31 dicembre 2016

Mobilità urbana: l’Europa viaggia sempre più su ferro. Città italiane ferme al palo



In Italia 235,9 km di metropolitana, a Madrid 291,5, a Londra 464
Nel 2016 solo 4,5 km di metropolitane: a Roma ci vorranno 80 anni per recuperare il gap con le altre città Ue

Il secondo appuntamento con Pendolaria 2016, la campagna di Legambiente dedicata al trasporto pendolare, fa il bilancio di fine anno –  che è anche tempo di emergenza smog – il punto sulla mobilità urbana in Italia. Il nuovo dossier di Pendolaria «mette a confronto le dotazioni infrastrutturali nelle città europee, determinanti per la qualità dell’aria ma anche per la qualità della vita dei cittadini» e il risultato  è tutt’altro che confortante: «Il Belpaese infatti, risulta terribilmente arretrato in termini di infrastrutture di trasporto su ferro rispetto al resto d’Europa: siamo sotto del 50% rispetto alla media europea per metropolitane e tramvie, e al 51% per le ferrovie suburbane». Il 2016 si chiude con la realizzazione di soli 4,5 chilometri di linee metropolitane, grazie a due prolungamenti a Milano e Catania (nel 2015 erano stati inaugurati 6,9 km di metro a Roma e 7,4 a Milano) e di 17 chilometri di tramvie (tutti a Palermo). «In totale – si legge nel rapporto – sono in esercizio in Italia 235,9 km di rete metropolitana, distribuite tra 14 aree urbane. La città con la rete più estesa è Milano, seguita da Roma, poi Napoli, Brescia, Torino, Genova e Catania». Il paragone con le metropoli europee è umiliante: 291,5 km a Madrid, 464,2 Km a Londra,  219,5 km a Parigi…

Pendolaria evidenzia che «Linee di tram sono invece presenti in 10 città italiane per un totale di 336,1 km, tra Milano, Torino, Roma, Venezia, Palermo, Bergamo, Napoli, Padova, Messina e Firenze. In 12 città troviamo invece le linee ferroviarie suburbane pendolari, con la rete più estesa a Roma, cui seguono Milano, Napoli, Torino, Bari, Palermo, Bologna, Genova, Cagliari, Salerno, Sassari e Catania. In totale si tratta di 679,3 km distribuiti su 14 linee». Anche qui, la situazione negli altri Paesi avanzati dell’Ue fa capire quanto siamo indietro: in Germania ci sono 2.038,2 km di suburbane, In Gran Bretagna 1.694,8 km, in Spana 1.432,2.

Se il contesto attuale è deprimente le prospettive future non sono migliori: «Anche qui, nessuna luce all’orizzonte – dicono a Legambiente – Pochi i progetti finanziati dal Governo e i cantieri aperti. Roma nel 2016 non ha visto inaugurare alcun tratto di metro o linee di tram e, al momento, l’unico progetto finanziato riguarda il prolungamento (3,6 km) della metro C fino a Colosseo. Peggiore è la situazione che riguarda i tram: nessun cantiere aperto e nessun progetto di prolungamento finanziato. Se si continuerà con questi ritmi nei cantieri delle metro impiegheremmo 80 anni per recuperare la distanza dalle altre città europee (in termini di km di metropolitane ogni 1.000 abitanti). Ovviamente senza considerare aumento di popolazione e crescita delle infrastrutture in tutte le altre città. Migliore situazione a Milano, che vanta la più alta dotazione di metro in Italia e perché sono in costruzione altri 17 chilometri. Eppure anche qui per raggiungere la dotazione media di una città europea, con i ritmi previsti dai finanziamenti, occorreranno altri 15 anni, sempre a parità di popolazione ed infrastrutture nelle altre città europee. A Napoli sono in costruzione 6,9 km di nuove metropolitane, ma qui il tempo che ci vorrebbe per raggiungere la media europea, con questi ritmi, è di circa 70 anni. In positivo, però, vanno segnalate Firenze, dove si è deciso di puntare sui tram per cui ai 7,4 chilometri in esercizio se ne aggiungeranno nei prossimi anni altri 10,8 creando un servizio a rete utile a cambiare la mobilità nella città, e Palermo, che ha inaugurato 4 linee di tram per complessivi 17 chilometri e prevede di realizzarne altri 29, integrati con la realizzazione dell’anello e del passante ferroviario».
Il vicepresidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, ricorda che «Il ritardo infrastrutturale italiano rispetto agli altri Paesi europei è un tema che ha caratterizzato il dibattito politico degli ultimi venti anni Ma nella spinta a rilanciare i cantieri che ha contraddistinto tutti i Governi, si è persa di vista una analisi seria che riguardasse le città, dove è più forte la domanda di mobilità e dove invece si evidenzia proprio il ritardo più forte in termini di dotazione di trasporto su ferro rispetto al resto d’Europa. Occorre dare una speranza a chi vive nelle città italiane, di non dover aspettare decenni prima di vedere un cambiamento nella mobilità e quindi nella qualità della vita». Per Legambiente, «La grande sfida infrastrutturale per il nostro Paese sta nel ridurre la distanza dall’Europa in termini di dotazioni infrastrutturali su ferro nel minor tempo possibile. Serve un progetto per realizzare nelle principali città almeno 25 km all’anno di linee metropolitane nei prossimi 10 anni, per raggiungere la media europea, e 25 di linee tramviarie. Una svolta che consenta in una città come Roma di realizzare almeno 9 km all’anno nei prossimi 10 anni, per raggiungere, ad esempio, la media di dotazione di metro ogni 1.000 abitanti di Berlino».

Il rapporto evidenzia la grande “contraddizione” italiana: «Evidentemente le città continuano ad avere un ruolo marginale nella programmazione delle risorse per i prossimi anni. La parte del leone continuano a farla gli investimenti autostradali da parte dei concessionari, quelli stradali di Anas e i grandi progetti ferroviari (completamento dell’alta velocità e tunnel alpini). Nel piano delle 25 opere prioritarie del Governo, dal costo di 90,1 miliardi di euro, quelle per il potenziamento del trasporto ferroviario metropolitano nelle grandi città sono 8 per un costo complessivo di 14,9 miliardi di euro. Mentre per le opere stradali sono previsti 28,4 miliardi di euro, e per l’Alta velocità 41,4 miliardi di euro. Invece sono solo 1,3 i miliardi di euro per le nuove metropolitane, cioè per il completamento dei progetti in corso a Torino, Milano, Napoli, Catania, Palermo. Stessa impostazione nella delibera Cipe che a Dicembre ha distribuito 11,5 miliardi di fondi europei FSC 2014-2020. E anche nella Legge di stabilità, il nuovo Fondo investimenti infrastrutture, che prevede una dotazione di 1,9 miliardi nel 2017 e risorse fino al 2032 per complessivi 47,5 miliardi mette assieme investimenti di ogni tipo (trasporti e viabilità, infrastrutture idriche, edilizia pubblica, ecc.). Purtroppo continua a non esserci la consapevolezza di come gli investimenti nelle città debbano essere prioritari e non confondersi con gli altri cantieri. Altrimenti, come già avvenuto in questi anni, il ritardo rispetto al resto d’Europa non potrà che aumentare e a pagarne le conseguenze saranno i cittadini italiani». A differenza dell’Italia, negli altri Paesi europei esiste una programmazione pluriennale per le politiche di investimento nelle città, con una struttura di coordinamento statale che accompagna i Comuni nella definizione delle priorità di investimento e poi nella fase di cantiere per verificare l’attuazione.
Zanchini conclude: «Eppure, nel bilancio dello Stato le risorse per realizzare un salto di qualità nell’offerta di trasporto pubblico nelle città italiane, ci sono. I trasporti e le infrastrutture sono una voce rilevante del bilancio dello Stato: oltre 800 miliardi di Euro all’anno che bisogna investire in maniera più intelligente, destinando il 50% degli investimenti infrastrutturali alle città; spostando gli investimenti dalla strada alle città e orientando quelli previsti da RFI prioritariamente nei nodi urbani. Le risorse ci sono, quello che manca è un progetto che punti a realizzare decine di chilometri ogni anno di metropolitane, tram, ferrovie suburbane. I vantaggi sarebbero evidenti in termini di riduzione dell’inquinamento ma anche di qualità della vita per milioni di persone che potrebbero lasciare a casa l’auto, con risparmio anche sulla spesa familiare, e di possibilità di riqualificazione intorno alle stazioni del trasporto su ferro».

da greenreport.it, 29 dicembre 2016

29 dicembre 2016

Perché dalla Nigeria?



di Sara Bin * 

Tanti, ma quanti?” I numeri ci dicono poco nel senso che attorno ad ognuno di essi c’è un mondo poco noto. Non conosciamo ciò che sta dietro, davanti, in parte e il numero rischia di diventare un buco nero nel vuoto della non conoscenza, perdendo anche il suo significato o assumendone uno distorto o infedele. Forse non basterà raccontare un po’ di più il contesto sempre plurale che li ha fatti nascere, ma vale la pena prendere in mano la Storia, le storie, per guardare oltre il qui ed ora e intendere un po’ di più la complessità.

La domanda in questione è “perché così tanti nigeriani”? Ci si riferisce alle persone di cittadinanza nigeriana presenti nei centri di accoglienza italiani oggi. In realtà è chiaro che, se in un solo luogo, la presenza è del 70% sul totale degli ospiti, l’impressione di chi quel luogo lo abita è che “tutti” i nigeriani stiano arrivando lì e per approssimata generalizzazione in Italia.

Quanti sono?”, “cosa vogliono?” Dal 1° gennaio al 30 novembre 2016, secondo i dati forniti dal cruscotto statistico giornaliero del Ministero dell’Interno, i nigeriani approdati in Italia sono 35.740. Hanno superato gli eritrei che fino al 2015 erano la nazionalità più numerosa: al 31 dicembre 2015, 38.612 ed oggi 20.002. Possiamo dire che i due Paesi si sono scambiati di posto nella classifica degli arrivi via mare. È noto che gli eritrei non scelgano di rimanere in Italia, ma decidano di proseguire il loro viaggio oltralpe come pure i somali e i sudanesi che si trovano al terzo e al quarto posto della “classifica 2016” degli approdi. Seguono gambiani, siriani, maliani, senegalesi e bangladesi, ma siamo sotto le 10.000 persone per paese di provenienza. Con questi numeri è chiaro che statisticamente la probabilità di ospitare una persona di origine nigeriana è molto elevata.
È a questo punto che interviene la voglia di capire cosa stia accadendo, quali scelte vengano compiute lungo le rotte, chi siano le persone che si spostano e quali siano le storie che li accompagnano nel lungo viaggio di tre/quattro mila chilometri. Dalle grandi città nigeriane come Lagos e Benin City, dove molti non sono nati, ma giunti alla ricerca di un lavoro che le zone rurali del paese non hanno saputo offrire loro, arrivano in Libia, passando per il Niger e valicando quell’immensa frontiera che è il deserto sahariano.

La Nigeria, quasi un milione di chilometri quadrati e una popolazione che supera i 170 milioni di abitanti, è uno stato federale, complesso, diverso, ingovernabile da Abuja per Muhammadu Buhari, presidente da fine maggio 2015. Secondo i dati ufficiali dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, alla fine del 2015, solo lo 0,59% del totale della popolazione viveva al di fuori dei confini nazionali, cioè poco più di un milione. Le comunità più numerose sono quelle insediate negli Stati Uniti e nel Regno Unito. I numeri dell’emigrazione sono però da rivedere al rialzo, in quanto molti processi sfuggono ai rilevamenti. In Italia, al 1° gennaio 2016, erano regolarmente iscritti all’anagrafe 77.264 cittadini di origine nigeriana (fonte ISTAT). Oggi saranno sicuramente di più. Guardando questi dati potremmo dedurre che l’emigrazione vista dalla Nigeria non è un fenomeno di massa.
Guardando la Nigeria da fuori ciò che appare è un gigante che avanza, almeno così sembra dai dati della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: soprattutto nuovi settori industriali come il cinema, il trasporto aereo, il turismo, le telecomunicazioni sono in crescita. I cambiamenti però non hanno fatto diventare la Nigeria una grande potenza, tanto che aumentano i poveri e il divario economico e culturale tra classi sociali. La corruzione dilagante, la violenza e la presenza di Boko Haram, l’incertezza e l’insicurezza stanno facendo scappare numerose aziende. Anche l’italiana Eni, come altre compagnie, sta pensando alla ritirata soprafatta da un lato dalle accuse delle agenzie non governative internazioni per i danni ambientali nel delta del Niger e dall’altro dall’insufficiente produzione legata anche alle continue perdite a causa di atti di vandalismo sulle tubature che vengono rotte o perforate – detto illegal oil bunkering – da parte di organizzazioni che prelevano illegalmente il greggio per raffinarlo e rivenderne la benzina.

La violenza che conosce la Nigeria non è solo quella dei gruppi islamisti che seminano terrore, è anche quella delle confraternite, nate attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, un fenomeno poco noto che va sotto il nome di cultismo, diffuso nelle università e nelle scuole secondarie. I loro membri sono arruolati come combattenti o come manodopera per le attività illegali di oil bunkering, attirati dai facili guadagni e dall’offerta di opportunità lavorative, vengono iniziati all’uso della forza e delle armi, che arrivano da diverse fonti largamente sostenute dalle reti di potere politico ed economico, nonché all’uso di sostanze stupefacenti e allo sfruttamento sessuale. Dagli anni Novanta, il cultismo è uscito dalle università per scendere in strada, insinuarsi nei quartieri urbani e destabilizzare i sistemi sociali. Oggi queste realtà sommerse, ma violentemente presenti, rappresentano una minaccia per l’intera società. Il bisogno di affiliati è sempre maggiore visti i numerosi sviluppi di attività economiche particolarmente remunerative, seppur illecite. E poi vista l’insicurezza, appartenere è una garanzia di protezione. Sono giovani uomini e donne. C’è chi cade nella trappola avvinghiato dalle lusinganti proposte di una vita “coi soldi” e soprattutto con i giusti agganci per riuscire, per avere successo. C’è chi non ne vuole sapere, ma fatica a sfuggire alle provocazioni criminali. C’è chi vuole liberarsene, ma ha scarsa probabilità di farcela. C’è chi è nei guai e scappa. La casistica è articolata.

Molte delle storie di chi arriva in Italia dalla Libia dichiarando una nazionalità nigeriana sono cariche di paura di non farcela a sopravvivere in contesti in cui si può morire massacrati dai coltelli o crivellati dalle pallottole. La pervasività di questo sistema unito alla dilagante corruzione, all’incontrollata illegalità dell’agire, allo scardinamento dei valori di integrità morale e all’oblio dei diritti umani sgretola il tessuto sociale, anestetizza le opportunità e spinge alcuni giovani a lasciare famiglie e talvolta figli per la paura di morire o di essere catturati dalle maglie del cultismo.  

* da unimondo.org, 27 Dicembre 2016