

15 aprile 2022

Otto anni fa il gas russo ci liberò dalla dipendenza dall’Africa

 L’esecutivo festeggia l’accordo con l’Algeria per l’aumento delle forniture di gas. Però nel 2014, a cavallo fra i governi Letta e Renzi, usammo Gazprom come assicurazione contro il Maghreb. Chi allora ha voluto quegli accordi, adesso chiede di rompere con Mosca.

di Sergio Giraldo * 

È ormai comunemente accettata l’idea che la crisi ucraina attuale di queste settimane affondi le sue radici nelle ferite lasciate aperte in maniera incauta nel 2013-14, allorché dai disordini di piazza Majdán si arrivò in pochi mesi all’annessione della Crimea da parte della Russia. Oggi, con l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin, la priorità dell’Europa è diventata sostituire il gas russo a tutti i costi e nel più breve tempo possibile, ma otto anni fa la situazione era assai diversa. Il 23 maggio 2014, infatti, la Reuters riportava con enfasi la notizia che Eni aveva siglato un importante accordo con Gazprom (il monopolista russo del gas) per la revisione dei prezzi dei contratti pluriennali di fornitura di gas.

L’accordo era effettivamente importante perché permetteva a Eni di sganciarsi dalla classica formula di indicizzazione del prezzo a un paniere di greggi, che la stava penalizzando da anni. Dal 2011 infatti il prezzo del petrolio era rimasto costantemente sopra i 100 dollari al barile, mentre il prezzo del gas nel nascente mercato europeo mostrava valori assai più bassi. Eni, quindi, comprava il gas a prezzo (relativamente) alto e lo rivendeva poi sul mercato a prezzo (relativamente) basso, incamerando perdite consistenti. Il processo di rinegoziazione, lungo e faticoso, era teso a legare il prezzo del gas acquistato al nascente mercato spot europeo Ttf (all’epoca mediamente più basso anche se più volatile), separando così il prezzo del gas da quello del petrolio. Eni ottenne la revisione proprio pochi giorni dopo che la Crimea con un controverso referendum aveva deciso per l’annessione alla Russia. Poi, come spesso capita nei mercati, dall’estate 2014 i prezzi del petrolio subirono un tracollo lungo due anni, sino a raggiungere il minimo attorno ai 28 dollari al barile, per cui la forbice tra i due prezzi quasi si annullò, ma la rinegoziazione portò comunque i vantaggi sperati, anche per il mercato italiano nel suo complesso. Era molto importante per Eni riuscire in questo tentativo, anche perché nel frattempo gli altri Paesi fornitori di gas su cui contava l’Italia, Algeria e Libia, non se la passavano affatto bene. Dopo la fine violenta del regime di Muammar Gheddafi in Libia, con l’avvio di una complicata guerra civile che dura tuttora, il Paese era diventato impraticabile, le attività economiche erano a rischio e le forniture di gas procedevano a singhiozzo. L’Algeria aveva vissuto la repressione dei disordini della Primavera araba del 2012, ma il vero shock fu l’attacco terroristico di In Aménas nel gennaio 2013. Un commando di 32 terroristi di Al Qaeda assaltò il giacimento di gas algerino di Tigantourine, gestito dall’inglese Bp e dalla norvegese Statoil, sequestrando e tenendo in ostaggio oltre 700 persone tra lavoratori locali, stranieri e guardie private. Dopo quattro giorni di assedio, l’azione delle forze di sicurezza liberò il campo, ma alla fine si contarono 29 morti tra i terroristi e 40 tra gli ostaggi, dipendenti delle compagnie petrolifere (tra cui dieci giapponesi, cinque norvegesi e cinque inglesi). Lo shock fu enorme e rallentò seriamente qualunque tipo di attività economica straniera nel Paese. Un anno dopo, nel gennaio 2014, si verificò una interruzione molto consistente (-80%) dei flussi di gas dall’Algeria verso l’Italia, cosa che ovviamente mise in allarme tutto il sistema gas italiano. Venne fuori che il gas proveniente dall’Algeria mostrava dei tassi di umidità molto al di fuori dalla norma, dunque era necessario rallentarne l’arrivo e miscelarlo con altro gas per «asciugarlo». La situazione tornò alla normalità, ma l’episodio pose più di un’ombra sull’affidabilità del fornitore algerino, oltre che sulla qualità del gas estratto.

Oggi la spirale del tempo, beffardamente, ci ha riportato molto vicini a dove eravamo otto anni fa, ma, come in un negativo fotografico, tutto è ribaltato. Nel febbraio 2014, dopo piazza Majdán, Enrico Letta da presidente del Consiglio (ancora per pochi giorni) trovò il tempo di scrivere al Corriere della Sera un’accorata lettera per giustificare la propria presenza all’inaugurazione dei giochi olimpici invernali in Russia, ospite di Vladimir Putin («Perché ho deciso di essere a Sochi»). Ebbene, si tratta dello stresso Enrico Letta che oggi è tra i più accaniti sostenitori dell’applicazione alla Russia della madre di tutte le sanzioni, cioè il blocco delle importazioni di gas e petrolio da parte dell’Europa. Nel maggio 2014, a Crimea annessa, fummo ben contenti che la rinegoziazione di Eni con la russa Gazprom fosse andata a buon fine, perché Libia e Algeria non ci davano sufficienti garanzie. Oggi invece, avendo deciso di fare a meno del gas siberiano, mezzo governo italiano si presenta ad Algeri per chiedere un po’ più di gas, s’il vous plait, abbandonando in qualche archivio profondo dubbi e perplessità sull’urbanità, per così dire, della controparte. Le capriole in politica non sono certo cosa nuova, anzi. Occorre però essere avvertiti del fatto che, dopo la centesima giravolta, si rischia di perdere il senso dell’orientamento e forse anche il senso del limite.

* da laverita.info – 13 aprile 2022

«Femministe criminali»: le donne turche trascinate in tribunale

 La procura di Istanbul chiede la messa al bando della storica piattaforma We Will Stop Femicide per «atti contro la morale». Domani manifestazione di protesta. Intanto nel paese gli uomini uccidono una donna al giorno e l'Akp di Erdogan progetta riduzioni di pena

di Chiara Cruciati *    

Solo a marzo in Turchia uomini hanno ucciso 25 donne. Più della metà tra le mura domestiche. Nel 2021 ne hanno ammazzate 339, praticamente una al giorno. A tenere il conto, da 12 anni, dei femminicidi commessi in Turchia, a denunciare sparizioni forzate, a guidare le donne nei procedimenti penali e a occuparsi delle vittime di abusi e violenze è We Will Stop Femicide Platform.

ASSOCIAZIONE BATTAGLIERA, in prima linea contro le (volute) disfunzioni dello Stato turco in materia, anima delle proteste di piazza e della battaglia seguita all’uscita, nel luglio 2021, di Ankara dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne, ora quella piattaforma rischia di chiudere. Per decisione di un giudice. La procura di Istanbul, ieri, ha formalmente accusato il movimento femminista di «agire contro la legge e la moralità», trascinandolo in tribunale. Quell’accusa è il cappello, l’ombrello a una serie di sotto-accuse che vanno da «disintegrazione della struttura familiare ignorando il concetto di famiglia» a «compromissione della famiglia mascherandola per difesa dei diritti delle donne» fino a «forte sospetto di crimine» (sic – dopotutto per la Convenzione di Istanbul il governo turco parlò di «normalizzazione dell’omosessualità»).

NESSUNA PROVA APPARENTE ma tutte buone ragioni, agli occhi della procura, per metterlo al bando. Una guerra alle donne sotto altra forma, a cui la piattaforma ha reagito immediatamente con un comunicato: «Sappiamo che non cammineremo mai da sole di fronte a simili attacchi alla nostra lotta giusta. Facciamo appello a tutte le donne, le persone Lgbtqi+ e ai cittadini che sostengono la battaglia delle donne perché si uniscano a noi contro questa denuncia». «Abbiamo cominciato il nostro viaggio 12 anni fa – continua la nota – Abbiamo svelato la verità dietro femminicidi sospetti. Abbiamo ottenuto leggi sulle donne. Con i dati pubblicati ogni mese, abbiamo mostrato che combattiamo per la vita. Questa denuncia non è un attacco solo alla nostra lotta, è un attacco all’intero sistema democratico». Sui social la risposta è arrivata, in tanti – tra loro politici e intellettuali – hanno preso parola a difesa di We Will Stop Femicide. E domani a Istanbul si scenderà in piazza a Kadikoy, una protesta che – visti i precedenti – si immagina già tesa: da anni le manifestazioni femministe sono occasione di sfoggio della violenza della polizia, con barricate, manganelli e cannoni ad acqua.

A DARNE RIPROVA è stata ieri la notizia che 40 donne, detenute l’8 marzo proprio a Kadikoy dove stavano per imbarcarsi in direzione di Taksim e la marcia femminista, sono state incriminate per «partecipazione a manifestazione illegale disarmata» e per «mancata dispersione nonostante gli avvisi». Secondo quanto riportato da Women’s Defence Network, nell’incriminazione si scrive che la marcia (40 donne che stavano raggiungendo un battello) avrebbe bloccato veicoli e pedoni. Nel mirino anche i contenuti dei loro cartelli: «Creiamo un mondo femminista», «Resisti con la rivolta femminista», «Non stare in silenzio, le lesbiche esistono». Agenti antisommossa, ha aggiunto l’associazione, «hanno circondato le donne e non le hanno nemmeno fatte salire a bordo». È in tale contesto di repressione che cade il tentativo di silenziare la piattaforma femminista. Che intanto continua a pubblicare i numeri che imbarazzano il governo: nel 2021 sono state uccise in Turchia almeno 339 donne, 96 sono state stuprate (dati relativi alle sole denunce sporte), 772 costrette a prostituirsi. In 20 casi di femminicidio, l’uomo era sottoposto a ordini restrittivi.

A MARZO IL PARTITO del presidente Erdogan, Akp, ha inviato al parlamento un disegno di legge contro la violenza sulle donne, aspramente criticato dai movimenti femministi. Tra le proposte, una riduzione della sentenza per l’uomo che mostra rimorso e un incremento nel caso sia il coniuge, senza prevedere lo stesso nel caso di fidanzati o ex. Nessuna solida riforma né riferimenti all’eguaglianza di genere, aveva commentato Fidan Ataselim di We Will Stop Femicide: «Di recente, una donna è stata accoltellata a morte per non aver accettato una proposta di matrimonio. La Corte suprema ha ridotto la sentenza di primo grado dicendo che se avesse accettato sarebbe ancora viva. I giudici stanno già riducendo le sentenze, è inaccettabile»

* da il manifesto 14 aprile 2022   - nella foto: 8 marzo a Istambul

3 aprile 2022

Vincitori e vinti nella guerra in Ucraina


di Gianandrea Gaiani *

In attesa di sviluppi militari e diplomatici che definiscano il possibile esito del conflitto tra russi e ucraini, è forse possibile evidenziare chi siano già oggi gli sconfitti e i vincitori nella guerra iniziata in Ucraina nel 2014 ma allargatasi a uno scontro convenzionale su vasta scala a partire dal 24 febbraio 2022.

Il tema verrà sviluppato presto in modo più analitico e organico ma pare evidente che gli sconfitti siano almeno tre:

  • l’Ucraina che uscirà in ogni caso devastata e probabilmente divisa dal conflitto, col rischio di subire pesanti condizioni di pace o perdite territoriali oltre ai gravi danni economici, umani e materiali.
  • la Russia che al di là dei possibili successi militari verrà forse a lungo emarginata dall’Occidente, tagliata fuori da quell’Europa a cui appartiene, sottoposta a sanzioni e costretta a guardare all’Asia dove l’attende il poco tranquillizzante abbraccio della Cina
  • l’Europa, costretta a fare i conti con la propria incapacità e irrilevanza geopolitica, con la pochezza della sua classe dirigente e con una disastrosa, devastante crisi economica ed energetica generata dalla sua stessa insipienza e dall’aver colpevolmente lasciato agli Stati Uniti (proprio come fece negli anni ’90 con la crisi in ex Jugoslavia) la gestione della sua sicurezza.

I vincitori assoluti di questa guerra sembrano quindi essere inevitabilmente Cina e Stati Uniti: i primi costituiscono una rilevante ancora di salvezza per la Russia non solo perché sono e saranno ancor di più grandi acquirenti del suo gas ma perché l’impoverimento e indebolimento russo aumenterà presumibilmente il peso di Pechino in Asia e nell’Indo-Pacifico.

I secondi sono tornati a dominare un’Europa che, da tempo prima potenza economica del mondo in termini di PIL, sembrava voler trovare una propria dimensione strategica e militare indipendente da Washington.

Inoltre, l’impoverimento dell’Europa che a causa del caro-energia vedrà i suoi prodotti perdere competitività sui mercati globali, favorirà soprattutto Washington e Pechino, rispettivamente seconda e terza potenze economiche mondiali.

Sul piano militare è difficile non notare che se dall’estate scorsa la “difesa europea” era tornato in auge sull’onda dell’umiliante sconfitta in Afghanistan incentrata sull’indipendenza strategica dagli Stati Uniti, oggi si parla di “forze armate europee” complementari o addirittura integrate alla NATO. Certo la paura (dei russi) “fa 90” in nazioni europee in cui il concetto di guerra era stato ormai rimosso e dimenticato ma è evidente che uno strumento militare della Ue, ammesso che possa un giorno concretizzarsi, avrà un senso solo se ci renderà autonomi dagli USA. Se le due guerre mondiali hanno fatto perdere all’Europa la predominanza strategica e coloniale sul mondo, la guerra in Ucraina rischia di togliere al Vecchio Continente anche la supremazia economica faticosamente riconquistata negli ultimi decenni.

La forte convergenza di vedute circa la guerra in Ucraina tra Stati Uniti ed Europa emersa nei recenti vertici di Bruxelles della NATO e del Consiglio d’Europa avrebbe dovuto far sorgere qualche interrogativo poiché gli interessi, a cominciare da quelli energetici e geopolitici, dell’Europa divergono in modo evidente da quelli di Washington. A minare questa fittizia unità di intenti tra USA ed Europa hanno provveduto le ultime gaffes (ma saranno davvero tali?), del presidente statunitense Joe Biden.

“Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere”, ha detto Biden in Polonia, poche ore dopo aver accusato il presidente russo di essere “un macellaio”. Possibile ma improbabile che sia stato ispirato da quel ministro europeo che aveva definito Putin “l’animale più atroce” anche se le frasi di Biden hanno avuto un’ampia eco costringendo molti in Occidente a rettificare o prendere le distanze. Un portavoce della Casa Bianca ha specificato che il presidente non si riferiva al potere di Putin in Russia ma al potere che il presidente russo vuole esercitare sui paesi vicini e il segretario di Stato Anthony Blinken ha precisato che Washington non ha un piano per il cambio di regime a Mosca. Rettifiche poco efficaci che non sono riuscite a fugare la sensazione di una profonda inadeguatezza del presidente degli Stati Uniti che tratta Putin come si trattasse di un Saddam Hussein, un Muhammar Gheddafi o un Bashar Assad da togliere rapidamente di mezzo.

Samuel Charap, esperto di Russia presso la Rand Corporation ritiene che le dichiarazioni di Biden esasperino in Russia “la percezione delle minacce esistenti relativamente alle intenzioni americane. I russi potrebbero essere molto più inclini a compiere gesti ostili come risposta, anche più di quanto già non siano”. Citando ex funzionari e analisti, il Washington Post ha sottolineato come le parole di Biden pongano gravi implicazioni sulla capacità degli USA di contribuire a mettere fine alla guerra o di impedirne l’ampliamento. Ma soprattutto occorre chiedersi se la fine delle ostilità il più presto possibile sia un obiettivo che Washington (e con lei Londra) intenda perseguire. Sono infatti troppe le affermazioni fuori luogo di Biden nei confronti di Putin (definito nelle scorse settimane anche “un assassino” e “un criminale di guerra”) per considerarle semplici e frequenti cadute di stile, inopportune ma non intenzionali. Impossibile non notare che tali dichiarazioni sembrano avere l’obiettivo di irrigidire Mosca allontanando l’avvio di negoziati concreti e rischiando di determinare un’accelerazione o un ampliamento di un conflitto che minaccia di travolgere l’Europa.

Difficile credere sia un caso, specie dopo le polemiche degli ultimi giorni scatenate dalle parole di Biden, che oggi è tornato a definire Vladimir Putin dal suo account Twitter personale “un dittatore deciso a ricostruire un impero”. Guarda caso l’esternazione è giunta poche ore dopo l’annuncio che i colloqui tra russi e ucraini in Turchia hanno fatto emergere uno schema di intesa su cui continuare le trattative ma che già prevede una riduzione delle operazioni militari russe nel settore di Kiev, dove le forze di Mosca hanno assunto già da alcuni giorni un assetto difensivo. Poche ore prima del tweet, in una conferenza stampa, Biden aveva chiarito che i suoi commenti sul leader del Cremlino sono “personali”. Affermazione forse ancor più imbarazzante degli insulti che Biden ha riservato a Putin ma del resto una guerra prolungata in Ucraina sembra essere negli interessi di Washington che vedrebbe logorarsi la Russia e indebolirsi rapidamente l’Europa, rivale economico e commerciale (a oggi l’angolo più ricco del mondo in termini di PIL) a cui già nel 2014, dopo il golpe del Maidan, Barack Obama (di cui Biden era vice) chiedeva di rinunciare al gas russo sicuro e a buon mercato per acquistare quello statunitense, da fornire liquefatto via nave, in misura insufficiente e a costi ben più alti. A Washington si parla ormai apertamente di un duello in atto nell’Amministrazione che vedrebbe da una parte Casa Bianca e Dipartimento di Stato puntare a rafforzare la sfida militare e le provocazioni a Mosca e dall’altro il Pentagono impegnato a smorzare i toni bellicosi, impedendo (finora) che alle armi antiaeree e anticarro fornite alle truppe di Kiev si aggiungessero aerei da combattimento, carri armati e artiglierie.

Negli Stati Uniti la guerra in Ucraina ha fatto precipitare ancora più basso la popolarità di Biden, che vede oggi appena il 40 per cento degli americani approvare il suo operato contro il 55 per cento che lo disapprova. Un sondaggio pubblicato da NBC News registra come sette americani su 10 abbiano poca fiducia nella capacità del presidente di gestire il conflitto. Ed un numero ancora maggiore, otto su dieci, temono che la guerra provochi l’aumento dei prezzi energetici e addirittura possa portare ad un coinvolgimento delle armi nucleari. E il sondaggio è stato condotto tra il 18 ed il 22 marzo; quindi, prima del viaggio di Biden in Europa e delle ultime dichiarazioni che tante polemiche hanno suscitato.

In Europa il primo a “tirare le orecchie” a Biden, affermando di non ritenere Putin un macellaio, è stato il presidente francese Emmanuel Macron, sempre più a disagio di fronte alle dichiarazioni aggressive che Washington dispensa pubblicamente ogni volta che sembra aprirsi la possibilità di negoziati concreti tra i belligeranti. “Non è il momento di alimentare un’escalation né di parole ne’ di azioni”, ha ammonito Macron che punta a un nuovo incontro con Putin per dare un ruolo alla Francia e all’Europa nelle trattative.

“Non stiamo cercando un cambio di regime, spetta ai cittadini russi decidere se lo vogliano o meno”, ha dichiarato l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell (nella foto sotto): “Quello che vogliamo è impedire che l’aggressione continui e fermare la guerra di Putin contro l’Ucraina”. Persino l’alleato NATO più fedele, la Gran Bretagna, ha preso le distanze da Biden con il ministro dell’Istruzione Nadhim Zahawi mentre il loquace Boris Johnson questa volta non ha speso una sola parola sulle affermazioni sopra le righe del presidente americano. Ad Ankara anche Recep Tayyp Erdogan ha mostrato insofferenze per le parole di Biden. “Se tutti bruciano i ponti con la Russia, chi parlerà con loro alla fine?”.

Nonostante le critiche diffuse la politica della Casa Bianca difficilmente cambierà rotta a conferma della divergenza di interessi che separa ormai da tempo gli USA dall’Europa e della pochezza di una Ue che invece di assumere iniziative per risolvere la guerra in Ucraina (cominciata otto anni or sono non un mese fa), ha preferito lasciarsi “commissariare” dagli USA nella tutela dei suoi interessi strategici. La presenza di Biden al Consiglio d’Europa (organismo da cui è stata appena estromessa la Russia) non è apparsa come la cortesia che una grande potenza accorda a un ospite di riguardo ma un omaggio a chi è venuto da oltreoceano per dettare termini e condizioni del nostro vassallaggio, con tutte le relative conseguenze sul piano politico, strategico, economico e energetico.

* da www.analisidifesa.it – 30 marzo 2022

la pubblicazione dell’intervento non comporta la totale condivisione dei contenuti

 

2 aprile 2022

L’aumento al 2% delle spese militari? Il 60% va in stipendi, il 28 in investimenti

 Dei 25 mld annui, il 60% va in stipendi, il 28 in investimenti. Ma a bilancio ci sono richieste per 65 mld, soprattutto sistemi “combat” e nuovi mezzi. Una delle narrazioni che servono a giustificare l’aumento delle spese militari invita a non utilizzare la parola “riarmo”.

di Salvatore Cannavò *

Una delle narrazioni che servono a giustificare l’aumento delle spese militari invita a non utilizzare la parola “riarmo”. Le spese militari riguarderebbero soprattutto l’efficienza delle forze, il personale, la logistica, l’addestramento, le sfide del futuro come cyber-security e soprattutto lo spazio che, senza che se ne parli, sta molto a cuore alle Forze armate. Ma è davvero così? Il Documento di programmazione pluriennale (Dpp) della Difesa mostra un’altra realtà, anche perché in sede di Stato maggiore si parla apertamente di forze armate più orientate alle spedizioni militari, più combat, per cui gli investimenti sul personale riguardano in primo luogo questa vocazione. Si discute anche di rivedere in radice il Modello di difesa italiano, ormai risalente agli anni 90 e quindi obsoleto. 

I numeri. Il bilancio a disposizione del ministro Lorenzo Guerini ammonta a 25 miliardi l’anno (24,5 secondo la Difesa, mentre l’Osservatorio Milex lo stima in 24,9) l’1,4% del Pil che l’obiettivo del 2% stabilito in sede Nato porterebbe a 38 miliardi. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio sulla spesa pubblica dell’Università Cattolica di Milano (Ocpi), l’Italia spende per il personale una cifra molto consistente pari al 60,5% contro una mediana dei Paesi Nato del 47,9. Gli Usa spendono il 37,5%, la Gran Bretagna il 32,7, la Francia il 42,5 e la Germania il 41,7. Difficile fare peggio. Questo nonostante l’Italia abbia ridotto i suoi effettivi dai 176 mila del 2012, anno della legge 244 che prevedeva di passare a 150 mila effettivi entro il 2024, agli attuali 162 mila. C’è ancora molto da fare e soprattutto occorre capire come applicare l’orizzonte strategico: “Una priorità rimane comunque innalzare e sostenere l’efficienza delle linee operative, sia delle piattaforme e sistemi combat sia degli assetti di supporto; altresì, l’efficacia dello Strumento militare non può prescindere da una adeguata dotazione di armamento e munizionamento”. Gli eserciti servono a combattere e quindi se li si finanzia questo propongono di fare. 

Investimenti. L’altra voce importante del bilancio è quella degli investimenti, dove le cose vanno molto meglio, perché nel 2021 l’Italia ha raggiunto il 28% della spesa complessiva contro una mediana Nato del 24,3%; solo gli Usa vanno meglio col 29,4% della spesa. La tendenza al riarmo, come si vede, è già in atto, rafforzata dall’istituzione del “Fondo per la realizzazione di programmi di investimento pluriennale 2021-2035” che aveva previsto uno stanziamento di 12,35 miliardi. Negli stessi anni la componente investimenti, che comprende anche i fondi in capo al Mise, è passata dai circa 4-5 miliardi degli anni tra il 2008 e il 2019, ai 6,8 miliardi del 2021 e al picco di 7,7 miliardi del 2022. Eppure il Dpp sostiene che “permane comunque la necessità di stabilizzare e incrementare, non appena il quadro complessivo lo consentirà, il trend d’investimento nelle spese militari”. La centralità della voce è ribadita senza esitazioni. 

Ulteriori esigenze. Il Dpp svolge però anche un’altra funzione, perché elenca dettagliatamente “gli ulteriori programmi che la Difesa intende avviare, al momento sprovviste del necessario sostegno finanziario” (corsivo nostro) ma che sono già state “oggetto di compiuto approfondimento”. Insomma, sono programmi già pronti, mancano solo le risorse. Il totale di questi progetti ammonta a 65 miliardi da spalmare su più anni. 

I sistemi d’arma.  Il primo capitolo riguarda la “Preparazione delle forze” con programmi di ammodernamento infrastrutturale, ricerca tecnologica, formazione e centri operativi di eccellenza, sistemi di simulazione, ma anche “acquisizione di velivoli leggeri per l’addestramento basico low-cost”. Totale dell’impegno: 1,3 miliardi. Per la “Proiezione delle forze” si richiede invece una spesa di 5,9 miliardi e qui siamo su pezzi più pesanti: come il programma Future Fast Rotocraft (caro agli Stati Uniti), nuovo velivolo da trasporto tattico ad ala rotante, veicoli da sbarco e anfibi o l’ammodernamento delle navi San Giusto, Cavour oltre ai velivoli C-130. Molto lunga la lista della voce “Protezione delle forze e capacità di ingaggio” la più cospicua con 32,8 miliardi di fondi da assegnare e che prevede il comparto Cyber della Difesa, il potenziamento delle Forze speciali dei Reparti specialistici, i sistemi anti-drone, lo sviluppo del Mc-27J Praetorian, una collaborazione fra Leonardo e la statunitense Lockheed Martin, il programma di Deep Strike cioè missili di difesa ad ampio raggio (terreno su cui competono gli europei di Mbda e gli Usa con il classico Tomahawk), il rinnovamento del parco missili Aster (di nuovo Mbda così come i missili Camm-Er), i Cacciamine di nuova generazione, che insieme al completamento delle fregate Fremm alimentano Fincantieri. Quanto al “Sostegno delle forze” (13,16 miliardi) si punta sui sottomarini U212-Nfs (ancora Fincantieri), i missili Teseo (Mbda), il completamento del discusso programma Joint Strike Fighter, gli F-35 cari agli Stati Uniti, ma anche del caccia europeo Tempest e dell’Eurofighter, i nuovi velivoli EC-378 per la guerra elettronica (Bae Sysems Gb). Vengono richiesti 4,3 miliardi per il programma “Comando controllo e consultazione” dedicato alla delicata innovazione digitale e informatica anche con l’acquisizione di nuovi satelliti. L’analisi dei dati, il reparto informazioni e sicurezza fanno parte dell’ultimo capitolo, “Superiorità decisionale” dal valore di 7,3 miliardi. Un programma molto ampio che, spiega Francesco Vignarca della Rete Disarmo, “comporta necessariamente anche l’innalzamento delle spese per nuovi armamenti. Se infatti guardiamo – aggiunge – alle richieste degli ultimi mesi, le priorità della Difesa sono sia di un rafforzamento quantitativo sia qualitativo, con la quantità maggiore di fondi impegnata per il nuovo cacciabombardiere Tempest, per l’EuroDrone armato, ma anche blindati, elicotteri e sistemi di comunicazione”. 

In effetti il Dpp assicura di voler beneficiare “l’intero tessuto imprenditoriale” valorizzando “il proficuo dialogo già in atto con la grande industria”. Una idea strategica che colloca la spesa militare, e quindi lo Stato, al centro del sistema economico in un nuovo piccolo “complesso militar-industriale” in salsa italiana che attira l’interesse di molti. Troppi. 

* da ilfattoquotidiano.it - 2 aprile 2022

1 aprile 2022

“L’affrancamento da Mosca passa attraverso le abitazioni”

 Legambiente e Kyoto Club: Come dimezzare le importazioni di gas senza inquinare e abbattere le bollette


 di Daniela Passeri *

Il progressivo affrancamento del gas russo passa anche dal nostro locale caldaia. Riqualificando ogni anno il 3% del patrimonio edilizio con misure di efficientamento e di elettrificazione dei consumi che prevedano la sostituzione delle caldaie a gas con un milione di pompe di calore elettriche, entro 2030 si potrebbero risparmiare 12 miliardi di metri cubi di gas, pari al 41% delle importazioni da Mosca.

Il calcolo è contenuto nello studio «Dal gas alle rinnovabili: Scenari e benefici economici dei sistemi di riscaldamento degli edifici» realizzato da Elemens e presentato ieri da Legambiente e Kyoto Club. Il taglio del gas comporterebbe risparmi in bolletta (fino all’80% rispetto ai primo trimestre 2022), minori emissioni di CO2 (22 milioni di tonnellate in meno) e vantaggi per la sicurezza (nel 2019 ci sono stati 270 incidenti a caldaie a gas che hanno causato la morte di 35 persone).

Per ottenere questi risultati, però, serve cambiare passo nella politica degli incentivi che, secondo Elemens, hanno di certo avuto impatti sull’efficienza, ma sul fronte della riduzione del gas naturale il risparmio è stato contenuto ed è andato progressivamente a decrescere: se nel 2011 si sono risparmiati 0,8 miliardi di metri cubi, nel 2020 il risparmio si è ridotto a 0,3 miliardi di metri cubi, a fronte di 27 miliardi di euro di detrazioni fiscali. «La cosa non stupisce – ha commentato Tommaso Barbetti, l’autore dello studio – se si considera che gli eco-bonus finanziano l’installazione di caldaie a condensazione a gas». Solo nel 2020 ne sono state installate 133mila grazie agli incentivi.

«L’Italia è l’unico paese al mondo che regala caldaie a metano, una follia che stiamo pagando a caro prezzo – ha dichiarato il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini – Possiamo raggiungere risultati ambiziosi dando invece priorità agli interventi negli edifici più energivori, premiando chi riduce di più i consumi, aiutando chi oggi sta più soffrendo la crisi con interventi negli edifici di edilizia residenziale pubblica dove vivono famiglie in condizioni di povertà energetica. In questo modo, in pochi anni possiamo ottenere un risultato superiore alla costruzione di un nuovo gasdotto ma con benefici in termini riduzione delle bollette e aumento di posti di lavoro». Quella delle pompe di calore, infatti, è una filiera tutta italiana.

Tre le proposte per correggere il sistema degli incentivi avanzate da Legambiente e Kyoto club, insieme impegnate da mesi in una campagna per accelerare il processo di decarbonizzazione degli edifici: 1) legare l’entità del contributo alla riduzione del consumo di gas e dei fabbisogni energetici. 2) accelerare l’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi che favoriscono il consumo di gas e gpl negli edifici eliminando nell’arco di tre anni accisa e Iva ridotta. 3) eliminare gli incentivi per l’installazione delle caldaie a gas (dal 2023 esclusione dal superbonus 110%, dal 2026 esclusione dalla detrazione del 50%) e vietare l’installazione di caldaie a gas negli edifici nuovi (dal 2024) e nelle ristrutturazioni degli interi edifici (2027) per sostituirle con pompe di calore integrate con fonti rinnovabili.

Gli esempi a cui ispirarsi in altri paesi europei non mancano: in Irlanda nel febbraio del 2020 è stato approvato un pacchetto per il miglioramento delle classi energetiche degli edifici che prevede un incentivo fino al 50% della spesa, mentre per le persone che soffrono di povertà energetica è prevista la copertura intera. Interventi più radicali nella riduzione dei consumi possono accedere ad incentivi fino all’80%. In Francia, l’installazione delle pompe di calore è incentivata fino a 9.000 euro. Nelle Fiandre (Belgio) si mira a rendere obbligatoria entro il 2023 la riqualificazione energetica di immobili acquistati almeno fino alla classe D: l’intervento deve essere effettuato entro i 5 anni successivi all’acquisto. Inoltre, per i nuovi edifici sarà proibito avere un riscaldamento a gas – se non in conformazione ibrida con pompa di calore – e entro il 2026 sarà proibita anche la connessione alla rete del gas.

* da il manifesto – 1 aprile 2022

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Per scaldare gli edifici il gas ormai è superato

ENERGIA. Sostituire una caldaia a gas con una pompa di calore elettrica è il modo più efficace per avere case a 0 emissioni. Ma in Italia questa transizione è troppo lenta

Disfarsi della caldaia a gas e sostituirla con una pompa di calore elettrica è al momento la mossa più efficace per tagliare le emissioni di CO2 legate al riscaldamento degli edifici, in tutte le fasce climatiche e con ogni mix energetico, eccetto che in Polonia ed Estonia. Fa risparmiare e garantisce buoni livelli di comfort. Però la transizione a questa tecnologia è ancora troppo lenta persino in un paese come l’Italia dove, grazie al Superbonus 110%, il principale ostacolo, quello dell’investimento iniziale, potrebbe essere agilmente superato.

UNA RICERCA E UN SONDAGGIO commissionati da Eeb (European Environmental Bureau) e Coolproducts mettono in evidenza che sono la mancanza di informazioni, e in qualche caso la disinformazione su costi, prestazioni ed entità degli interventi, a frenare la decarbonizzazione degli edifici. Invece, chi ha già installato una pompa di calore è soddisfatto: su 670 utilizzatori intervistati in 22 paesi europei (anche Uk e Norvegia), l’85% si dice contento, l’81% considera migliorato il proprio livello di benessere, il 64% dichiara di spendere meno. Considerando che il sondaggio è stato fatto prima dell’impennata del prezzo del gas, il risparmio sembrerà oggi ancora più consistente.

È NECESSARIO SFATARE LE LEGGENDE urbane secondo le quali il gas è assolutamente necessario per la transizione energetica, le pompe di calore elettriche non riescono a riscaldare le case come i boiler a gas, per installarle sono sempre necessarie ristrutturazioni integrali, e possono addirittura compromettere la stabilità della rete come sostiene la lobby del gas – dice Davide Sabbadin, responsabile per le politiche del clima di Eeb – è chiaro che le prestazioni migliori si hanno in abbinamento ad interventi di isolamento, con impianti di solare termico e fotovoltaico e con termosifoni radianti. Nel Sud, dove molte abitazioni non hanno l’impianto di riscaldamento, si rivelano molto più efficienti delle stufe elettriche. Quello che serve per la loro diffusione sono politiche che consentano a tutti di migliorare le prestazioni energetiche degli edifici, altrimenti solo le famiglie con meno risorse rimarranno vincolate al gas. Quanto all’idrogeno per il riscaldamento, è un’idea con la quale si trastullano Eni e Snam, ma non ci crede nessuno»

OLTRE AI COSTI, SECONDO LA RETE di organizzazioni dei consumatori europei Beuc, un altro freno alla diffusione delle pompe di calore può essere la mancanza di installatori e quindi manutentori. Per idraulici, elettricisti o impiantisti serve un patentino ad hoc, ma non esiste alcuna forma specifica di formazione.

PER OVVIARE AI VARI OSTACOLI, IN OLANDA si stanno sperimentando forme di noleggio. L’utente non acquista la pompa, bensì un servizio, un «pacchetto» calore con cui si garantisce il riscaldamento della casa. Il vantaggio sta nel fatto che il fornitore, che normalmente è un fornitore di energia, ha tutto l’interesse a installare gli impianti più efficienti e a curarne il funzionamento ottimale. Per l’utente il vantaggio sta nel non doversi sobbarcare l’investimento iniziale e non dover pensare a manutenzione e cura dell’impianto.

PER SPIANARE LA STRADA alla decarbonizzazione degli edifici, secondo Eeb, è necessario che le normative europee siano coerenti con l’obiettivo: è nella selva di direttive che servono diversi ritocchi. In quella sul consumo energetico degli edifici sarà opportuno introdurre una definizione univoca e più stringente di cosa sia un edificio a zero emissioni (Zeb, Zero Emissions Building), fino ad oggi lasciata ai legislatori dei singoli stati membri che non hanno escluso la presenza di impianti alimentati con combustibili fossili.

 

ANCHE LA REVISIONE DELLA DIRETTIVA sulla tassazione dell’energia, che dovrebbe iniziare a giorni, dovrà favorire l’uso delle energie rinnovabili nelle comunità energetiche e l’elettrificazione dei consumi incentivando la diffusione del fotovoltaico e delle pompe di calore. Su questo provvedimento è intervenuta nei giorni scorsi la Corte dei Conti europea con un’analisi del periodo 2008-2021, sottolineando ancora una volta che le politiche di tassazione dell’energia non sono allineate agli obiettivi climatici: «In base alla direttiva in vigore – si legge in una nota dei magistrati contabili Ue – le fonti energetiche più inquinanti possono beneficiare di un trattamento fiscale più favorevole rispetto a quelle più efficienti sul piano delle emissioni di carbonio: ed esempio, il carbone è tassato meno del gas naturale, così come alcuni combustibili fossili lo sono molto meno rispetto all’elettricità… Un basso livello di prezzi del carbonio e di imposte sull’energia per i combustibili fossili aumenta il costo relativo delle tecnologie più ecologiche e ritarda la transizione energetica».

ANDRA’ POI RIVISTA LA DIRETTIVA sull’efficienza energetica, là dove consente di calcolare i risparmi anche sulla base dei consumi dei fossili: è il meccanismo per cui oggi in Italia vengono incentivate caldaie a gas come quelle a condensazione, che sono sì più efficienti, ma continueranno a bruciare gas per decenni.

QUANTO ALLA REVISIONE DELLA DIRETTIVA sulle energie rinnovabili, Eeb auspica che introduca un target ambizioso sul riscaldamento che preveda un tetto massimo per le biomasse. «Le regole introdotte fino ad ora non sono sostenibili – fa notare Sabbadin – nell’Europa del Nord, dove vengono tagliate foreste invece di utilizzare solo i cascami del legno, non vogliono limiti all’utilizzo delle biomasse, mentre l’Italia non vuole target sul riscaldamento. Senza un tetto e senza target, con questi prezzi del gas, rischiamo di trovarci con milioni di stufette a pellet, che certo non giovano a all’inquinamento atmosferico». Infine, con la revisione delle direttive ecodesign ed etichetta energetica occorre prevedere una data ultima per l’immissione sul mercato di caldaie a metano non ibride. Data che ancora non è stata scritta.   ( Daniela Passeri – 3 febbraio 2022 )