30 settembre 2014

Cattiva politica, c’è della logica in questa follia



Incapaci perché intelligenti. Ignoranti perché saggi. Retorici perché ignoranti e incapaci. Le principali accuse che l'opinione pubblica rivolge alla classe politica hanno anche spiegazioni razionali. Che rivelano una malattia molto seria della democrazia italiana. E di molto difficile cura.

di Guido Ortona
[1]

Se chiedete al cittadino italiano tipico cosa pensa del politico tipico ci sono buone probabilità che risponda che lo ritiene un ladro, un incapace, un ignorante e uno che dice solo vuote banalità[2]. La prima accusa è sovente ingenerosa e frutto di disinformazione e/o di indebita generalizzazione. Le ultime tre però corrispondono a un'evidenza empirica troppo ampia per potere essere ignorata.

Cosa spinge un politico a dire che non ci sarà una manovra economica salvo a contraddirsi pochi giorni dopo, o ad escludere categoricamente un'amnistia, salvo poi approvarla pochi giorni dopo, in entrambi i casi facendo la figura dell'incapace? Oppure a schierarsi decisamente a favore dell'Ucraina contro la Russia, salvo poi (cfr. "Le Iene" del 19 marzo) dimostrare di non sapere nulla del problema, e risultando quindi palesemente ignorante? E cosa fa sì che i politici non dicano nulla, o dicano solo slogan, riguardo ai problemi più gravi del paese, in primo luogo la crisi economica?

Se chiedete a un politico del PD (ma anche di partiti non della maggioranza) cosa farebbe per rilanciare l'economia risponderà probabilmente che "bisogna fare le riforme e allentare l'austerità". Se gli si chiede quali riforme si spingerà forse fino a dire "riforma del mercato del lavoro", ma certo non dirà come vuole riformarlo, se non forse per qualche fumoso accenno a una maggiore flessibilità; e se gli si chiede cosa si fa una volta allentata l'austerità risponderà (se è onesto) che non lo sa. Interrogato sul perché di questi comportamenti l'uomo della strada, come abbiamo visto, tenderà a rispondere che il motivo è che i politici sono incapaci e/o che pensano solo a prendere lo stipendio e a niente altro. Ma questi comportamenti sono troppo diffusi perché queste risposte possano essere soddisfacenti, anche se la seconda, come vedremo, contiene un bel po' di verità. Deve esserci qualche motivo razionale. La ricerca di questo motivo è l'argomento di questo articolo.

Incapaci perché intelligenti

La figura cruciale per capire il comportamento di un partito come il PD è quella che possiamo chiamare il quadro. Costui è un soggetto il quale può ottenere una carica o una posizione amministrativa utile grazie a un processo a due stadi: la designazione da parte del partito e la successiva nomina da parte dell’autorità competente (o dell'elettorato); il secondo passaggio presuppone il primo. L’esempio più ovvio è il candidato al parlamento che diviene parlamentare; ma ce ne sono molti altri – il possibile dirigente di una ASL, il possibile consigliere d’amministrazione di una banca, ecc. In effetti, tutti  i politici professionisti sono in questa condizione, tranne che nel caso –una volta relativamente comune, e oggi molto marginale- che la militanza sia diffusamente sostenuta da una scelta etica (o da un patrimonio famigliare) in misura tale da rendere il soggetto indifferente alle sue fortune personali. Se escludiamo questi casi, un politico professionista non può fare a meno dell'appoggio del partito. Si potrebbe obbiettare che potrebbe farne a meno se potesse "correre da solo", ma in una democrazia moderna tale possibilità è remota.

Nella situazione attuale (ma "attuale" qui significa "da parecchi anni") il quadro di un partito di governo (o che pensa di avere buone possibilità di divenire tale alle elezioni successive), come il PD, si trova ad operare in una situazione difficile. Le difficoltà nascono dalla necessità imposta dalla situazione economica di fare delle scelte che scontentano dei soggetti importanti, dal punto di vista del numero di voti e/o da quello del potere economico. In una crisi come quella attuale i soldi sono pochi, e diminuiscono: bisogna inevitabilmente scontentare qualcuno, e questo qualcuno potrà effettuare ritorsioni dannose per chi è responsabile delle politiche relative. Ho sottolineato il termine "responsabile" perché è cruciale per il nostro ragionamento.

Il problema del quadro è evitare di essere ritenuto responsabile della politica che causa malcontento. Infatti se ciò succede le sue possibilità di carriera saranno inevitabilmente compromesse, e tanto più quanto la situazione è grave (e quindi, presumibilmente, il malcontento è profondo): il partito preferirà promuovere, quale che sia la carica in questione, un soggetto non esposto al malcontento piuttosto che qualcuno che lo è (costui anzi sarà un ottimo candidato a diventare il capro espiatorio, come nel caso, per esempio, di Tremonti sotto Berlusconi) . Se poi il partito non è composto da gentiluomini e gentildonne di elevata moralità (e che di solito non lo sia sembra indubbio), allora si aggiunge un problema ulteriore: creare conflitti di opinione entro il partito espone al rischio di essere fatto fuori dalla concorrenza interna. E tutto questo senza contare l'astio che inevitabilmente suscitano i "whistlebowers" fin dai tempi di Cassandra. Quando le cose vanno male conviene stare zitti. Il nostro quadro, proprio in quanto non incapace, preferirà allora evitare di fare proposte che possano dispiacere a qualcuno: sarebbe inutile per la sua causa e dannoso per lui. E dal momento che questo sarà il comportamento tipico dei quadri, il partito non potrà elaborare e proporre politiche efficaci. L'unico che potrà farlo sarà il Capo, purché sia sufficientemente immune dalla concorrenza. Le analogie fra Renzi e Stalin, ovviamente in situazioni molto diverse dal punto di vista della gravità della crisi, del conflitto e delle sanzioni comminate, non sono casuali.

E' importante notare che non è sempre stato così in altre crisi economiche di gravità paragonabile. La Long Depression di fine ottocento è stata affrontata dall'Inghilterra e dalla Francia con la creazione degli imperi coloniali; Hitler ha "risolto" la crisi della Germania espropriando gli ebrei[3]. In entrambi questi casi (e in altri) la crisi è stata pagata da qualcuno esterno alla collettività, e quindi senza particolari sacrifici per i membri di essa (donde la popolarità dell'imperialismo e del nazismo). Oggi, fortunatamente, soluzioni di questo tipo sono impraticabili, almeno in Italia; non è detto che lo siano anche domani.

Ignoranti perché saggi

Abbiamo quindi trovato la spiegazione della prima delle accuse che l'opinione pubblica rivolge alla classe politica, l'incapacità. Veniamo alla seconda, l'ignoranza.

Supponiamo che il nostro quadro tipico sappia che esistono politiche praticabili e utili, che però necessariamente scontentano qualcuno. Sa anche, come abbiamo visto, che se proponesse di attuarle non verrebbe ascoltato, e sarebbe emarginato (o peggio) all'interno del partito. Egli si trova evidentemente in una posizione scomoda, quanto meno nei confronti della propria coscienza; ma probabilmente anche nei confronti dell'opinione pubblica. A maggior ragione se è un esperto: in un eventuale confronto con altri esperti, per esempio in un dibattito, questi gli segnaleranno l'esistenza di quelle politiche, e lui dovrà scegliere se dirsi d'accordo con le conseguenze che abbiamo visto o danneggiare seriamente la sua reputazione d'esperto. Potrei citare parecchi esempi  in cui mi sono imbattuto personalmente. Il più vistoso probabilmente è quello di un deputato PD che è anche un maître à penser abbastanza noto. Ha scritto alcuni importanti articoli contro l'Italicum, da lui giustamente ritenuto un attentato alla democrazia; salvo poi votare a favore. Quando, durante un dibattito, gli ho chiesto il perché di questa evidente contraddizione ha risposto, con ovvio imbarazzo e poca logica, che la legge sarebbe stata modificata al Senato.

C'è però un modo di risolvere il dilemma: e cioè ignorare che una politica praticabile (ma che scontenta qualcuno)  esiste. Nessuno obbliga il funzionario a ricevere informazioni. Se non sa le cose non avrà problemi di coscienza; e messo di fronte a una proposta interessante potrà dire, credibilmente, che ci penserà, salvo poi non farlo. Si potrebbe ritenere che questo machiavellismo di secondo ordine non esclude il problema della coscienza in quanto il nostro protagonista deve attivarsi per non ricevere informazioni, ma non è così. La sua giornata è piena di impegni improrogabili: gli sarà facile e spontaneo "non avere tempo" per approfondire certi argomenti, avendo molte cose serie e importanti di cui occuparsi. Lui non c'entra con quella questione - quale che essa sia. Deve occuparsene qualcun altro. Leggiamo in Guerra e Pace che alla vigilia della battaglia di Austerlitz il più alto in grado degli aiutanti dello zar dice a un disperato Kutuzov che lui si occupa delle cotolette e del riso, e tocca a qualcun altro occuparsi della guerra. Il guaio è che nel nostro caso questo qualcun altro semplicemente non esiste.

Anche su questo punto posso citare un esempio, particolarmente drammatico, che ho vissuto -o meglio sto vivendo- personalmente.

Uno dei problemi più gravi oggi in Italia è il sottodimensionamento del settore pubblico. Nel nostro paese ci sono circa 3.300.000 pubblici dipendenti; la Francia e il Regno Unito, paesi paragonabili come abitanti e (sempre meno) come livello di sviluppo ne hanno quasi il doppio. Persino gli USA hanno un numero di dipendenti pubblici rapportato alla popolazione sensibilmente più alto dell'Italia, anche escludendo il personale militare[4]. Questi dati indicano che molto probabilmente il sottodimensionamento del settore pubblico è uno dei principali ostacoli alla ripresa dell'economia e dell'occupazione, ed è chiaro che in queste condizioni le politiche di spending review devono essere molto caute. Un gruppo di economisti e sociologi delle Università del Piemonte Orientale e di Torino sta lavorando sui questo tema; quando abbiamo cercato di parlarne con qualche politico della maggioranza abbiamo ricevuto risposte che andavano da un offensivo "non è vero" a "ho cose più urgenti per la testa."

E' molto importante notare che l'ignoranza e l'incapacità interagiscono a spirale. Un ignorante è per ciò stesso anche incapace; e un incapace non sa dove prendere le informazioni che occorrono per smettere di essere tale, anzi abbiamo visto che preferisce non farlo. Non a caso, ma paradossalmente, l'inettitudine del governo è assunta dal governo stesso come un vincolo insuperabile. E questo non sempre in mala fede: quando si dice per esempio che non si possono colpire i paradisi fiscali è ovvio che c'è chi preferisce non colpirli; ma ottenere questo risultato gli sarà tanto più facile quanto più il parlamentare tipico ignorerà cosa voglia dire "paradiso fiscale".

Retorici perché ignoranti e incapaci

Abbiamo visto quindi che a un politico conviene essere ignorante. La terza caratteristica, la vuota retorica, è una conseguenza ovvia e diretta delle prime due: se non si possono fare proposte e se si deve nascondere la propria ignoranza cosa si può dire, visto che dire qualcosa fa parte del mestiere di un politico? Occorre esprimersi con una forma che mascheri l'assenza di sostanza, e fare promesse per domani che nascondano l'inadempienza di oggi: "il possibile non lo facciamo, ma l'impossibile ve lo prometto fin d'ora" diceva anni fa un politico in un intelligente fumetto (Le cronache di Fra Salmastro, di Enzo Lunari). Un autentico capolavoro da questo punto di vista è lo slogan totalmente privo di significato della Festa Nazionale Democratica di Genova (2013): Perché l' Italia vale. E' facile immaginare un acceso dibattito in cui frasi come "dalla parte dei lavoratori" o "per un Italia giusta" venivano escluse per non dispiacere ai padroni o, rispettivamente, ai delinquenti.

Che fare?

Fin qui ho usato un tono faceto, ma è evidente la gravità di quanto sopra: abbiamo a che fare con una malattia molto seria della democrazia. I sintomi e la diagnosi sono evidenti; lo è anche la terapia, come ora vedremo. Ma per continuare con la metafora, tale terapia è troppo costosa, l'Italia non è in grado di pagarla, e quindi la prognosi è probabilmente infausta.

La terapia richiede infatti che venga ridata ai politici la libertà di parola, nel senso che dire le cose giuste non implichi una penalizzazione ma una promozione; e che ciò li induca quindi a rimettersi a pensare e a studiare. Ma il ripristino della libertà di parola implica a sua volta due cose.

In primo luogo occorre che il mercato politico torni ad essere concorrenziale. Bisogna che chi fa delle proposte giuste e ragionate possa essere ascoltato e premiato dagli elettori. Come abbiamo visto, esiste un circolo vizioso che fa sì che sia non solo inutile ma dannoso elaborare proposte sensate (cosa che tra l'altro richiede impegno e tempo, necessariamente sottratti ad altre attività), se non altro perché non si sarebbe comunque ascoltati[5]. Una maggiore concorrenza fra i politici richiede a sua volta un sistema elettorale in cui la partecipazione di molti partiti, lungi dall'essere ostacolata, sia incoraggiata[6]. Il circolo vizioso deve diventare un circolo virtuoso in cui i partiti sono incentivati a produrre buone idee (e quindi realistiche: un'idea non realistica non può essere buona), perché queste saranno valutate e premiate dagli elettori. Non da tutti, soprattutto  in periodi di crisi, quando un'idea realistica richiede che qualcuno venga danneggiato; ma da un numero sufficiente perché valga la pena proporla.

In secondo luogo occorre spezzare il legame fra fedeltà a un partito e accesso alle cariche amministrative. Ciò renderebbe meno costoso per un funzionario intelligente prendere le distanze dall'ortodossia del partito. Anzi, avere idee buone e originali potrebbe addirittura convenire se questo propiziasse la nomina a posti di responsabilità, anziché ostacolarlo, come avviene ora.

Le due proposte sono sostanzialmente ovvie. Ma altrettanto ovviamente ci sono forze potenti e, ahimè, vincenti che ne impediscono l'adozione. L'occupazione delle amministrazioni da parte dei partiti è giunta a un punto tale che difficilmente può esistere qualcuno che abbia acquisito le competenze necessarie senza essere organicamente legato a uno di essi, con le conseguenze che abbiamo visto. E i due partiti maggiori stanno riuscendo a blindare le elezioni in modo tale da potere scegliere i candidati che saranno eletti, obbligando così chiunque voglia competere per una carica politica (e amministrativa) a passare attraverso di essi. E' possibile, e secondo me probabile, che gli storici futuri vedranno nell'approvazione dell'Italicum  il punto di non ritorno nel processo di abrogazione della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Fermare l'Italicum è condizione necessaria per il mantenimento della democrazia; non è però condizione sufficiente.

NOTE

[1] Professore ordinario di Politica Economica e di Teoria delle Scelte Collettive presso l'Università del Piemonte Orientale.

[2] Si veda, come un esempio far i tanti, il sito https://it.toluna.com/opinions/1090237/Le-vostre-opinioni-sui-politici-italiani.

[3] Come dimostrato conclusivamente da A. Gotz, Lo stato sociale di Hitler, Einaudi 2007.

[4] Queste differenze non sono influenzate in modo significativo da eventuali diversi pesi del settore privato e di quello pubblico nella produzione dei servizi, come è facile verificare sui dati OCDE e ILO.

[5] Su questo punto le responsabilità dei media filogovernativi è enorme. Al punto che è lecito pensare che anche essi facciano in realtà capo a "quadri" nel senso indicato da questo articolo. Ma approfondire questo discorso ci porterebbe troppo lontano.

[6] Esiste un diffuso pregiudizio secondo cui sarebbe opportuno ridurre il numero dei partiti per motivi di "governabilità". Questo pregiudizio non trova riscontro (ma trova obiezioni) nella letteratura scientifica, sia empirica che teorica. In particolare, negli anni in cui in Italia vigeva un sistema proporzionale non è mai successo che un partito minore (cioè con meno del 10% dei voti) avesse il potere di fare perdere la maggioranza alla coalizione di governo abbandonandola; non solo, non è nemmeno mai successo che l'eventuale abbandono di un partito minore desse a un altro partito minore tale potere.

  da micromega      (18 settembre 2014)

27 settembre 2014

Elezioni Brasile 2014: l’elettorato invisibile




All’interno della società piramidale brasiliana, solo il vertice, formato da imprenditori rampanti e professionisti, si sente oggi pienamente rappresentato da Aécio Neves, presidente dei Social Democratici, noto conservatore.
La classe media e il proletariato urbano, morsi dall’indebitamento in tempi di recessione stenta a identificarsi nella Presidente uscente Dilma Rousseff, o nella candidata socialista Marina Silva. Mancano pochi giorni al primo turno delle elezioni presidenziali del 5 ottobre.

I termini politici, in Brasile, sono facilmente equivocabili, se si cerca di interpretarli, seguendo i parametri nostrani; PSDB (Partido da Social Democracia Brasileira) di Neves, partito di tradizione conservatrice non ha niente a che vedere con una formazione di centrosinistra. PSB (Partido Socialista Brasileiro) è di orientamento centrista. Il suo defunto leader, Eduardo Campos, lo aveva arricchito nel decennio passato di connotati sociali, migliorando il livello ospedaliero, e la ricerca sulle cellule staminali, oggi ai vertici dell’America Latina.
La sua recente scomparsa lascia orfana la classe media di un basilare punto di riferimento; Marina Silva De Lima è nativa dell’Amazzonia, un’ambientalista convinta, sostenitrice di battaglie per la difesa della sua terra natia, sottoposta a continui disboscamenti e trivellazioni. Il suo limite, agli occhi dei potenziali elettori, potrebbe essere proprio questo; essere identificata più come un’eroina “verde”, che una papabile Presidente in grado di risolvere i gravi squilibri sociali, e l’inesorabile indebitamento privato che affligge le classi medio-basse, causa l’incontrollato liberismo economico.

E veniamo al partito di governo, PT (Partido dos Trabalhadores) il cui presidente Lula è stato promotore della rivoluzione sociale che ha portato migliori condizioni di vita a tanti diseredati, e artefice del boom industriale brasiliano.
Malgrado ciò, non si può classificare il PT come un partito di estrema sinistra perché la lunga permanenza alla guida del Paese ha costretto il suo leader a mediare con le classi alte degli imprenditori e dei proprietari terrieri. Soprattutto oggi, che costoro, sotto il governo della sua erede politica, Dilma Rousseff, hanno preso il sopravvento nella gestione dei servizi, indebolendo quelli pubblici, quali scuole e ospedali, e favorendo cliniche e istituti privati, il cui accesso è limitato da un piano finanziario che solo loro possono permettersi. L’assistenzialismo a pioggia degli anni passati ha causato un aumento dell’indebitamento pubblico e un’ampia corruzione nei municipi federali, che questa mole di denaro dovevano amministrare. Senza riuscire però a emancipare la classe lavoratrice, che si trova oggi a fronteggiare un deterioramento dell’assistenza sanitaria, e un rincaro del costo della vita, simboleggiato dalle tariffe dei trasporti, che è circa il doppio, rispetto agli aumenti salariali.

Il problema brasiliano maggiore è quello del razzismo: secondo il rapporto Onu del 12/09/2014 è “strutturale e istituzionalizzato, permeando la vita sociale della nazione”. Basta citare la violenta repressione poliziesca nelle favelas, dove la recente uccisione del quindicenne nero Lucas Lima, al contrario dell’omicidio di Ferguson negli Stati Uniti è passata quasi inosservata anche dalla stampa nazionale; e l’apartheid vigente in megalopoli come Salvador, dove la comunità nera e meticcia, che costituisce l’85% della popolazione rimane confinata nelle sudicie periferie, mentre nel salotto buono del centro si vedono solo bianchi usufruire dei costosi beni di consumo. O sulle spiagge di Rio, dove neri e mulatti sono quasi spariti dallo stereotipo classico. Eppure, sono proprio loro che costituiscono il 55% dell’elettorato brasiliano. Un elettorato invisibile alla ricerca dell’identità perduta.

P.S: nei sondaggi pre-elettorali, la sorpresa viene proprio dalla esordiente Marina Silva, che tallona la presidente uscente Dilma Rousseff: 30% contro 37%; l’Amazzone del PSB, essendo l’unica candidata non bianca, inizia a intercettare l’elettorato afro-brasilano.

*     Fotografo e story-writer indipendente – su il fatto quotidiano 24 settembre 2014 ( nella foto: Marina Silva )

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22 settembre 2014

Cambiamenti climatici: dopo la protesta la palla torna ai politici





Mildly chaotic but incredibly beautiful.”




C’erano il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, c’era il sindaco di New York Bill de Blasio, c’era l’ex vice presidente Al Gore, e c’era Leonardo Di Caprio lungo le strade di New York City Domenica 21 Settembre 2014 a marciare contro i cambiamenti climatici e a chiedere azioni concrete ai nostri governanti.



E insieme a loro una marea di persone, di ogni colore, ceto sociale, età, vestimento, e storia personale, come solo può esserci nella Grande Mela. Un potpourri di bellissima umanità che chiede solo di salvare il pianeta dall’ingordigia di speculatori e multinazionali.

Ci si aspettavano circa centomila persone, ne sono arrivate più di quattrocentomila, secondo Time Magazine. La folla era brulicante ed hanno dovuto cambiare il percorso per farci stare tutti.  E’ stata la più grande protesta contro i cambiamenti climatici nella storia e la più grande manifestazione degli ultimi dieci anni. Assieme a newyorkesi, manifestanti in più di 2500 città di circa 150 nazioni.

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L’organizzatore è Bill Mc Kibben, il fondatore di 350.org. Hanno scelto il 21 Settembre per far combaciare la protesta con il vertice delle Nazioni Unite proprio sul cambiamenti climatici, che si riunisce questa settimana per discutere sulle emissioni di anidride carbonica. 


La folla chiede ad Obama e agli altri leader mondiali di rendere i cambiamenti climatici una priorità politica assoluta. May Boeve, una delle organizzatrici di 350.org dice: “Oggi, la società civile ha agito su una scala che ha superato se persino le nostre più rosee aspettative. Domani, ci aspettiamo che i nostri leader politici facciano lo stesso.”

E siccome la principale causa dei cambiamenti climatici è il consumo di fonti fossili, ad un certo punto la folla è esplosa in un “Exxon Mobile, BP, Shell, take your oil and go to hell!

C’erano anche medici in camice per protestare contro gli effetti sulla salute dei cambiamenti climatici. Globale. La dottoressa Erica Frank, che si occupa di medicina preventiva in British Columbia dice semplicemente: “Sarebbe irresponsabile per noi non fare nulla.” Steve Auerbach,  pediatra di New York City aggiunge: “L’inquinamento da anidride carbonica si traduce direttamente in asma, malattie cardiache e il cancro. I cambiamenti climatici sono un problema di salute globale”.

Medici, vegani, ciclisti, hippy, femministe, studenti, cristiani, bambini, nativi americani, agricoltori e nonni: tutti d’accordo. Non fare niente contro i cambiamenti climatici è terribile ed il momento di agire è adesso e non domani.


La palla adesso va ai politici – il trivellatore Matteo Renzi incluso.




15 settembre 2014

Grecia, lavoro flessibile: un lavoratore su tre percepisce 300 euro al mese



Numeri sconvolgenti in Grecia dove la crisi sta totalmente schiacciando i lavoratori. Infatti, come riporta l’Ansa, citando il quotidiano greco Ta Nea , emerge che un lavoratore su tre percepisce 300 euro al mese, secondo uno studio sul settore privato del paese condotto dall’Istituto del  Lavoro della Gsee (Ine-Gsee), uno dei due maggiori sindacati ellenici che rappresenta i lavoratori del settore privato. 

I dipendenti svolgono soprattutto orari part-time che implicano orari ridotti e turnazioni. Il direttore dell’Istituto, Savvas  Rompolis, ha riferito che vi sono circa 500 mila dipendenti del settore privato con occupazioni part-time. I dati mostrano inoltre come i salari medi si siano ridotti a causa dei nuovi contratti di lavoro flessibili e della crisi economica nel paese dopo le misure adottate dal governo greco in base alle richiesta della cosiddetta troika (Ue, Bce e Fmi).

Secondo le stime, nel 2014, il salario medio annuale è stato di 21.930 euro annui (circa 1.827 euro lordi al mese). Una cifra che risulta più bassa della Slovenia con una media di 24.472 euro e Cipro con 22.740 euro annui e ben al di sotto di Francia (con 49.256 euro), Irlanda (44.377), Germania (38.964) e Spagna (34.584).

da www.direttanews.it    - 15 settembre 2014