31 maggio 2017

Egitto: Al-Sisi firma la legge, lo Stato «occupa» le ong



Egitto. Le associazioni della società civile poste sotto il controllo del governo, 46mila quelle a rischio. Intanto sei partiti di opposizione scelgono un candidato unico per le presidenziali del 2018


La strategia è nota, la stessa applicata da governi e regimi in crisi di legittimità: usare la paura per piegare opposizioni e voci indipendenti. L’Egitto non è da meno: così si può spiegare la debolezza delle reazioni agli attacchi perpetrati dal Cairo a società civile, media, organizzazioni locali. La minaccia di oggi è lo Stato Islamico: il pugno di ferro è l’alternativa – questo il messaggio del regime – al terrorismo di matrice islamista. Il popolo egiziano, da parte sua, schiacciato da una brutale crisi economica e dalla durezza della repressione non riesce a reagire.
Le bombe egiziane su Derna (che, dice il portavoce dell’esercito egiziano, proseguiranno, mentre fonti anonime riferiscono all’agenzia New Arab che truppe speciali egiziane sono state dispiegate in Libia a sostegno di Haftar) servono a radicare l’impressione di una minaccia concreta, quella islamista, che uccide i copti e punta ad allargarsi al resto del paese. Ma la vera minaccia è statale. Ieri è passata per la firma posta dal presidente al-Sisi alla legge approvata sulle ong approvata sei mesi fa dal parlamento: la normativa pone le organizzazioni non governative (straniere e locali che ricevono finanziamenti dall’estero, normale pratica di sussistenza in ogni angolo del mondo) sotto il controllo dell’esecutivo.
Non si potranno pubblicare sondaggi e rapporti senza il permesso dello Stato. Le donazioni superiori a 550 dollari dovranno essere approvate dal governo entro 60 giorni. Sarà lo Stato a decidere sulla costituzione di una nuova associazione: verrà redatto un piano di sviluppo che indicherà i settori di intervento e autorizzerà ( tramite il Ministero della Solidarietà sociale) la fondazione di un’organizzazione. Le ong straniere dovranno pagare 16.500 dollari e su tutti vigilerà un nuovo dipartimento dipendente da servizi segreti e esercito. Chi violerà la legge rischia da uno a 5 anni di carcere e 55mila dollari di multa. L’obiettivo è palese: zittire, tenendole sotto stretta sorveglianza, le organizzazioni che in questi anni hanno lavorato per monitorare abusi e violazioni, creare consapevolezza, tutelare le vittime.

Critiche sono subito arrivate da Amnesty International: «È un colpo catastrofico ai gruppi per i diritti umani in Egitto – ha commentato Najia Bounaim, responsabile di Ai in Nord Africa – La severità delle restrizioni imposte minaccia di annientare le ong nel paese». Il Cairo si difende: la legge serve a proteggere lo Stato dalle interferenze esterne, dal «caos». In realtà si tratta dello stesso filo rosso che collega ong, stampa e partiti di opposizione. Nei giorni scorsi 21 agenzie di informazione sono state oscurate dal governo. Tra questi al Jazeera e Huffington Posty Arabic, l’agenzia indipendente Masa Masr, il noto quotidiano Daily News Egypt e al Borsa, una delle più rinomate agenzie di informazione finanziaria, gestita da giovani giornalisti. L’accusa, per tutti, è aver ricevuto fondi dal Qatar, dai Fratelli Musulmani, dai nemici della stabilità del paese.

Contro l’uomo solo al comando c’è, però, chi si organizza trovando negli attacchi del regime nuova forza: dopo l’arresto di Khaled Ali, avvocato per i diritti umani e fondatore del partito di sinistra Pane e Libertà, sei partiti di opposizioni si sono coalizzati scegliendolo come candidato alle presidenziali del 2018. Con un comunicato congiunto il suo partito, Alleanza Popolare (sinistra), il Partito della Costituzione di El Baradei (liberale), Strong Egypt Party (islamico riformista), il Movimento 6 Aprile (sinistra) e i Socialisti Rivoluzionari hanno annunciato il sostegno ad Ali. Contro di lui, rilasciato su cauzione, è stato aperto un fascicolo per «insulto alla pubblica decenza»: la prima udienza è prevista per luglio.

·         * da il manifesto , 31 maggio 2017

Report – Profilo delle centrali termoelettriche a carbone nella Penisola Iberica | Endesa



da www.recommon.org  ( 4 maggio 2017)

Enel è una delle principali multinazionali elettriche europee, con investimenti in tutto il mondo. Nel 2015 si è impegnata a diventare “carbon neutral” entro il 2050. Un impegno importante, una sfida non da poco metterlo in pratica.

Enel è per il 30 per cento sotto il controllo pubblico e possiede ancora la più grande centrale a carbone d’Europa a Brindisi, oltre a “vantare” 7,000 MW di potenza a carbone installati in Italia. Inoltre controlla il 70 per cento di Endesa, la multinazionale elettrica spagnola che possiede più di 5,000 MW di potenza a carbone installata sul territorio iberico. Centrali che continuano a emettere enormi quantità di CO2 nell’atmosfera e inquinano localmente. Secondo una classifica compilata recentemente dagli analisti per i più grandi fondi di investimenti al mondo Endesa risulta fra gli ultimi posti in termini di prontezza e disponibilità ad avviare una transizione verso un’economia low carbon, vista la sua forte dipendenza dall’utilizzo di combusti- bili fossili. I suoi impianti a carbone pesano decisamente nel definire questa forte limitazione, che inizia a preoccupare anche i mercati, viste le possibili perdite future.

Questo rapporto prodotto dai ricercatori dell’Instituto Internacional de Derecho y Medio Ambiente (IIDMA) in Spagna insieme a Re:Common mette in evidenza le responsabilità di Enel, quale azionista di maggioranza di Endesa, nella produzione da carbone in Spagna e nell’assenza di un piano urgente di uscita dal carbone nel Paese iberico.


25 maggio 2017

L’América Latina ingovernabile



I governi politici sono travolti da una violenta tormenta. Ovunque, dalle Nazioni Unite ai paesi che sembravano più stabili. Non esistono forze capaci di mettere ordine, né a scala regionale né globale. Il fenomeno è particolarmente visibile in America Latina, dall’Argentina al Venezuela al Brasile. Incapaci di comprenderne le ragioni, gli analisti e i media ricorrono spesso e volentieri a semplificazioni ma Donald Trump non è affatto “pazzo”, come non lo è mai stato Hitler, e il fallimento dei governi progressisti latinoamericani non si deve solo ai complotti dell’imperialismo o delle opposizioni di destra. La crescente impossibilità di governare è manifesta e le motivazioni di fondo che la determinano sono piuttosto complesse. Raúl Zibechi prova ad elencarne qui almeno tre e spiega che non sarà naturalmente possibile proteggere i possedimenti de los de arriba, quelli che stanno in alto, solo alzando muraglie. Per los de abajo, quelli che stanno in basso, il problema da affrontare non è però quello di sostituire il tenutario dei possedimenti

Primavera 2017. Una grande protesta dei lavoratori della scuola argentini contro la politica del governo di Macri.

di Raúl Zibechi *
La disarticolazione geopolitica globale si traduce, nel continente latinoamericano, in una crescente ingovernabilità che colpisce i governi di tutte le correnti politiche. Non esistono forze capaci di mettere ordine in nessun paese, né a scala regionale né globale. Si tratta di qualcosa che colpisce tutti, dalle Nazioni Unite fino ai governi dei paesi più stabili.
Uno dei problemi che si possono osservare, soprattutto sui media, è che quando si rivela il fallimento delle analisi, ci si appella a semplificazioni del tipo: “Trump è pazzo”, o congetture simili, oppure lo si taccia di “fascista” (cosa che non è una semplice congettura). Solo aggettivi che servono a eludere analisi di fondo. Sappiamo bene che la “pazzia” di Hitler non è mai esistita, rappresentava gli interessi delle grandi corporazioni tedesche, ultra razionali nel loro affannoso intento di dominare i mercati globali.
Dalla parte del pensiero critico, succede qualcosa di simile. Tutti i problemi che affrontano i governi progressisti sono colpa dell’imperialismo, delle destre, dell’OSA e dei media. Non c’è volontà di assumersi i problemi creati da sé stessi, né il minimo accenno alla corruzione che ha raggiunto livelli scandalosi.

Ma il dato centrale del periodo è l’ingovernabilità. Quello che sta accadendo in Argentina (la resistenza ostinata dei settori popolari alle politiche di rapina e spoliazione del governo di Mauricio Macri) è una dimostrazione che le destre non riescono a conseguire la pace sociale, né la otterranno almeno nel breve/medio termine.
I lavoratori argentini hanno una lunga e ricca esperienza di più di un secolo di resistenza ai potenti, perciò sanno come logorarli, fino a rovesciarli attraverso i più doversi modi: dalle insurrezioni, come quella del 17 ottobre del 1945 e quella del 19 e 20 dicembre del 2001, fino alle sollevazioni armate come il Cordobazo e diverse decine di sommosse popolari.
In Brasile, la destra pilotata da Michel Temer ha enormi difficoltà nell’imporre le riforme del sistema pensionistico e del lavoro, non solamente per la resistenza sindacale e popolare ma anche per la spaccatura interna di cui soffre il sistema politico. La delegittimazione delle istituzioni è forse la più elevata che si ricordi nella storia.
L’economista Carlos Lessa, presidente della Banca Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale con il primo governo Lula, segnala che il Brasile non può più guardarsi allo specchio e riconoscersi per quello che è, ha perso l’orizzonte nel marasma della globalizzazione. L’affermazione di questo prestigioso pensatore brasiliano si può applicare agli altri paesi della regione che non possono che naufragare quando le tormente sistemiche li minacciano. Nei fatti, il Brasile attraversa una fase di decomposizione della classe politica tradizionale, cosa che pochi sembrano comprendere. Lava Jato è uno tsunami che non lascerà nulla al suo posto.

Il quadro che offre il Venezuela è identico, anche se gli attori provano discorsi opposti. Per inciso, va detto che dar retta ai discorsi in piena decomposizione sistemica ha scarsa utilità, poiché cercano solamente di eludere le responsabilità.
Dire che l’ingovernabilità venezuelana è dovuta solo alla destabilizzazione della destra e dell’impero, vuol dire dimenticare che alla prolungata erosione del processo bolivariano partecipano anche i settori popolari, mediante pratiche su micro-scala che destrutturano la produzione e la vita quotidiana. O invece qualcuno può ignorare che il bachaqueo (contrabbando formica) è una pratica diffusa tra i settori popolari, compresi quelli che si dicono chavisti?
Il sociologo Emiliano Terán Mantovani lo dice senza mezzi termini: caos, corruzione, lacerazione del tessuto sociale e frammentazione del popolo, potenziati dalla crisi terminale della rendita petrolifera. Quando predomina la cultura politica dell’individualismo più feroce, è impossibile condurre alcun processo di cambiamento verso un qualche destino mediamente positivo.
Insomma, il panorama che presenta la regione (sudamericana, ndt) – menziono solo tre paesi, ma l’analisi può, con sfumature, essere estesa al resto – è di crescente ingovernabilità, al di là del segno (politico, ndt) dei governi, con forti tendenze verso il caos, l’espansione della corruzione e difficoltà estreme per trovare vie d’uscita.

La marcia delle donne a Montevideo. Foto tratta da http://ntn24-img.s3.amazonaws.com

Ci sono tre ragioni di fondo alla base di questa situazione critica.

La prima è la crescente potenza, organizzazione e mobilitazione de los de abajo, dei popoli indigeni e neri, dei settori popolari urbani e dei contadini, dei giovani e delle donne. Nemmeno il genocidio messicano contro los de abajo è riuscito a paralizzare il campo popolare, anche se è innegabile che affronta serie difficoltà nel continuare a organizzarsi e creare mondi nuovi.

La seconda è l’accelerazione della crisi sistemica globale e la disarticolazione geopolitica, che ha fatto un balzo in avanti con la Brexit, l’elezione di Donald Trump, la persistenza dell’alleanza Russia-Cina per frenare gli Stati Uniti e l’evaporazione dell’Unione Europea che vaga senza meta. I conflitti si espandono senza sosta fino a sfiorare la guerra nucleare, senza che nessuno possa imporre un certo ordine (nemmeno ingiusto, come l’ordine del dopoguerra dal 1945).

La terza consiste nell’incapacità delle élite regionali di trovare qualche via d’uscita di lungo respiro, come è stato per il processo di sostituzione delle importazioni, la costruzione di un minimo di stato sociale capace di integrare alcuni settori dei lavoratori e una certa sovranità nazionale. Su questo tripode si è stabilita l’alleanza tra imprenditori, lavoratori e Stato che ha potuto proiettare, per alcuni decenni, un progetto nazionale credibile anche se poco consistente.

La combinazione di questi tre aspetti rappresenta la “tormenta perfetta” nel sistema-mondo e in ogni angolo del nostro continente. Los de arriba, come ha detto giorni fa il subcomandante insurgente Moisés, vogliono trasformare il mondo in “una finca [1] protetta da muraglie”. Probabilmente, perché siamo tornati ingovernabili. Dobbiamo organizzarci, in queste difficili condizioni. Non certo per cambiare finquero.

[1] finca: tenuta; finquero: il padrone della tenuta

* da www.comune-info.net  22 maggio 2017  ( articolo pubblicato su La Jornada con il titolo La era de la ingobernabilidad en AL ). Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo ultimo libro, “Alba di mondi altri” è stata stampata nel luglio 2015 dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info sono qui.