19 giugno 2018

Afrin: Le donne curde protestano dopo che hanno detto loro di indossare la hijab


di Patrick Cockburn *

I miliziani jihadisti appoggiati dalla Turchia, che hanno preso il controllo dell’enclave curda di Afrin nella Siria settentrionale, nel marzo di quest’anno, avevano appeso dei manifesti che riportavano istruzioni sull’ubbidienza alla legge islamica (la sharia). I manifesti hanno innescato rabbiose proteste nelle strade da parte dei Curdi che sono per la maggior parte musulmani, ma che hanno una tradizione laica e che sono rimasti ad Afrin fin dall’invasione dell’esercito turco e dei miliziani siriani, spesso membri di gruppi jihadisti, dei quali l’Isis ed al-Qaeda sono gli esempi estremi. I manifesti sono stati tolti pochi giorni dopo dalla polizia militare turca, ma sono soltanto il segnale più recente della pressione sulle donne curde da parte degli jihadisti per far accettare il loro status di second’ordine e di indossare la hijab (il velo) o il niqab (velo che copre la donna, dalla testa ai piedi)**

Gulistan, una insegnante di Afrin di 46 anni, ha detto a The Independent che lo scopo di quella che descriveva come “la campagna per portare l’hijab”, è di costringere le donne a stare in casa e a non prendere parte alla vita pubblica come le donne curde sono state in grado di fare tradizionalmente. “Soltanto perché indosso i jeans, sento sempre parole come “puttana, miscredente, cane di Assad e degli Sciiti, pronunciate dagli stranieri in strada,” dice. “Un gruppo di donne ha tenuto veglie di protesta per chiedere la rimozione dei manifesti,” aggiunge, spiegando che portare il niqab è un’abitudine sociale più che religiosa e non fa parte della tradizione curda.
La richiesta che le donne curde, che sono per lo più Musulmane sunnite, portino la hijab o il niqab, arriva dai miliziani arabi e dai coloni con analoghe convinzioni fondamentalista islamiche, che sono state costrette ad andarsene dalla Goutha orientale da un’offensiva del governo siriano A quanto si dice, 35.000, si sono presi le case di proprietà dei Curdi e la terra abbandonata da circa 150.000 Curdi, fuggiti dall’invasione turca che è iniziata il 20 gennaio ed è terminata con la presa della città di Afrin il 18 marzo. Le Nazioni Unite dicono che si stima  che 143.000 Curdi siano rimasti nell’enclave.

Bave Misto, un agricoltore di 65 anni della città di Bulbul, a nord della città di Afrin, conferma che i Curdi sono sotto pressione per far loro abbandonare le pratiche laiche. La sua famiglia è una delle meno di 100 famiglie curde che restano a Bulbul, in confronto delle 600 che c’erano prima dell’invasione. Dice che soltanto alle persone anziane viene ora permesso di ritornare nelle loro case, e che i miliziani arabi che dicono di appartenere all’Esercito Siriano Libero, stanno vietando agli uomini giovani e alle donne di fare questo. Bave Misto dice che i miliziani stanno facendo appello agli abitanti curdi di Bulbul di frequentare la moschea, e le famiglie arabe trasferite da Damasco e da Idlib pregano lì cinque volte al giorno e “chiedono alle nostre donne di mettersi la hijab”. Uno dei suoi nuovi vicini, Abu Mohammad, di Goutha est,  ha detto a Bave Misto di convincere sua moglie a mettere la hijab, dicendo: “E’ meglio per questa vita e per la sua vita nell’aldilà.”

Molti Curdi ad Afrin sospettano che l’attuazione delle norma sociali fondamentaliste islamiche riguardo ai Curdi laici, è previsto per incoraggiare la pulizia etnica dei Curdi di Afrin. Durante l’invasione varie unità della milizia araba si sono filmati mentre scandivano slogan settati anti-curdi, usati comunemente dall’Isia e da al-Qaida. I Curdi che vivono ad Afrin affrontano difficoltà estreme per guadagnarsi da vivere. Il Signor Misto ha un piccolo campo alla periferia di Bulbul, nel quale ci sono alberi di ulivo e di ciliegie, ma quando ha cercato di entrarvi, gli è stato detto dai miliziani arabi che era pieno di mine messe dal PKK (l’organizzazione curda turca, chiamata Partito dei Lavoratori del Kurdistan), anche se il Signor Misto era scettico circa questa informazione, perché i miliziani vi facevano pascolare il bestiame. Il Signor Misto è stato in grado di recuperare la sua casa da una famiglia araba che se ne era impossessata con l’aiuto della polizia locale, con a capo un turco, Questa potrebbe essere un’indicazione delle divisioni tra le diverse parti dell’Esercito Siriano Libero che è un’organizzazione ombrello, sul modo di trattare i Curdi e se confiscare la loro proprietà oppure no.

L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), di base nel Regno Unito, riferisce che Ahrar al-Sham, un movimento jihadista strettamente alleato con la Turchia, ha sfrattato, sotto la minaccia delle armi, sette famiglie di persone rimosse dalla Ghouta orientale, che avevano abitato in case di Afrin, perché insistevano a pagare l’affitto ai proprietari curdi. Le persone trasferite dalla Ghouta che sono state portate  in convogli  ad Afrin, hanno detto che loro stesse erano state sfrattate dalle loro case dal governo siriano, ma che non pensavano fosse giusto prendere le case di altri. Il SOHR dice che Ahrar al-Sham ha minacciato di imprigionare le persone evacuate dalla zona est della Ghouta se tornano nelle case che avevano affittato, con l’accusa di “trattare con le forze siriane”. Anche se ad Afrin c’è una sporadica attività di guerriglia da parte delle Unità di Protezione Popolare  curde, è improbabile che i cambiamenti demografici accaduti dopo l’invasione turca, saranno annullati. Gulistan dice che la vita per i Curdi che sono rimasti nell’enclave è cronicamente non sicura perché sono alla mercé di gruppi come Ahrar al-Sham. Dice che suo zio ha un negozio di alimentari, ma che è pesantemente tassato dalle milizie che spesso comprano la merce senza pagarla. Quando si è rivolto alla polizia, i miliziani lo hanno maltrattato ancora di più. Gulistan dice che uno dei suoi vicini è stato rapito tre settimane fa e che sua moglie e suo fratello hanno ricevuto la richiesta di 50.000 dollari di riscatto per la sua liberazione. Il SOHR conferma che ci sono saccheggi e combattimenti tra le fazioni della milizia, e che un ufficiale curdo è stato torturato a morte.

* da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo  - www.znetitaly.org 18 giugno 2018
Originale:  The Independent - Traduzione di Maria Chiara Starace

18 giugno 2018

Grande Muraglia Verde: una frontiera contro la desertificazione in Africa



La Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità 2018 è l’occasione per scoprire l’ambizioso progetto che coinvolge 20 paesi africani della regione sahelo-sahariana

La storia ci ha abituato a muri fatti per dividere e difendere, per separare ciò che dovrebbe e potrebbe stare insieme, ma la Grande Muraglia Verde che sta nascendo in Africa non ha nulla a che fare con quella cinese eretta dell’imperatore Qin Shi Huang, con i muri costruiti nel secolo scorso o con le barriere innalzate in tempi più recenti nel maldestro e anacronistico tentativo di arginare i flussi migratori. Già perché il progetto della Great Green Wall for the Sahara and Sahel Initiative che coinvolge 20 paesi della regione sahelo-sahariana (Algeria, Burkina Faso, Benin, Ciad, Capo Verde, Gibuti, Egitto, Eritrea, Etiopia, Ghana, Libia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan, Gambia, Tunisia) ha come principale obiettivo la lotta ai cambiamenti climatici e alla desertificazione.



Nei territori della fascia sahariana e saheliana a vocazione agro-silvo-pastorale lo sviluppo socio-economico, la sicurezza alimentare e i bisogni alimentari sono fortemente connessi alla disponibilità di risorse naturali (terre arabili, risorse idriche, forestali e pastorali) e ai modi di gestione delle stesse. Il progetto della Grande Muraglia Verde è nato per contrastare gli effetti della desertificazione, della variabilità climatica e della pressione antropica in atto nel Sahel da decenni. Dall’idea di partenza – creare una barriera di alberi – il progetto della Grande Muraglia Verde si è evoluto in una pianificazione di più ampio respiro finalizzata al rafforzamento degli ecosistemi della regione, alla protezione del patrimonio rurale e al miglioramento della sicurezza alimentare e delle condizioni di vita della popolazione dei Paesi coinvolti. Il primo a ipotizzare la creazione di una barriera verde nell’Africa sub-sahariana fu l’ambientalista Richard St. Barbe Baker: nel 1952, durante una spedizione nel Sahara, propose la creazione di una fascia verde di 50 km in opposizione all’avanzata del deserto. Per mezzo secolo l’idea visionaria di St. Barbe Baker rimase lettera morta. Nel 2002, al summit straordinario tenutosi a N’Djamena, in Ciad, l’idea è stata riproposta in occasione della Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità che, come oggi, si celebra ogni 17 giugno. Tre anni dopo, alla Conferenza dei capi di Stato e di Governo della Comunità degli stati del Sahel e del Sahara tenutasi l’1 e il 2 giugno 2005 a Ouagadougou (Burkina Faso), il progetto è stato finalmente approvato.
La Grande Muraglia Verde è, senza ombra di dubbio, il più ambizioso progetto di contrasto alla desertificazione al mondo: con i suoi 8000 km è qualcosa di più di un semplice impianto di alberi. Gli obiettivi potrebbero essere riassunti in sette punti: 1) sviluppare un territorio fertile, 2) migliorare la sicurezza alimentare delle popolazioni africane, 3) sviluppare i lavori “green”, 4) ridurre le ragioni che costringono le popolazioni africane a migrare, 5) aumentare le opportunità di business e delle imprese commerciali, 6) proporre un simbolo di pace in un contesto in cui i conflitti smembrano le comunità, 7) aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici in un’area in cui ci si attende che le temperature aumentino più rapidamente che in qualsiasi altro luogo sulla Terra. Il progetto è sicuramente molto ambizioso e per raggiungerlo si stanno applicando le più moderne tecniche di captazione e distribuzione delle risorse idriche.

Nel 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite si sono accordati per includere fra gli obiettivi dello sviluppo sostenibile iniziative volte a ridurre e invertire i processi di desertificazione. Anche in Cina si sta lavorando a una Grande Muraglia Verde per arginare l’espansione del deserto del Gobi cresciuto, dal 1950 a oggi, di un milione di chilometri quadrati (una superficie superiore a quella di Francia e Italia). Attualmente le terre aride rappresentano il 40% della superficie delle terre emerse, interessano più di 100 Paesi e ospitano 2,3 miliardi di persone. Progetti analoghi a quelli di Africa e Cina sono attualmente in atto in Cile, Perù, Colombia, Madagascar, Sri Lanka, Thailandia e Cambogia. Un paradosso se si pensa alle deforestazioni in atto in Amazzonia, Argentina e Indonesia per far posto a monocolture come quella della soia e delle palme da olio. Recuperare aree desertificate come quella della Grande Muraglia Verde significa assorbire carbonio, ricostruire la biodiversità e gli equilibri idrici, l’agricoltura e i mercati, in poche parole creare i presupposti perché la gente non debba abbandonare la propria terra e mettersi in viaggio verso luoghi più accoglienti e un futuro migliore.

Pubblicato il 17 giugno 2018 in Agricoltura|Biodiversità


17 giugno 2018

Tor di Balle


Marco Travaglio in questo articolo spiega la situazione reale sullo stadio della Roma 

di Marco Travaglio *

Siccome siamo abituati a dare tutte le notizie e a ricevere lezioni dai giornali che ne danno soltanto qualcuna, quelle che fanno comodo agli amici e agli amici degli amici, ieri abbiamo cercato sugli altri quotidiani, nelle molte pagine dedicate all’ultima retata romana, uno straccio di titolo con le parole “Sala” (sindaco di Milano), “Pd” (Partito democratico), “E yu ” (una fondazione del Pd): sono fra i destinatari dei finanziamenti del costruttore arrestato Parnasi, insieme alla onlus leghista Più Voci e a un paio di esponenti capitolini di FI, mentre il consulente M5S Lanzalone s’è fatto promettere incarichi professionali, un consigliere regionale Pd l’assunzione del figlio, il presidente del Coni Malagò quella dell’aspirante genero e un consigliere M5S un progetto gratuito per il lungomare di Ostia (non per casa sua).

Ma niente: su Sala, Pd ed Eyu, zero tituli.
Incredibilmente il Corriere, citando Eyu, apre parentesi e scrive: “probabilmente una fondazione”, senza dire di chi è.
Eppure basta digitarla su Google per scoprire che è presieduta dal tesoriere renziano Francesco Bonifazi.
Quanto a Sala, il suo nome andava cercato col lanternino nelle trascrizioni dei carabinieri, perché nell’informativa e nell’ordinanza del gip le frasi del palazzinaro arrestato sul finanziamento elettorale al sindaco di Milano e sui affettuosi ringraziamenti di quest’ultimo (“sono gratissimo a Luca, senza Luca non facevo la corsa elettorale ”) erano coperte da “omissis” e dagli “inc.” (incom prensibile).
Meglio così, sennò Repubblica non potrebbe chiedere le dimissioni della Raggi (che non ha preso un euro, non è indagata né sospettata di nulla, ma sarebbe colpevole di una non meglio precisata “responsabilità oggettiva”) e non di Sala (che ha preso 50mila euro da un costruttore che voleva edificare lo stadio del Milan e gliene aveva pure parlato).
E tutta l’orchestra dei giornaloni&giornaletti non potrebbe intonare a edicole unificate la canzonetta farlocca delle “tangenti ai 5 Stelle”, del “sistema Raggi”, del “Di Maio sotto accusa” e del “così fan tutti”.

Se andasse ancora di moda la bella abitudine di leggere le carte e possibilmente di capirle, tutti si sarebbero accorti del granchio in cui sono incappati il primo giorno, aiutati a sbagliare dagli omissis dei magistrati e dagli “inc.” dei carabinieri (altro che Scafarto!): il “manifesto programmatico” citato dal gip per descrivere il sistema corruttivo di Parnasi non riguardava lo stadio della Roma, ma i soldi stanziati e/o versati alla onlus leghista, alla fondazione Pd e al sindaco Sala per oliare le ruote in vista del nuovo stadio del Milan
L’unico personaggio vicino ai 5Stelle che abbia avuto vantaggi da Parnasi è l’avvocato Lanzalone, ex presidente di Acea e subito fatto dimettere da Di Maio non tanto per l’accusa di corruzione tutta da verificare, ma per condotte che fin da subito l’hanno posto in conflitto d’interessi (se consigli una giunta a mediare con un costruttore, poi non accetti incarichi da lui).
Al momento, a leggere le carte, l’unica forza politica che non ha avuto un euro da Parnasi sono i 5Stelle. E chi dice che sono come gli altri dovrebbe spiegare come mai, allora, Lanzalone è stato dimissionato in barba alla (a loro) tanto cara “presunzione di innocenza fino a condanna in Cassazione”, mentre la Boschi (in palese conflitto d’interessi con banca Etruria), Lotti (indagato per Consip) e altri inquisiti restarono nel governo Gentiloni fino all’ultimo.
Basta un po’ di memoria storica per smentire anche la favoletta della giunta Raggi succube del duo Lanzalone-Parnasi.

Se avesse voluto fare un favore al palazzinaro, alla Raggi sarebbe bastato stare ferma e lasciar procedere l’iter dello stadio deliberato dal sindaco Pd Marino e dal governatore Pd Zingaretti.
Invece la Raggi intimò a Parnasi di dimezzare le cubature, eliminando le due torri e le speculazioni circostanti, pena l’annullamento: bel modo di favorire Parnasi. Lì arrivò Lanzalone, per seguire gli aspetti legali di quel ginepraio (le probabili penali da pagare in caso di niet), reduce dalla buona prova fornita a Livorno con la municipalizzata dei rifiuti.
Infatti diede buona prova anche sullo stadio, con un compromesso che salvava l’opera e tagliava il 50% di cubature, quelle speculative (come promesso in campagna elettorale dal M5S).
Poi fu nominato presidente di Acea.

Ora si scopre (dalle intercettazioni) che accettò incarichi per 100mila euro da Parnasi: se qualcuno ha le prove che Raggi o Di Maio lo sapevano, le tiri fuori. Altrimenti il discorso si chiude con le sue dimissioni. Agli smemorati di Tor di Valle si iscrive anche l’ex assessore Paolo Berdini, che va raccontando in giro – e persino a verbale dinanzi ai pm - di essere stato cacciato perché contrario allo stadio.
Doppia balla.
Berdini non fu cacciato, ma si dimise per aver perso la fiducia della Raggi, offendendola come donna e come sindaca: negò di aver parlato con La Stampa e ne fu subito sbugiardato con un video che lo ritraeva mentre istigava un cronista a scrivere che la Raggi era l’amante di Salvatore Romeo e si proponeva come informatore occulto contro di lei.

È falso anche che fosse contrario allo stadio di Parnasi. Il 23.10.2016, a Radio Roma Capitale, Berdini dichiarò: “Il piano regolatore permette una cubatura aggiuntiva che è già di per sé imponente. Io su quella cifra non muoverò una virgola, sono il tutore del rispetto delle regole. Se la Roma accetterà queste regole, ben vengano investimenti privati. Sono contrario all’aumento di volumetrie spaventoso dato dalla giunta Marino in cambio di opere pubbliche... Ci sarà tutto il tempo per discutere se è giusto accettare delle inutili opere pubbliche o è meglio cancellarle e costruire solo lo stadio”.

Esattamente ciò che fecero la Raggi e Lanzalone.
Ohibò.


* da: Il Fatto Quotidiano di sabato 16 giugno 2018