3 maggio 2017

Una Turchia che rinnega la sua storia



Intervista. Parla il giornalista ed editore turco Ahmet Insel, ospite al festival dei diritti umani, a Milano. «Ogni discorso di Erdogan porta odio e vendetta, promette che il paese spezzerà il dominio cristiano del pianeta. E sfrutta un repertorio politico islamico-conservatore»


di  Chiara Cruciati *

Dalla più laica delle società musulmane al processo di islamizzazione nazionalista: il percorso della Turchia dalla comparsa sulla scena di Recep Tayyip Erdogan ne stravolge la forma mentis, modellata su riferimenti culturali neo-ottomani che cancellano le conquiste politiche dell’ultimo secolo. Ne è convinto Ahmet Insel, editorialista del quotidiano di opposizione Cuhmuriyet, in passato professore all’Université Panthéon-Sorbonne e oggi direttore del comitato editoriale della casa editrice Iletisim. Oggi sarà ospite al Festival dei Diritti Umani di Milano.

Quali sono i principali cambiamenti dalla caduta dell’impero ottomano a oggi, in termini di cultura e sottoculture?

La caduta dell’impero ottomano ha accelerato una dinamica di modernizzazione (segnata dall’occidentalizzazione in lingua turca) iniziata a partire dalla metà del XIX secolo. La spinta alla secolarizzazione è stata data dalle riforme kemaliste degli anni Venti: la Turchia si è sganciata dal suo passato ottomano e ha reciso i legami con la cultura arabo-persiana. L’abolizione del califfato nel 1924 e il cambiamento dell’alfabeto nel 1928 hanno rappresentato le tappe fondamentali di questa accelerazione. La Turchia si è trasformata nella società musulmana più laica al mondo. L’esperienza della democrazia, il sistema della pluralità dei partiti e le libere elezioni si sono ben radicate. L’Akp (il partito del presidente Erdogan, ndr) ha beneficiato di tutto ciò e ora lo mette in discussione per rinsaldare un regime autocratico e avviare una società sempre più caratterizzata dai valori e le pratiche dell’Islam. È un progetto che trova una forte resistenza, ma è una situazione che potrebbe portare la Turchia a scontri interni e violenze nel futuro.

Il modello di società anelato da Erdogan è in contraddizione con la realtà o sfrutta tendenze già esistenti?

Erdogan mira a cambiare i punti di riferimento della civiltà turca, che vigono da più di un secolo, vuole far entrare in crisi il processo di occidentalizzazione. Ma una parte importante della società resiste. Le nuove classi medie emerse sotto l’Akp non vogliono una Turchia isolata, non accettano una «medio-orientalizzazione» del paese. Erdogan, però, manipola abilmente le grandi fratture sociali che attraversano la Turchia (turchi-curdi, sunniti, aleviti, modernisti-conservatori). Lui è turco, sunnita e conservatore. È questo il motivo per cui, polarizzando la società intorno a tali conflitti, trova sempre la sua maggioranza elettorale.

Cos’è la Turchia oggi? Qual è la sua natura politica, culturale e socio-economica dopo quindici anni di governo Akp?

Dal punto di vista della composizione sociale, la Turchia è divisa tra turchi e curdi, sunniti e aleviti, modernisti-laici, conservatori-islamici. Economicamente, gli effetti della crescita negli anni 2000 stanno evaporando e la disoccupazione aumenta pericolosamente. Il potere, da parte sua, impone una cultura islamico-conservatrice, soprattutto nel campo dell’istruzione. È una Turchia lacerata tra Europa e Medio Oriente, un paese travagliato: da una parte c’è preoccupazione per il rafforzarsi dell’autoritarismo; dall’altra, inquietudine per l’isolamento internazionale. Si teme il peggioramento dei sanguinosi scontri con il Pkk o il moltiplicarsi degli attentati dell’Isis, c’è paura per gli sviluppi della situazione siriana e l’imminenza di una crisi economica. Questa paura generalizzata viene sfruttata dall’Akp per giustificare un regime autoritario, rappresentato da Erdogan. Politicamente, siamo entrati in un sistema di autocrazia elettiva con la fusione di partito e Stato. Non c’è nessuna separazione dei poteri e la giustizia è totalmente asservita al partito-stato.

Lei lavora per il quotidiano «Cuhmuriyet», duramente colpito dalla campagna di epurazione insieme a centocinquanta agenzie, giornali, tv, radio. Quale narrativa viene imposta senza una stampa libera?

La società turca è sotto choc. C’è stato lo choc del golpe fallito. Poi, la dichiarazione dello stato di emergenza che ha spazzato via lo stato di diritto. Più di centocinquanta reporter si trovano in carcere. L’Akp controlla quasi completamente la televisione e gran parte della stampa. Qualsiasi discorso di Erdogan è trasmesso in diretta, ogni giorno, da decine di canali televisivi. E ogni discorso fomenta risentimento e vendetta, promettendo che la Turchia spezzerà il dominio cristiano del pianeta. Riaccende l’odio verso le élite e la Ue, sfrutta un repertorio politico islamico-conservatore, con toni iper-nazionalisti. Si richiama alla grandezza dell’impero ottomano e incita i sostenitori a riguadagnarla. I media vicini all’Akp raccontano solo storie di cospirazione contro il partito e la Turchia. Purtroppo gran parte della popolazione, compresi i laici-modernisti, ci crede. Erdogan ha vinto il referendum del 16 aprile anche perché l’opposizione non ha avuto accesso ai mass media.

Spesso i regimi incrementano violenza e repressione contro società civile, opposizioni, minoranze per coprire delle debolezze. Quali sono le fragilità della leadership turca?

La debolezza principale del regime consiste nel suo progressivo isolamento internazionale. L’economia turca non possiede risorse naturali e ha un basso margine di risparmio. Ha bisogno di essere un’economia aperta e di attrarre capitali stranieri. Il Consiglio d’Europa ha messo sotto sorveglianza politica la Turchia e si parla sempre di più di sospendere il processo di adesione alla Ue. Per la Nato, gli interrogativi riguardano l’affidabilità del paese. In Siria, la Turchia è impegnata contro i curdi e ha come controparte sia americani che russi. Le relazioni con l’Iran vanno malissimo. E nello stesso partito di Erdogan cresce il malcontento verso la deriva autocratica e isolazionista. Così Erdogan ha cercato di consolidare il suo potere alleandosi con l’estrema destra nazionalista per il referendum. Ha ottenuto un risultato lontano dal 60% che si aspettava. La repressione è solo una fuga in avanti. Probabilmente tenterà di mantenere lo stato di emergenza fino alle presidenziali del 2019.

* da il manifesto   3 maggio 2017

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