15 novembre 2022

Come abolire le armi atomiche: il trattato è già in vigore (e nessuno lo sa)

di Pino Arlacchi *

L’industria della comunicazione, i media tradizionali, stanno dimostrando in questi giorni di essere la principale forza dell’instabilità e della violenza globali. Giornali e televisioni propinano un’informazione intossicata, basata sulla costruzione di un Grande Nemico pronto ad ogni nefandezza contro l’Occidente. Olocausto nucleare incluso. Non credo che questo possa accadere, e le dichiarazioni delle potenziali vittime di un attacco nucleare russo – con in testa il governo americano – tendono a smontare l’isteria comunicativa che dilaga in Europa e in Ucraina. Ma i venditori di paura non desistono. Sognano una guerra atomica che non ci sarà, e pur di vendere copie e alzare gli ascolti vengono meno al loro dovere di informare sui reali termini della questione. E mettono così in discussione uno dei pochi lasciti positivi della Guerra fredda: il tabù atomico.

L’ industria della paura non presta particolare attenzione alle armi nucleari, eccetto quando si svolgono test atomici che vengono bene in televisione o quando c’è di mezzo qualche storia (quasi sempre inventata o gonfiata a dismisura) di contrabbando o di terrorismo atomico. Il largo pubblico resta perciò all’oscuro dei progressi che si sono effettuati in questo campo, e non è in grado di apprezzare la portata di parole d’ordine come quella dell’abolizione delle armi nucleari. Quanti sanno che, senza la coltre di ignoranza e di paura creata dalla mistificazione mediatica, già da vari anni ci troveremmo a essere privi del più grande pericolo per la sicurezza dell’umanità? Pochissimi sono al corrente del fatto che le forze della pace hanno sfiorato l’en plein – l’abolizione di tutti gli armamenti atomici – a Reykjavík durante uno degli eventi più straordinari della seconda metà del Novecento: il vertice dell’ottobre 1986 tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv dedicato espressamente a questo tema.

Nel gennaio del 1986 Gorbačëv aveva scritto a Reagan proponendo un calendario per l’eliminazione di tutte le armi nucleari entro la fine del secolo. I consiglieri del presidente americano avevano prontamente bocciato la proposta bollandola come un trucco propagandistico. Reagan aveva però reagito diversamente e aveva addirittura rilanciato: «Perché aspettare fino al 2000?». Fu la sua risposta a Gorbačëv. I due presidenti – davanti agli occhi attoniti delle rispettive delegazioni – raggiunsero l’accordo sull’eliminazione di tutti i missili balistici e gli arsenali nucleari entro dieci anni. Entro il 1996 l’umanità sarebbe uscita dall’incubo iniziato a Hiroshima quarantun anni prima. Reagan e Gorbačëv disprezzavano gli ordigni atomici e non credevano nella dottrina dell’equilibrio del terrore. Sulla questione delle armi nucleari, Reagan è stato il più radicale dei presidenti americani, anche di quelli democratici venuti prima e dopo di lui. Ha sempre creduto nella necessità di abolirle, non di ridurle o aumentarle per salvaguardare la pace. Per lui rappresentavano il più grande pericolo per il genere umano. Un male assoluto, come il comunismo sovietico, con il quale occorreva comunque convivere e trattare. Reagan viene ricordato come un combattente anticomunista, ma la sua carriera politica era iniziata nel 1945 con un discorso sulla pericolosità delle armi nucleari, e con una militanza pacifista nell’associazione mondiale federalista che si batteva per il governo universale. Il capo del suo staff ha scritto nelle sue memorie che ogni azione di Reagan in politica estera è stata compiuta con l’idea che un giorno ci si sarebbe seduti intorno a un tavolo di negoziato con il leader dell’Unione Sovietica e si sarebbero messe al bando le armi di distruzione di massa.[1]

L’accordo non fu firmato perché Gorbačëv subordinò la sua firma alla rinuncia da parte di Reagan al progetto dello Scudo spaziale, ma da allora in poi l’idea di un mondo senza armi nucleari è diventata una strada politico-diplomatica di praticabilità immediata. Appena eletto, Obama ha posto questo argomento come uno dei temi guida della sua presidenza, per poi abbandonarlo e passare alla storia come un presidente ambiguo e irresoluto. La liberazione dalla cappa di bugie in cui consiste l’inganno mediatico sul nucleare comporta il rilancio dell’idea di un mondo privo di ordigni atomici. La loro totale eliminazione è l’unica soluzione concreta al problema della proliferazione e della guerra nucleare. Questa è la soluzione che sta alla base – è bene ricordarlo – dello spirito e della lettera del Trattato di non proliferazione del 1970 (TNP). A Reykjavík, Reagan e Gorbačëv si muovevano su un terreno già arato. Il disarmo atomico totale era stato accettato dalla comunità internazionale sedici anni prima. L’articolo 6 del TNP è molto esplicito nel delineare anche il percorso da seguire per arrivare, «in modo inequivoco», al disarmo completo. Vale a dire alla fine dell’angoscia nucleare che perseguita l’umanità dalla Seconda guerra mondiale in poi. Il TNP è un tipico accordo multilaterale, un compromesso precario tra sovranità enormemente disuguali: cinque stati nucleari contrapposti a una massa di paesi che accettano di non dotarsi di ordigni atomici in cambio di tecnologia nucleare pacifica e di un impegno verso il disarmo generale.

Il Trattato di non proliferazione ha costituito fino a poco tempo fa uno dei successi più eclatanti del diritto internazionale. È stato firmato da 187 paesi, diventando l’accordo internazionale più condiviso dopo la Carta delle Nazioni unite. Le potenze non nucleari lo hanno diligentemente rispettato. È grazie a esso che i paesi dotati di armi atomiche sono rimasti cinque (Cina, Russia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito), più tre altri paesi che si sono rifiutati di firmare il TNP (India, Israele e Pakistan) e uno, la Corea del Nord, che ne è uscito nel 2003. Dozzine di altri stati potrebbero oggi possedere armi atomiche se non ci fossero all’opera gli impegni del TNP. Nel corso del tempo, il TNP ha spinto varie nazioni ad abbandonare le ambizioni di armamento nucleare. Parlo dell’Argentina, del Brasile, della Turchia, della Corea del Sud, di Taiwan, della Svezia, della Romania, della Iugoslavia e della Libia. Mentre altri quattro paesi che già possedevano gli ordigni atomici se ne sono sbarazzati. Parlo del Sudafrica, della Bielorussia, del Kazakistan e dell’Ucraina. Il TNP rende inoltre molto più difficile per i paesi non nucleari l’acquisizione delle tecnologie e dei materiali necessari per costruire ordigni atomici. E, anche nel caso in cui questi paesi decidano di farlo, il sistema dei controlli in vigore dopo il 1970 impedisce che ciò avvenga in modo clandestino. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di Vienna è il perno di un insieme di garanzie e di ispezioni che rendono molto ardua la diversione di tecnologia nucleare e di materiali a scopo bellico.

Ricordo un colloquio con il mio collega Hans Blix, direttore generale dell’AIEA, qualche anno prima della seconda invasione Usa dell’Iraq: «Disponiamo ormai di tecnologie che ci permettono di scoprire se un paese sta costruendo impianti nucleari segreti. Le analisi delle acque, per esempio, sono ormai l’equivalente delle analisi delle urine per gli umani. Saddam sta solo mettendo in piedi un bluff, facendo credere di avere armi che non ha». È la disinformazione dominante che ha diffuso per lungo tempo l’errata credenza di un Iran dotato di tecnologie nucleari belliche quasi pronte per essere usate. L’AIEA, corroborata dalle valutazioni dei principali servizi di sicurezza nazionali – Stati Uniti inclusi –, ha costantemente sostenuto il contrario. Uno dei suoi più prestigiosi direttori, Mohamed ElBaradei, non ha avuto remore nel dichiarare che gli esperimenti di arricchimento dell’uranio compiuti dall’Iran durante il suo mandato non costituivano una minaccia immediata alla sicurezza globale. L’esistenza del Trattato, e il sostegno a esso fornito dalla società civile mondiale, ha spinto la Russia e gli Stati Uniti verso la strada dei negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari strategici e l’approvazione della convenzione che proibisce gli esperimenti atomici, firmata nel 1996.   Il TNP, infine, ha spinto le potenze nucleari a rilasciare le cosiddette negative security assurances – vale a dire gli impegni a non usare ordigni nucleari contro i paesi non nuclearizzati che fanno parte del TNP–, riducendo così l’incentivo a procurarsi le bombe atomiche per ragioni di prestigio e di autodifesa.

Uno dei maggiori successi del Trattato di non proliferazione, però, è assai poco noto perché vittima dell’ignoranza prodotta dai padroni dell’informazione. Mi riferisco alla non proliferazione su base regionale. Pochi sanno che aree molto vaste del pianeta hanno negoziato accordi regionali di proibizione delle armi di distruzione di massa e dei missili di lunga gittata. Si tratta delle nuclear-weapons-free zones, le zone libere da armi nucleari, che comprendono ormai l’intero emisfero australe più ampie aree di quello boreale. Quasi tre miliardi di persone in centoventi paesi vivono entro un sistema di garanzie che riduce la possibilità di una corsa agli armamenti atomici e rafforza notevolmente il tabù nucleare. Il Trattato di Tlatelolco riguarda i Caraibi e l’intera America latina. Il Trattato di Rarotonga (firmato da quasi tutti i paesi del Pacifico meridionale, Australia e Nuova Zelanda incluse) interessa l’Oceania e il Trattato di Bangkok l’Asia meridionale. Mentre il passo indietro del Sudafrica post-apartheid rispetto al nucleare ha consentito di concludere, nel 1996, il Trattato di Pelindaba, che riguarda tutto il continente africano. Anche le cinque repubbliche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) hanno firmato nel 2009 un accordo che dà vita a un’area centroasiatica libera da armi atomiche. Il loro trattato contiene un impegno cogente verso il disarmo nucleare da parte di paesi che prima ospitavano ordigni nucleari sul loro territorio e che hanno vicini dotati di armi atomiche. Le cinque repubbliche centroasiatiche sono circondate dalle atomiche indiane, russe, cinesi, israeliane e pakistane, e ospitano basi militari russe e americane. Il loro accordo è un esempio potente di non proliferazione, e un antidoto alle tendenze più recenti della regione. Queste convenzioni regionali stanno ridando forza all’idea di sgomberare i Balcani e l’intera Europa dall’incubo nucleare, approfondendo il parallelo trend di declino delle spese militari convenzionali. Alle zone fin qui citate occorre aggiungere l’Antartide (demilitarizzata dal trattato del 1959), il fondo degli oceani – liberato dal rischio di diventare deposito di armi nucleari dal trattato del 1971 –, lo spazio extra-atmosferico e il territorio della Luna. È importante ricordare questi fatti oggi, quando gli agenti del grande inganno ci costringono a parlare di nuovo di armi atomiche, di obsolescenza degli accordi sul disarmo, di bombe parcheggiate nello spazio e di atomiche tattiche. È per queste ragioni che è importante tentare di costruire un mondo nel quale le minacce alla sicurezza umana continuino a decrescere. Un mondo nel quale non ci siano più ordigni atomici, e nel quale cessi il paradosso di una convenzione sulle armi chimiche e batteriologiche che le mette al bando in modo totale e un trattato sulle armi atomiche che non arriva alla loro integrale proibizione. Purtroppo, è questo il punto più debole del Trattato di non proliferazione: è stato rispettato dai paesi non nuclearizzati che lo hanno sottoscritto, ma non da quelli del club atomico. Gli stati nuclearizzati non hanno dato seguito all’articolo 6 e non hanno proceduto con il proprio disarmo. Le grandi potenze sono perciò poco credibili quando minacciano sanzioni contro i paesi che iniziano esperimenti poco chiari di arricchimento dell’uranio. I primi violatori del TNP sono proprio esse stesse. Ne discende che la sua forza deve essere attribuita ai fattori extrapolitici di crescita della pace e della solidarietà internazionale   più che alla volontà delle potenze atomiche. Le quali coincidono, guarda caso, con i membri permanenti del Consiglio di sicurezza ONU. Il cosiddetto «tabù nucleare», quindi, non è solo il prodotto della paura dell’annientamento atomico, ma l’espressione di una volontà positiva. E proprio nel momento in cui la mancata attuazione del TNP iniziava a essere accettata come un dato di fatto, è avvenuta una svolta radicale e di segno opposto, che i promotori dell’oscurità stanno tenendo nascosta il più possibile. Le forze del progresso umano hanno messo a segno un colpo importantissimo: nel luglio del 2017 122 paesi membri dell’ONU hanno approvato il testo di un nuovo trattato, che non è solo «di non proliferazione» ma di abolizione delle armi nucleari, rendendole finalmente illegali. L’iter che ha portato a questo risultato è iniziato nel 2010, ma le forze della disinformazione ne hanno taciuto l’esistenza fino all’ottobre del 2017, quando l’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), l’associazione che lo ha promosso, ha vinto il premio Nobel per la pace. Le potenze nucleari non hanno approvato il nuovo accordo, entrato comunque in vigore nel 2020 e ratificato ad oggi da 68 nazioni, tra cui quasi tutti i paesi dell’Africa e dell’America Latina, con la vistosa assenza dell’ Unione Europea: solo due dei 26 paesi EU, l’ Austria e  Malta, lo hanno finora adottato.  Ma erano davvero in pochi a pensare che si sarebbe arrivati così presto. Fino al punto che i due terzi degli stati del pianeta esprimessero formalmente, e in aperto contrasto con i poteri mondiali costituiti, la volontà di mettere fuorilegge gli strumenti della distruzione totale.

[1]          Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Paul Lettow, Ronald Reagan and His Quest to Abolish Nuclear Weapons, Random House, New York 2005; Jack F. Matlock Jr., Reagan and Gorbachev: How the Cold War Ended, Random House, New York 2005.

* da lafionda.org – 15 novembre 2022

12 novembre 2022

COP27, tutte le contraddizioni della ventisettesima conferenza sul clima

di Simone Valeri *

Ha avuto inizio domenica 6 novembre la ventisettesima Conferenza delle Parti sul Clima (COP27). Ad ospitarla l’Egitto, nella turisticamente attrezzata Sharm el-Sheikh. Il nuovo vertice internazionale sulle questioni climatiche durerà quasi due settimane per concludersi venerdì 18 novembre. A partecipare, i delegati di circa 200 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Questi, 196 per la precisione, in quanto aderenti all’Accordo di Parigi, avranno quindi l’obiettivo di provare a concretizzarne l’attuazione. Tra polemiche e speranze, i punti da discutere sono molti, così come lo sono le questioni spinose da risolvere. Alla cerimonia di introduzione diversi gli interventi tra cui, immancabilmente, quello del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guteress. «Il fallimento o il successo della COP27 – ha dichiarato il rappresentante dell’ONU – si misurerà su tre dimensioni. Il vertice deve essere il luogo in cui colmare il gap di ambizione, il gap di credibilità e il gap di solidarietà». Tre sfide indubbiamente rilevanti, peccato però che Guterres non abbia menzionato anche un certo ‘gap di coerenza’, caratteristica su cui effettivamente questa e le precedenti COP hanno dimostrato di avere più di una lacuna. 

Il luogo

Forti carenze in termini di coerenza emergono già a partire dalla sede scelta per il vertice. L’Egitto, anche tralasciando i continui affronti ai diritti umani perpetrati dal regime di al-Sisi, è infatti tutt’altro che un paese degno di ospitare una Conferenza dal tale significato. E tanto meno è un paese impegnato nella lotta alla crisi climatica. Non che le nazioni selezionate dall’ONU per le COP sul clima debbano necessariamente eccellere in sostenibilità, ma sarebbe quantomeno auspicabile che diano il buon esempio per gli sforzi messi in campo. La Terra dei Faraoni, dal canto suo, negli ultimi anni si è solo impegnata a convertirsi in una delle nuove potenze gasiere a livello globale. Complici le volontà del suo dittatore e il conflitto tra Russia e Ucraina, l’Egitto è riuscito a conquistarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere energetico regionale ed europeo. Le esportazioni egiziane di gas fossile sono infatti aumentate significativamente negli ultimi anni, fino a toccare quota 8 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022. Secondo le stime sono poi destinate a crescere ancora, guidate dalla ricerca disperata di nuovi approvvigionamenti da parte dell’Unione Europea e grazie soprattutto ai progetti realizzati dalla multinazionale italiana ENI. In Egitto, non a caso, si trova più del 20% delle riserve di gas del Cane a sei zampe – ha reso noto un documento dell’organizzazione ReCommon – “per una produzione annuale che si aggira intorno ai 15 miliardi di metri cubi di gas, ovvero circa il 30% della produzione globale di ENI e il 60% di quella egiziana”. In questo senso, la vera differenza per il colosso italiano e per i suoi affari con la Repubblica araba l’ha fatta, nel 2015, la scoperta del giacimento Zohr, a oggi la più grande riserva di gas del Mediterraneo. Giacimento che, nonostante alcune dichiarazioni di facciata sulla questione dell’omicidio di Giulio Regeni, ENI non ha mai smesso di sfruttare e far fruttare. Insomma, interessi del Cane a sei zampe a parte, l’Egitto pare proprio che abbia priorità ben diverse dal contribuire alla lotta alla crisi climatica. Tra queste, anche l’imprigionare gli attivisti ambientali. 

Chi partecipa

Il principale obiettivo di una COP sul clima è quello di garantire e concretizzare, di anno in anno, l’attuazione degli accordi fissati a Parigi nel 2015. Ovvero, assicurare che le temperature medie del globo non aumentino, nella migliore delle ipotesi, di oltre 1,5°C. Obiettivo che appare però sempre meno a portata di mano, anche e soprattutto alla luce degli inconcludenti risultati della COP26 di Glasgow. Evitare un’ulteriore accelerazione antropica del riscaldamento globale deve passare necessariamente da una drastica riduzione nelle emissioni di tutti quei gas in grado di schermare il calore amplificando il naturale effetto serra terrestre. Sul come farlo se ne sta parlando anche in questi giorni a Sharm el-Sheikh, tuttavia – e qui arriviamo ad una nuova contraddizione della COP27 – in assenza dei cosiddetti ‘grandi emettitori’. Alla 27esima Conferenza sul Clima mancano infatti i paesi che, da soli, emettono oltre il 43% delle emissioni globali di anidride carbonica. Stiamo parlando di Russia, Cina e India, tra le cinque nazioni in assoluto più impattanti sul clima insieme a Stati Uniti e Brasile. Come sia possibile, con questi presupposti, colmare il cosiddetto ‘gap di credibilità’ citato da Guteress non è dato saperlo. Ad oggi, Russia e Cina sono i Paesi con gli obiettivi meno ambiziosi per le emissioni nette zero, fissate al 2060 e al 2070 rispettivamente, mentre l’India, nonostante target più volenterosi, è comunque tra i maggiori emettitori. In sostanza, anche se dalla COP27 uscisse una qualche decisione rivoluzionaria in fatto di taglio alle emissioni, l’assenza di queste tre nazioni peserebbe comunque a tal punto da vanificare gran parte degli irrealistici impegni ipoteticamente presi. Fuori dai negoziati ha fatto invece discutere la decisione di includere la multinazionale Coca-Cola tra gli sponsor del vertice. Al riguardo, pronte le critiche delle associazioni ambientaliste, specie in virtù del fatto che il noto colosso statunitense è stato più volte descritto come il “più inquinante al mondo”. Coca-Cola produce infatti 120 miliardi di bottiglie di plastica usa e getta all’anno e il 99% dei polimeri, peggiorando sia la crisi della plastica che quella climatica, è prodotto con l’impiego di combustibili fossili.

Come partecipa

La probabilità che alla COP27 si arrivi a qualche accordo concreto è insomma tutt’altro che a favore del clima. Il motivo è semplice: anche chi partecipa sembra più determinato a fare discorsi di facciata infiocchettati di verde piuttosto che a cambiare realmente rotta. Tra il dire e il fare, infatti, qui ci passa più di un mare, e a confermare che la COP27 sia solo un’occasione per fare dello spudorato greenwashing politico e internazionale c’è più di un esempio. Basti pensare al crollo nel numero degli aderenti al Patto contro la deforestazione. Alla COP26 di Glasgow, 140 Paesi avevano promesso di eliminare la deforestazione dentro i propri confini entro il 2030. In questi giorni, alla COP27, bisognava passare dalle parole ai fatti. Tuttavia, non appena le azioni concrete da adottare sono state messe su carta, il numero di Paesi aderenti al Patto contro la deforestazione è calato vertiginosamente. Ora rimangono appena 25 Stati membri, i quali ospitano poco più di un terzo delle foreste globali. A tirarsi fuori anche Brasile e Congo, che ospitano sui loro territori quasi metà delle foreste tropicali del pianeta. Paradossali poi le trattative attorno alla delicata questione del sostegno ai paesi in via di sviluppo più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Prima ancora che la 27esima Conferenza sul Clima di Sharm el-Sheikh iniziasse ufficialmente, i delegati dei 196 Stati Membri hanno infatti passato una notte intera a discutere animatamente su questo punto fondamentale di giustizia e finanza climatica. Per la prima volta, anche in questo caso dopo Glasgow, la questione ha trovato spazio nel documento ufficiale, nel capitolo Loss&Damage. Capitolo che, tuttavia, alcuni delegati pare abbiano tentato di lasciar fuori dall’agenda 2022 di modo da evitare di trattare il tema o, comunque, di rimandarlo. Tentativo che, sebbene andato fortunatamente a vuoto, la dice lunga sui reali propositi dei partecipanti al vertice sul clima. Dovrebbe poi quantomeno far riflettere la modalità con cui molti rappresentanti delle nazioni siglanti l’Accordo di Parigi hanno scelto di raggiungere Sharm. Per dimostrare il proprio impegno climatico, molti politici e autorità internazionali hanno infatti scelto di raggiungere la sede della Conferenza nel modo più inquinante possibile, ovvero a bordo dei propri jet privati. E l’hanno fatto al pari dello scorso anno, quando almeno 400 di questi mezzi hanno raggiunto la sede scozzese della COP26. Un jet privato emette da 5 a 15 volte in più per passeggero rispetto a un aereo commerciale e fino a 50 volte in più rispetto a un treno, ma non dovrebbe sorprendere, che la coerenza non fosse di casa alla COP si era già capito da un pezzo. In ultimo, come esempio lampante di greenwashing politico, va citato l’illuminante discorso della neo-premier italiana Giorgia Meloni. Quasi venti minuti di intervento dove si è ribadito l’impegno dello Stivale nel promuovere la transizione ecologica ed energetica e, nel complesso, lo sviluppo sostenibile. Perché d’altronde – come ha affermato sempre la Presidente del Consiglio chiedendo la fiducia alla Camera – «non c’è ecologista più convinto di un conservatore». Peccato che, poche settimane dopo il suo insediamento, e qualche giorno prima del suo discorso ‘green’ alla COP27, il Governo a guida Meloni abbia proposto l’espansione del perimetro di estrazione di gas per le società petrolifere. Secondo la norma, nel mar Adriatico, si potrà trivellare già a partire da 9 miglia dalla costa, in barba ad ogni misura di tutela ambientale e di lotta al cambiamento climatico. D’altra parte, che la sicurezza energetica fosse la priorità per il nuovo Governo di destra è stato tuttavia chiaro fin dall’inizio. Un segnale già evidente nella rinnovata denominazione del dicastero dedicato all’ambiente e coerente con le scelte politiche di buona parte dei paesi industrializzati e non. Perché, in fondo, c’è sempre un’emergenza più rilevante di quella ambientale. E a ricordarlo, paradossalmente, c’è proprio quella che dovrebbe essere la principale Conferenza internazionale per la risoluzione della crisi climatica. 

* da www.lindipendente.online – 10 novembre 2022


6 novembre 2022

Trivelle, il governo Meloni da via libera a nuove concessioni nell’Adriatico

di Valeria Casolaro*

Il governo Meloni studia la maniera di far fronte all’emergenza energetica e propone come soluzione uno scambio: energia a prezzi calmierati per le aziende maggiormente “gasivore”, ma concessione dell’espansione del perimetro di estrazione per le società estrattive. Così, nel mar Adriatico, si potrà estrarre il gas a partire da 9 miglia dalla costa. La norma, approvata in sede di Consiglio dei ministri, sarà inserita sotto forma di emendamento al decreto Aiuti ter, al vaglio del Parlamento la prossima settimana.

La misura, ha spiegato Meloni in conferenza stampa, “riguarda la possibilità di liberare alcune estrazioni di gas italiano facilitando le concessioni in essere e immaginandone di nuove“. In cambio, i concessionari dovranno mettere a disposizione delle aziende più energivore, a partire dal 1° gennaio prossimo, uno o due miliardi di metri cubi di gas a prezzi calmierati, tra tra i 50 e i 100 euro al megawattora. Secondo le stime del governo, in questo modo il fabbisogno delle aziende più “gasivore”, come quelle della ceramica e del vetro, dovrebbe essere soddisfatto almeno per il 75% dei volumi potenziali. Le aziende che beneficeranno di questa misura dovrebbero essere in tutto 150, per un terzo piccole e medie imprese. L’obiettivo del governo è raddoppiare l’estrazione del gas metano, equivalente a 3,3 miliardi di metri cubi nel 2021 a fronte di 70 miliardi consumati, per poter “raggiungere quella sicurezza energetica che è un obiettivo strategico per l’Italia”, come dichiarato dal viceministro dell’Ambiente Vannia Gava.

Così, le trivelle potranno scavare alla ricerca di nuove scorte di gas, a partire da sole 9 miglia dalle coste adriatiche. Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha specificato che l’autorizzazione viene concessa “da giacimenti nazionali che abbiano una capacità superiore a 500 milioni di metri cubi, quindi grandi, per evitare una proliferazione”, specificando che “tutto questo deve avvenire al di sotto del 45° parallelo, con l’unica eccezione del ramo Goro del fiume Po”. La porzione di terreno resa disponibile, quindi, corrisponde all’Alto Adriatico (dove le attività estrattive erano vietate da 30 anni), con l’esclusione del bacino di fronte a Venezia. Prevista, inoltre, la riapertura delle attività, comprese quelle di ricerca anche all’interno delle zone protette non ancora esistenti ma da costituire secondo quanto disposto dal Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pietsai).

Secondo le stime del ministero della Transizione ecologica, in Italia vi sarebbero almeno 39,8 miliardi di metri cubi di riserve di gas “certe” e con una probabilità di almeno il 90% di essere “commercialmente prodotte”, mentre 44,5 i miliardi metri cubi di gas sono “probabili” ed estraibili con una probabilità del 50% ed è quasi irrisoria la possibilità di estrazione delle risorse “possibili” (all’incirca 26,7 miliardi di metri cubi). Secondo l’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa, tuttavia, il decreto “sblocca trivelle” costituisce una manovra insensata, in quanto anche se le autorizzazioni arrivassero subito il combustibile non sarebbe utilizzabile prima di molti mesi. “Se anche estraessimo tutto il gas dai pozzi italiani copriremmo il fabbisogno nazionale di circa due anni” prima di ritrovarsi da capo “ma con un territorio distrutto” ha dichiarato. Immediate anche le proteste degli ambientalisti: tra questi, il presidente di Legambiente Stefano Ciafani ha definito “ridicole” le quantità disponibili tra riserve probabili e certe, in quanto “se le dovessimo estrarre tutte con uno schiocco di dita le esauriremmo in quindici mesi”.

* da  lindipendente.online 5 novembre 2022