31 gennaio 2011

Noterelle sul conclave di Bologna e gli Ecologisti del futuro

Il conclave di Bologna che, seppure attraverso un pacato e civile confronto, ha portato all’avvio di due diversi percorsi di aggregazione, è comunque un segnale positivo che la galassia di movimenti , gruppi, persone, che in forme diverse cercano di costruire una nuova Italia possibile è, al contrario del passato, in movimento.

Intanto per la partecipazione e soprattutto per il confronto serio e appassionato, forse per la prima volta dopo decenni, di tante anime ( ma nel paese sono ancora molte di più ) di questa variegata galassia che gradualmente sta costruendo una autonomia politica ma anche culturale e organizzativa dal vecchio sistema dei partiti.

Il confronto più approfondito è avvenuto nei tre gruppi di lavoro: 1) sui temi e contenuti di quest’area politico-culturale su cui si è manifestata probabilmente la convergenza più ampia, 2) sulle forme nuove della possibile organizzazione di un nuovo movimento su cui si sono manifestate differenze che attraverso un confronto approfondito potrebbero essere superate, 3) infine sul rapporto con i partiti esistenti ( e collegato sul problema dello scioglimento dei Verdi ) , sul problema delle alleanze e di fatto sui comportamenti elettorali almeno nel breve e medio periodo. In questo gruppo si è manifestata una netta differenziazione che ha portato alla divaricazione dei percorsi nell’immediato futuro.

Il lungo percorso per liberarsi della vecchia politica, di vecchi schemi di riferimento e di comportamento, delle vecchie logiche, che hanno portato, specie nella situazione anomala del nostro paese, alla paralisi della società italiana negli ultimi decenni, sono duri a morire e stanno non solo all’interno di gruppi e forme organizzate esistenti, ma anche e soprattutto all’interno di ognuno di noi; con inevitabili differenze di compromissione che hanno, ed è naturale, anche una stratificazione diversa nelle diverse stratificazioni generazionali.

Di fatto si stanno consolidando quattro aree diverse di molto diversa consistenza e connotazione culturale, politica, organizzativa ( il che è un bene non un male rispetto all’immobilismo del passato).

L’area del movimento di Grillo, l’area che ha dato vita a Uniti e Diversi, l’area delle reti e movimenti Civici ed Ecologisti che si incontrerà a fine febbraio e a fine marzo, l’area che ha origine nei Verdi e che ha promosso la Costituente ecologista, in forme molto diverse e con un grado diverso di radicalità e di innovazione rappresentano quattro diversi possibili percorsi che, speriamo solo momentaneamente, possono essere vissuti come divaricanti e magari in competizione; ma che esprimono invece e comunque novità e cambiamento, rispetto alla palude stagnante degli ultimi anni.

Il piccolo Gruppo delle Cinque Terre, che attraverso un difficile percorso ha garantito la possibilità di arrivare al Conclave attraverso un testardo impegno di mesi, pur rinnovando e precisando meglio il proprio ruolo, continuerà con coerenza a proporre, momento per momento, i passi necessari e possibili attraverso i quali queste quattro aree e i tanti che ancora non si sono messi in movimento possano, con i tempi che sono necessari, convergere nell’obiettivo di costruire un'altra Italia possibile.

Una convergenza che è l’unica strada realistica per trasformare un sogno in realtà e liberarsi di quel realismo illusorio che fa morire i sogni.

Massimo Marino

28 gennaio 2011

Cremona, prima tappa del giro d'italia antinucleare

Cremona (Palazzo Cattaneo, v. Oscasali 3 )
sabato 5 febbraio dalle ore 9,15 ( continua nel pomeriggio )

di Lino Balza *

I tre SI ai referendum (2 per l’acqua pubblica e 1 contro il nucleare) si vinceranno o si perderanno tutti assieme. Allo stato attuale sono persi. Parliamoci chiaro. Il traguardo del quorum 50% irraggiungibile. Sostenuti da mezzi finanziari sproporzionati, loro non faranno campagna per il no, gli basterà giocare sugli opposti schieramenti partitici, sul silenzio e la complicità mediatica. Noi invece dovremo battere le strade, fare il porta a porta, volantini e banchetti e assemblee paese per paese, quartiere per quartiere. Noi gente comune, attivisti, chiamiamoci “gli operai specializzati dell’ambientalismo”. Nella battaglia conterà il numero degli operai e non dei dirigenti.

Orbene. Sono già in costituzione almeno 4 comitati referendari nazionali. Apparentemente è una buona notizia. Invece no. Dividere gli “operai specializzati” fra tanti comitati, significherebbe non avere, ciascuno di essi, i numeri per coprire paese per paese, quartiere per quartiere. Bisogna invece unire le forze, unificare i vari comitati referendari antinucleari. Non solo: bisogna unire, unificarli con il comitato referendario per l’acqua pubblica. DUNQUE BISOGNA CHIEDERE CON FORZA, PRETENDERE CHE SIA COSTITUITO UN COMITATO REFERENDARIO NAZIONALE UNICO PER IL SI’ AI 3 REFERENDUM PER ACQUA E NUCLEARE. Altrimenti si perdono tutti e tre. Qui non basta l’alleanza fra diversi, ci vuole l’unità fra simili. Così nasceranno dappertutto comitati locali trasversali.

Chi ben comincia è a metà dell’opera. Perciò l’appuntamento nazionale di Cremona (Palazzo Cattaneo, via Oscasali 3) per il 5 febbraio parte dalla base, intende dare voce e protagonismo agli “operai specializzati”. Gli unici che possono vincere una vittoria impossibile. Con l’ottimismo della volontà. Perciò dobbiamo andarci, per contare. Dal basso. Conviene essere presenti a Cremona, non solo aderire ma esserci come soggetti individuali e collettivi, per sostenere che Cremona sia la prima tappa del Giro d’Italia per il SI ai 3 referendum, con maglia rosa finale alla squadra del SI. Una squadra unica con un unico comitato referendario nazionale. Una squadra senza partiti come capitani: gli è permesso di spingerci in salita. Una squadra di velocisti perché ormai il voto è imminente. Dobbiamo esserci per pretendere la squadra. Ognuno con la propria testa. Personalmente la penso così.

* Medicina Democratica di Alessandria

Info: Benito Fiori 037 225659 328 1231030 ben.fio@libero.it

25 gennaio 2011

Marghera: rabbia, sogni e fantasia va in scena la Woodstock dei movimenti


In migliaia alla due giorni di dibattiti. "Dopo la rivolta d'autunno non si torna indietro". "Uniti contro la crisi", è il cartello comune.

ROMA - In un centro sociale ai confini del petrolchimico di Marghera si scopre che la grande protesta italiana, innervata nel caldo autunno del 2010, non si è spenta in questo gennaio in cui gli operai hanno incassato l'onorevole sconfitta di Mirafiori e gli universitari inghiottito la legge Gelmini che riforma gli atenei pubblici. Attorno a questi due protagonisti della scena pubblica - i sindacalisti e gli operai della Fiom da una parte, gli studenti medi e universitari insieme ai ricercatori dall'altra - si sono dati appuntamento al Rivolta Pvc i movimenti sociali del paese. "Uniti contro la crisi", è il cartello comune. Ieri e oggi: due giorni di racconti e progetti, parole e cene collettive.

Sono venuti ai confini del petrolchimico di Venezia i comitati vicentini in conflitto con il progetto di una base Nato nel quartiere Dal Molin, dietro la basilica palladiana. Un viaggio più lungo lo hanno affrontato "quelli" dei rifiuti campani. Vivono intorno alle discariche di Chiaiano, Marano, Terzigno e sono contro, violentemente contro, gli inceneritori "che producono diossina". Da Roma periferia sono saliti gli occupanti di Action, loro prendono case vuote per darle agli sfrattati. Ci sono i lavoratori dello spettacolo. Gli Zero punto Tre che hanno appena occupato il Teatro Metropolitan nel centro della capitale, cinema d'essai vicino alla chiusura, ed esponenti del movimento Centoautori. Monopolizzò l'attenzione all'ultimo Festival di Roma.
Ai tre workshop di Marghera si sono iscritti in milleseicento. Al centro sociale Rivolta, nato nel '93 sotto la guida del disobbediente Luca Casarini, trasformato nel tempo in un bunker tecnologico con una mensa da duemila posti, si ascolta l'economista Guido Viale parlare "dell'irrealizzabile modello Marchionne". E il segretario Fiom Maurizio Landini chiamare i precari di tutta Italia: "Venerdì prossimo sciopereremo in venti città, studenti e ricercatori affiancateci, costruiremo una primavera di resistenza". In serata si vede Fausto Bertinotti. Non c'è Nichi Vendola, verso il quale si sono avvicinati diversi vecchi "no global", alcuni "indisponibili" di questa stagione.

La Sala Open Space è dedicata al lavoro, la Nite Park al collasso ecologico, ma è nella Sala Hangar che vecchie parole trovano stili da ultima generazione. Seggiole in circolo, si ascolta Naam, studentessa italo-inglese. Racconta l'assalto alla limousine di Carlo e Camilla nel cuore di Londra e rivela: "Il movimento italiano ci ha offerto ispirazione quotidiana, lo abbiamo studiato su Internet scoprendo i book-block e le prese dei monumenti. Come voi, abbiamo perso: le tasse universitarie sono salite a novemila sterline. Ma non ci scoraggiamo, siamo parte di un movimento di ribellione europeo, Grecia, Francia, Albania, un movimento mondiale, Algeria, Tunisia". Gli appunti del suo discorso stanno tutti sul palmo della mano sinistra.
Da Roma sono arrivati un pullman e dieci auto. "Non vogliamo banche nei nuovi atenei e potremmo opporci alla Gelmini con un referendum".

La pratica dell'agire comune, si ascolta. La difesa del pubblico. Dopo vent'anni di riflusso, un isolamento che ha tagliato le gambe alle Pantere, alle moltitudini No global, ora la Generazione Precaria ha trovato il collante naturale con chi li ha preceduti: in nome di una paura comune, la precarietà eterna, gli studenti medi si sono alleati con gli universitari, gli universitari con i ricercatori, tutti con gli operai. A Pisa si studiano azioni comuni con i lavoratori della Piaggio, ad Ancona con quelli della Fincantieri. "Generazione P." è entrata nella società, è bastato un autunno caldo. Gli universitari di Napoli hanno creato il primo centro sociale del movimento, "Ribelle Zero". Le facoltà partoriscono nuove band musicali, i locali di riferimento invitano poeti per serate contro l'oblio. E a Marghera, ecco, il movimento studentesco ha ricucito con i padri: uniti contro la crisi. Già, "dopo questo autunno non si torna più indietro".

da Repubblica 24 gennaio 2011

24 gennaio 2011

Nucleare, bocciato lo schema di delibera Cipe. Le Regioni di centrodestra mollano il Governo


Anche le Regioni di centrodestra voltano le spalle al Governo. Equivale sostanzialmente ad un “Nucleare? No, grazie” il parere espresso ieri dalla Conferenza unificata Stato-Regioni.

Era in discussione lo schema di delibera del Cipe (Comitato interministeriale programmazione economica) relativo alle tecnologie da utilizzare per il ritorno al nucleare.

Solo quattro Regioni hanno detto di : molte meno di quelle omogenee alla coalizione nazionale di maggioranza. Otto hanno detto di no, criticando la delibera e-o il ritorno stesso al nucleare. Non risulta che le altre si siano espresse.

Si sono schierate a favore della delibera Cipe solo il Veneto, la Lombardia, il Piemonte e la Campania, pur chiedendo che venisse esplicitato in modo più netto il ricorso a reattori di III generazione. Spicca, fra gli altri, il mancato sì del Lazio.

Hanno detto no Basilicata, Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna, Umbria, Puglia, Liguria e Sicilia.

Lo schema di delibera Cipe non aveva nulla a che vedere con l’ubicazione degli impianti. Definiva i requisiti delle future centrali nucleari, prescrivendo in sostanza che si utilizzassero le soluzioni più avanzate già disponibili a livello commerciale (cosa che – come ho già scritto – non costituisce una garanzia), tratteggiava l’uso di reattori di III generazione e suggeriva implicitamente la preferenza per l’Epr di Areva e l’Ap1000 di Westinghouse-Ansaldo.

In sede di analisi tecnica (che ha preceduto di una settimana il voto, diciamo, politico di ieri), numerose Regioni hanno definito una scatola vuota lo schema di delibera, e hanno rilevato la mancanza di ogni approfondimento relativo ai costi del nucleare.

Ed ora la sonora bocciatura del testo. Il ritorno al nucleare dell’Italia somiglia sempre più (menomale) ad un gioco dell’oca, nel quale la pedina governativa è costretta spesso ad indietreggiare di diverse caselle: lasciando così spazio alle speranze riposte nel referendum o in un soprassalto nazionale di buonsenso.

Probabilmente ormai indisponibile anche il giardino di Scajola – non è più ministro – ecco che si capisce perchè si torna a parlare di centrali nucleari italiane in Albania.

Su Agenzia Dire nucleare, bocciato lo schema di delibera Cipe

Il testo dello schema di delibera Cipe relativo alle tecnologie per il ritorno al nucleare (via Inergia)

Le osservazioni tecniche delle Regioni allo schema di delibera Cipe (via Inergia)

da Maria www.blogeko.it 21 gennaio 2011

21 gennaio 2011

Partiti, movimenti, reti


di Massimo Marino

Esistono ancora i Partiti in Italia, quanti sono, chi o cosa rappresentano, su cosa si dividono, hanno obiettivi che riguardano il paese o sono autoreferenziali, sono ancora utili, è possibile oggi allearsi con qualcuno di loro?
Quali e quanti sono i movimenti che aspirano al cambiamento, chi rappresentano, perché sono divisi, che cosa impedisce la loro unione, hanno un peso e quale nella società italiana, sono in grado di cambiare il paese, gli interessa, con quale percorso possono farlo?

Per discuterne è ben cominciare dall’inizio.


1 Già Max Weber, sociologo tedesco, agli inizi del ‘900 affermava con chiarezza che il ruolo dei partiti era quello di ottenere il controllo del governo (e prima del parlamento), dare il potere ai loro capi (leader), ottenere vantaggi (personali e di gruppo).

Contemporaneamente garantire forme di controllo dei governati sui governanti, mediare quindi fra Cittadini e Stato, educare tutti alla democrazia rappresentativa. Sebbene influenzato da Marx ciò non lo portava all’idea che questo percorso in parte virtuoso potesse risultare insopportabile per questa o quella area o classe sociale e spingere necessariamente a scelte rivoluzionarie.


Maurice Duverger, giurista francese, qualche decennio dopo chiariva già che i sistemi elettorali hanno grande influenza sul sistema dei partiti e sulla politica (fino a determinarne le caratteristiche). In particolare chiarendo che i sistemi maggioritari ( specie se a turno unico) spingono al bipolarismo, quelli proporzionali al multipartitismo. Fuori dal regime democratico i sistemi autoritari spingono, ovviamente, al partito unico. Per quanto in paesi dell’area anglosassone e non solo si facesse strada il sistema dei collegi uninominali ( strumentalmente giustificati da esigenze di stabilità) Duverger ammette che nella maggior parte dei paesi il sistema della democrazia è quello del proporzionalismo e quindi del tendenziale pluralismo.


Il nostro Giovanni Sartori, andando per le spiccie, sostiene da tempo che i partiti che contano sono quelli che hanno potere di ricatto, cioè che sono determinanti per promuovere coalizioni di governo, ( potenziale di governo e di ricatto) quindi devono essere medio-grandi; quelli piccoli o che comunque non vogliono governare, (irresponsabili o antagonisti) non servono, quindi tantovale trovare il sistema per eliminarli.
Secondo Sartori sopra i 5 partiti si passa dal pluralismo moderato al pluralismo polarizzato, con presenze antisistema, centro occupato, partiti irresponsabili; pessima situazione (secondo lui) che da anni propina ( per giunta a pagamento) la sua idea singolare di democrazia nelle TV e nei giornali da noi finanziati .


Stein Rokkan, politologo norvegese, una trentina di anni fa affermò che l’origine genetica dei partiti è il prodotto di fratture sociali ( cleavages ), che hanno origini in interessi materiali e/o ideologici di gruppi sociali contrapposti, di 4 possibili tipi: Capitale/Lavoro, Stato/Chiesa, Centro/Periferia, Città/Campagna. I “costruttori della nazione” di Rokken, che potremmo un po’ più brutalmente chiamare da noi “quelli che hanno il potere vero nelle mani “, nei momenti di fratture si alleano inevitabilmente ad uno o più di questi poli a discapito degli altri per sopravvivere alla crisi. ....................

leggi la continuazione sul portale del Gruppo delle Cinque Terre:

www.gruppocinqueterre.it/node/732




17 gennaio 2011

Disastro ambientale a Porto Torres: la marea nera italiana di cui nessuno parla

di Eleonora Cresci

“Così stanno bruciando il mare, così stanno uccidendo il mare, così stanno umiliando il mare, così stanno piegando il mare…”, cantava Lucio Dalla in una sua famosa canzone. E non ci sarebbero parole più appropriate per raccontare quello che sta succedendo in questi giorni nel Golfo dell’Asinara.

Un disastro ambientale dalle proporzioni ancora non misurabili, che sta avanzando inesorabile nel quasi totale silenzio dei media nazionali (se escludiamo la stampa locale, le associazioni ambientaliste e i siti internet tra cui noi di greenMe.it, che ne abbiamo dato notizia in tempo reale). Chi scrive è nata e cresciuta in questa terra, la splendida Sardegna di cui si parla tanto in estate quando viene invasa dai vip, ma di cui ci si dimentica troppo spesso quando accadono cose che non interessano lo star system o il turismo di massa. Ho mosso i miei primi passi nella spiaggia di Platamona, ricordo il litorale immenso, perdibile a vista d’occhio, le scene di vita quotidiana delle persone che fin dalla primavera affollano le spiagge, i cormorani, le impronte dei gabbiani sulla sabbia, le conchiglie. Tutte cose che si continuano a vedere anche oggi, nell’unica oasi di salvezza per noi sassaresi (ma anche portoterresi e sorsesi) che, nella stagione estiva, non amiamo gli ingorghi e le spiagge affollate. Bene, tutto questo, da martedì scorso, non esiste più. Una fuoriuscita di petrolio, da una delle tubature che portano il carburante dal molo E.On (azienda tedesca produttrice di energia) alla termocentrale di Fiumesanto (Porto Torres), ha danneggiato ben 18 km di costa, inquinando prima il mare e poi le spiagge.

Davanti alle prime immagini ho provato tristezza, che via via si è trasformata in rabbia eindignazione davanti al peggioramento della situazione e al silenzio di media e istituzioni. Un disastro di dimensioni incredibili e di cui, inspiegabilmente, non si parla. Perché? Non è la Costa Smeralda, e lo sappiamo bene noi sardi che questo posto lo amiamo e che chiediamo tutela e valorizzazione per il litorale da decenni. No, qua non troverete personaggi famosi, discoteche, yacht. Solo una spiaggia libera lunga chilometri e qualche baretto qua e là in cui si vende Ichnusa e si può mangiare un buon panino. Per questo forse non importa a nessuno. Ma ora vi svelo una cosa, per chi ovviamente non è pratico della zona: a pochi chilometri di distanza da Platamona troviamo la splendida spiaggia La Pelosa di Stintino, considerata tra le più belle al mondo e, proprio lì davanti, oltre l’Isola Piana, l’Asinara, compresa nell’area del Santuario dei Cetacei, dichiarata protetta da un accordo firmato da Francia, Italia e Monaco nel 1999 e poi ratificato da una legge italiana del 2001.

Sì, proprio quella dove gli operai della Vynils vivono ormai da 326 giorni, altra vicenda di cui si è riusciti a parlare solo grazie all’impegno delle persone comuni che hanno a cuore il futuro di queste famiglie. Un “parco di carta”, come lo definisce Greenpeace, dove non esistono norme di sicurezza e limiti allo sviluppo industriale. Ecco, proprio questi splendidi paradisi sono stati – per ora – risparmiati dal disastro solo grazie al vento di maestrale, che ha trasportato il petrolio verso est, verso Platamona e, in queste ultime ore, Castelsardo.

Forse, dico forse, se la marea nera avesse intaccato queste zone, ora lo saprebbe tutta Italia. Almeno 18 quintali di petrolio dispersi in mare (ma forse molti di più), una chiazza che ieri (sabato, ndr) è stata avvistata anche vicino alla Corsica (forse il governo francese si muoverà di più?); cumuli di catrame sulle spiagge, che si appiccicano ai piedi degli oltre 150 uomini e donne che in questi giorni stanno ripulendo la zona, che uccidono pesci e penetrano in profondità nella sabbia. Fino ad ora sono più di 1000 i sacchi raccolti ogni giorno, pieni di “palle gelatinose” di petrolio. Dei 18 km di spiaggia ne sono stati parzialmente ripuliti ad oggi (domenica, ndr) poco meno di 6. Un duro lavoro che difficilmente si concluderà in tempi brevi. Com’è possibile che non se ne parli? Com’è possibile che un incidente simile sia stato inizialmente sottovalutato a tal punto da permettere che tutto il petrolio giungesse in mare e, successivamente, sulla spiaggia? Di chi sono le colpe? Vogliamo sapere se ci sono stati ritardi negli interventi, perché i sistemi di prevenzione e di emergenza non hanno funzionato, perché le nostre coste, per l’ennesima volta, non sono state tutelate. Sono queste le domande che ci stiamo ponendo e vorremmo che qualcuno rispondesse. Perché non esistono spiagge di serie A e spiagge di serie B, perché un disastro ambientale di tali proporzioni dovrebbe interessare e preoccupare l’intera nazione, e dovrebbe essere punito. Desideriamo che la nostra terra ritorni a sorridere, che ritrovi la propria dignità, che possa affidarsi ad energie nuove e pulite per crescere, e non essere schiava di petroliere, inquinamenti e interessi economici che poco portano al bene dell’isola. Chi ha causato questa strage deve pagare. Rivogliamo il nostro mare, i nostri pesci, le nostre dune di sabbia. Ma soprattutto vogliamo delle risposte.

Per chi volesse sostenere la nostra causa, cliccando qui si può iscrivere al gruppo creato su Facebook e leggere la lettera che è stata inviata ai vertici della E.On, alle istituzioni e alle associazioni ambientaliste.

Cliccando qui potete invece vedere il video girato da Lello Cau (Presidente di Sardegna Ambiente) due giorni dopo il disastro ambientale di Porto Torres.

http://www.greenme.it/approfondire/opinioni/3901-disastro-ambientale-a-porto-torres-la-marea-nera-italiana-di-cui-nessuno-parla

da http://informarexresistere.fr/

14 gennaio 2011

Bologna: 29-30 gennaio, conclave ecologista e civico


Conclave ecologista e civico: Bologna sabato 29 domenica 30 gennaio

La Scuderia, Piazza Verdi 2

per adesioni:



Abbiamo un Sogno, referente Marco Boschini: e-mail marcoboschini@alice.it.

Centro Nuovo Modello di Sviluppo, referente Francuccio Gesualdi: email coord@cnms.it

Costituente Ecologista, referente Giuliano Tallone, email: giulianotallone@tin.it

Gruppo delle Cinque Terre, referente Maurizio Di Gregorio, email: ecoconclave@gmail.com

E… (l’elenco è liberamente aperto a tutti i movimenti che vorranno aderire)

Si è avviato il percorso che porterà, per la prima volta in Italia, ad un incontro nazionale fra le tante realtà ecologiste e civiche per discutere se esistono le basi per l’avvio di un processo unitario e aperto verso un nuovo movimento politico nazionale inclusivo e partecipato; un evento storico nel quale si esprimeranno idee e proposte per dare un contributo attivo in questa direzione

*

*Bologna - La Scuderia, Piazza Verdi 2
Orario dell'incontro:

SABATO 29 GENNAIO
ore 11 - 13: apertura lavori e presentazione progetti dei copromotori
ore 13 - 14,15: pausa pranzo
ore 14,15 - 16: presentazione progetti e proposte gruppi di lavoro
ore 16 - 20: commissioni/gruppi di lavoro
ore 20-21.30: pausa cena
ore 21.30-24: relazioni lavori di commissione

DOMENICA 30 GENNAIO
ore 9,30 - 13: dibattito generale
ore 14,15 - 17,15: dibattito e fine lavori

Si richiede l'iscrizione dei partecipanti.

Elenco pernottamenti e ristoranti bio nella zona

http://maps.google.it/maps/ms?hl=it&ie=UTF8&msa=0&msid=101637600960891460950.0004923024dce2346314f&z=14

http://maps.google.it/maps/ms?f=q&source=s_q&hl=it&geocode=&ie=UTF8&hq=la+scuderia,&hnear=Bologna,+Emilia+Romagna&msa=0&msid=101637600960891460950.0004921d9676657ba5032&ll=44.523437,11.442604&spn=0.111618,0.308647&z=12

10 gennaio 2011

GruppoCinqueTerre: resoconto 7° incontro nazionale del 3-4-5 gennaio 2010


1) Nell’incontro si è analizzato lo stato del processo di aggregazione degli ecologisti italiani, e discusso su come ristrutturare il GCT per sostenere con un progetto adeguato questo processo.

2) Il ruolo del GCT, che si limitava perlopiù alla elaborazione teorica del progetto e del processo (Cittadini del Pianeta: progetto di transizione dei 35 punti ), delegando poi totalmente ad altre organizzazioni l’iniziativa di un’articolazione territoriale, organizzativa e diffusiva del processo stesso, non risulta adeguato. Sembrano riproporsi processi di costituzione di piccoli poli tendenzialmente antagonisti fra loro nell’area che dovrebbe essere coinvolta nella prima fase del processo unitario, quella necessaria ad avere la “massa critica” iniziale; è quasi assente la volontà di coinvolgere le aree limitrofe (grillini, aree in uscita dalla sinistra, ma anche donne, nuovi animalisti, movimenti giovanili ..) Si continua addirittura a confondere i nuovi ecologisti italiani con i vecchi gruppi ambientalisti o con una nuova denominazione dei verdi. Conseguentemente lo stesso uso della parola ecologisti resta, al momento, problematico. Per avviare forme transitorie di aggregazione si è stimolata la nascita degli ecologisti del Piemonte e del Lazio.

3) Il Conclave del 29-30 gennaio, che da tempo avevamo proposto, stenta ad essere visto come un momento di confronto aperto in cui si misurino eventuali proposte diverse e si verifichi quanto hanno in comune per procedere ad un successivo passaggio della aggregazione; sembra tollerato da alcuni come un passaggio stretto verso la riproposizione di un partitino privo di alcuna forma di innovazione e con scarsa autonomia politico-culturale, da altri un po’ forzosamente descritto come appuntamento di un competitore moderato contrapposto ad un vero partitino anticasta in formazione; da molti comunque non viene percepito come un evento storico che condizionerà comunque i prossimi anni, ma come un incontro fra i tanti.

La proposta dei Tavoli nazionale e regionali e la definizione di 100 figure che pilotano il processo non è stata al momento capita, poco presa in considerazione, forse vista con sospetto e osteggiata, in quanto tutto diviene più trasparente e partecipato, e questo è alla base dell’ attuale impasse. C’è comunque ancora la possibilità nelle prossime settimane, di migliorare almeno in parte la prospettiva attuale, se prevalgono le pulsioni positive su quelle negative, facendo leva su una vocazione unitaria confusa ma diffusa alla base. Facendo leva anche sui nostri blog i cui contatti sono da 10 mesi in lenta costante salita (in particolare quello di GCT).

4) Si impone un’azione di supplenza da parte del GCT in termini di sollecitazione all’impegno politico di altri soggetti che finora sono stati alla finestra e di coagulo della base sociale che dovrebbe sostenere il processo di ricomposizione del movimento ecologista italiano. Oltre all’ opera diplomatica e di elaborazione intrapresa si dovrà procedere con nuovi strumenti, in particolare la aggregazione transitoria di una rete nazionale ecologista-civica di gruppi diversi che condividano almeno in parte l’idea della aggregazione larga, un portale nazionale che li tenga in rete ed altri strumenti utili (seminari, servizi comuni, rivista.. ) .Si è accennato a campagne nazionali per il 2011 (sistema proporzionale e democrazia / nuova mobilità / città in transizione / rinnovabili e nucleare) che si ridiscuteranno nel prossimo incontro previsto entro fine gennaio.

5) Le forme organizzative che assumerà il GCT da subito si baseranno sulla adesione attraverso:

a) la sottoscrizione di un brevissimo manifesto (allegato)

b) il sostegno economico al GCT di 10 euro al mese ( base) con quote più alte per chi può ed una quota ridotta a 5 euro per chi ne richiede l’applicazione. Con cadenza semestrale gen/giugno – luglio/ dic. e con diverse forme di raccolta. L’autofinanziamento andrà comunque assicurato anche attraverso altre strade (contributo a seminari, pubblicità ecocompatibile sull’insieme degli strumenti in rete e su carta, azioni cooperative.. ).

c) l’indicazione della propria competenza ed esperienza e dell’area di impegno possibile.

6) La partecipazione agli incontri nazionali anche di osservatori verrà fortemente allargata a partire dai molti che ci contattano e non ricevono risposta per mancanza di strutture idonee a farlo (molte decine negli ultimi mesi ). Già nel 7° incontro, convocato 6 giorni prima in periodo festivo, si sono mandati 75 inviti con 26 presenti (11 donne) da 5 regioni. (quasi metà, alcuni sicuramente interessati, non hanno letto l’invito per assenza o vacanza già in corso)

7) Scartando l’ipotesi di mailing list libera come forma di comunicazione (considerata inadeguata e sbagliata) o il giro non virtuoso di mail casuali, si attrezzerà un group (google?) con un moderatore responsabile per far circolare fra gli aderenti news, documenti e contributi importanti evitando i meccanismi inconcludenti di facebook o delle mailing-list .

8) Dalla fase transitoria di riorganizzazione il GCT dovrà uscire non solo come pensatoio indipendente, ma anche come elemento pratico di organizzazione sociale, culturale, economica, con l’estensione della presenza territoriale e la assunzione di competenze necessarie ad oggi non presenti ne ricercate e con un legame più diretto con i movimenti come si è fatto in parte nella scadenza antinucleare del 6-7 novembre, da noi promossa . Gli EcoHub multifunzione nel territorio sono in prospettiva la sede fisica di questa nuova organizzazione, nodi territoriali delle reti orizzontali e verticali (al di là del GCT) che vanno messe in comunicazione.

Per il GCT in prospettiva si dovrà andare alla costituzione di una Fondazione partecipata, già decisa da tempo ma non attuata.

9) L ’allargamento di ruolo non dovrà pregiudicare minimamente le caratteristiche genetiche del GCT il cui valore consiste nell’approccio originale teorico ( “verso la casa comune di tutti gli ecologisti italiani “, non di uno o l’altro dei suoi frammenti ), europeo ( riferimento al pensiero innovatore di Cohn Bendit e all’esperienza tedesca, entrambe totalmente ignorate o incomprese in Italia) e nel non farsi coinvolgere ne scontrarsi pubblicamente con le dinamiche settarie, opportuniste, non trasparenti, (stato liquido, per tutti contro nessuno ).Dobbiamo rendere pubblico, largo, trasparente, comprensibile, partecipato, ogni passaggio e contenuto.

10) Sarà necessario aprire le porte del GCT e nello stesso tempo circoscrivere la partecipazione, chiarire gli equivoci e applicare i criteri indicati di appartenenza al GCT con un processo graduale ma chiaro. Il GCT, pur avendo un seguito crescente di generici amici, simpatizzanti, sostenitori, deve avere aderenti, i più numerosi possibili, che però ne comprendano il carattere innovativo ed originale senza equivoci. Non è utile un proselitismo a tutti i costi se non si comprende il progetto. Precisando gradualmente anche le forme di partecipazione e democrazia interna e la tutela contro possibili snaturamenti (lucchetti). Prendendo atto che solo con il tempo (e non sempre) chi si avvicina al GCT comprende e condivide l’insieme progettuale che è alla base del gruppo, lontano da interessi elettorali o dirigisti ma basato sulla equi-valenza delle 4 gambe (politica-sociale-culturale-economica). Con l’obiettivo di avviare una trasformazione del paese e non dei propri destini personali. ( mission etica) e ribadendo che, di fronte alla critica frequente di “sognatori” rivendichiamo di sostenere l’unica ipotesi “realistica” di cambiamento (l’aggregazione fra diversi nel grande arcipelago ecologista e civico e l’autonomia dal vecchio sistema dei partiti italiano ).

Manifesto di Adesione al GCT

Per il progetto della casa comune di tutti gli ecologisti italiani

"Con il termine ECOLOGISTA intendiamo una vasta area culturale e sociale trasversale ed esterna ad ogni schieramento politico, che rivendica il diritto-dovere ad una relazione armonica tra uomo e natura, tra esseri umani, tra uomo e donna, e all’interno dell’uomo tra vita e coscienza.

E' una cultura nella quale si esprimono le associazioni ed i movimenti ambientalisti, nonviolenti, dei diritti civili, di solidarietà e giustizia sociale, di lotta alle mafie, alla casta ed alla corruzione, di trasformazione della coscienza, e che lavorano in difesa delle comunità e del bene comune , per il riconoscimento, l'accoglienza ed il pieno rispetto di ogni forma di esistenza e di differenza tra gli esseri viventi.

Il GCT, come parte integrante ed attiva di quest'area
si propone tre obiettivi:

-riunire in un'unica aggregazione i vari gruppi e movimenti dell’area ecologista e civica attraverso un progetto per la transizione economica, sociale, politica, culturale verso un'altra Italia possibile.

-contribuire alla realizzazione di programma ecologista che superi l’idea della crescita senza limiti e infinita e dia risposte concrete alle richieste di cambiamento virtuoso del paese, in collegamento con i diversi movimenti ecologisti e verdi in Europa e nel mondo.

-promuovere nuovi strumenti di organizzazione nel territorio e di comunicazione in rete del movimento ecologista.

*

9 gennaio 2011

La situazione della Tratta oggi


di Fredo Olivero

1. Cosa emerge di nuovo sul fenomeno in generale.

Il fenomeno “strutturale” resiste e si modifica dividendosi oggi in due grandi settori : prostituzione e tratta, al chiuso e all’aperto. Al chiuso riguarda in particolare il fenomeno di origine europea (sia dei nuovi paesi dell’UE, sia dei paesi dell’est europa). Interessa in particolare Romania, Albania, Polonia e , per l’Asia : Cina , Tailandia e Filippine. Ha dimensioni significative, sia nei locali, sia in casa. Le cinesi sono normalmente solo in casa, gestite da connazionali. Per quanto riguarda la Nigeria, Ghana e Africa Subsahariana in genere, la strada è il luogo privilegiato di lavoro.

Il Parsec ( la 1a ricerca a inizio anni ’90 è loro) ha rifatto la ricerca con l’UNICRI. Risultato in Italia circa 6.500 (10.000 secondo l’Ambasciata). Dal 2000 è cresciuto il numero di donne Nigeriane (8/10.000) ma è stazionario. Le minori rappresentano il 10% circa (tra 730 e 915) su tutto il territorio italiano.

Il totale delle donne sfruttate è tra 23.000 e 26.500.

2. CHE COSA EMERGE

La via della prostituzione forzata è molto strutturata. Via terra o via aerea dall’ Est Europa, via aerea (come turisti) dall’Asia, la Nigeria (in parte), via terra (Libia) per l’Africa subsahariana e Nigeria. La novità per le nigeriane è l’attraversamento della Libia, il “lavoro in case chiuse” molto strutturate, illegali e l’ulteriore viaggio in Italia.

3. IL PERCORSO

Uomini e donne gravitano nei villaggi di origine, con il compito di individuare fasce disagiate di popolazione (prive di marito o relazioni sociali, vittime di violenza). Sono condizioni serie associate al dialogo ambientale (delta del Niger). A renderle vittime sono sovente persone di fiducia, anche propri famigliari, che offrono viaggio (che dovranno restituire giunte in Italia) e permesso di lavoro falso. Si aggiungono le “maman” che si associano ai reclutatori che le porteranno fuori Libia ( pagati dalla “maman”). In Libia vengono costrette a prostituirsi per pagare il debito di viaggio (le case di prostituzione di Tripoli, sono gestite da speculatori locali e Nigeriani). Le tappe sono Nigeria, Niger, Chad e Libia. Autisti assoldati dai trafficanti guidano camion e furgoni nel deserto. Ci sono intermediari per i passaggi alle frontiere e gli stessi sfruttatori sono collegati con chi le sfrutta stabilmente in Italia. Giunte in Italia, il tragitto burocratico per la maggioranza è la “richiesta di asilo” o il Centro di Detenzione (CIE) per le più sfortunate.

In Italia la sorpresa del lavoro che è la strada, la violenza, la convivenza in casa con altre donne sfruttate e la “maman” che le controlla. Il fenomeno riguarda anche la Spagna. Il controllo è noto : la perdita di libertà, la prostituzione forzata, il debito (almeno 50.000 Euro!) da restituire con il lavoro.

4. LA POSSIBILE USCITA

E’ semplice per chi è “libera” di decidere, ha il coraggio di non pagare, di assoggettarsi ai riti woodoo senza paura. Le associazioni che le seguono sono molte e disponibili, non tutte molto capaci, ma molte sono le proposte. Ogni anno il nostro servizio ne incontra almeno 400: 100 hanno il rifugio, una decina fanno l’art. 18, le altre o attendono sanatoria o si assoggettano al lavoro di strada. Le possibilità teoriche ci sono, la situazione umana di queste donne è difficile e le proposte, spesso, sono trascurate. maggio 2010

L’ accordo Fiat e gli ecologisti


Un seminario a Marghera il 22-23 gennaio

di Guido Viale

Ci sarà pur una ragione per cui la totalità dell’establishment italiano, dal Foglio della ex coppia Berlusconi-Veronica a Pietro Ichino - quel che resta della componente pensante di un partito ormai decerebrato - converge nel chiamare “modernizzazione” il diktat di Marchionne (“o così, o si chiude”). Che per gli operai di Mirafiori (età media, 46 anni; ridotte capacità lavorative – provocate dal lavoro alle linee – 1.500 su 5.500; molte donne) vuol dire: 144 di rendimento (sistema Ergo-Uas); 18 turni, compresa la notte; tre pause di dieci minuti per soddisfare – in coda – i bisogni fisiologici (a quell’età la prostata comincia a pesare; e nessuno lo sa meglio dell’establishment italiano, ormai alla grande sopra i 60 anni); mensa anche a fine turno (otto ore di lavoro senza mangiare); 120 ore di straordinario obbligatorio, divieto di ammalarsi in prossimità delle feste, più – è un altro discorso, ma non meno importante – divieto di sciopero per chi non accetta e “rappresentanti” degli operai scelti tra, e da, chi è d’accordo con il padrone. Mentre “converge”, l’establishment”, nel chiamare invece “conservazione” – o anche “reazione”; così Giovanni Sartori sul Corriere dell’8 gennaio – la scelta di opporsi a questo massacro. Nessuno di quei sostenitori della modernità si è però chiesto se il progetto “Fabbrica Italia” della Fiat, nel cui nome viene imposto questa nuova disciplina del lavoro, ha qualche probabilità di essere realizzato.
Nessuno – tranne Massimo Mucchetti – ha rilevato che i 20 miliardi dell’investimento promesso non sono in bilancio e non si sa da dove verranno.

Nessuno può né deve sapere a chi e che cosa saranno destinati. Per ora le promesse sono 1.700 milioni di investimento per due stabilimenti, 10.700 lavoratori e tre nuovi “modelli” di auto, per una produzione complessiva di circa mezzo milione di vetture all’anno. Fanno, poco più di 150mila euro per addetto e, supponendo che un modello resti in produzione tre anni, poco più di mille euro per vettura (calcolando una media, tra Suv, Alfa e Panda, di 20mila euro a vettura, il 5 per cento del loro prezzo). Se una parte dei nuovi impianti, come è ovvio, servirà anche per i modelli successivi, l’investimento per vettura è ancor meno.
Nessuno – o quasi - si è chiesto quante possibilità ha Marchionne di vendere in Europa un milione all’anno di auto in più. Di fronte a un mercato di sostituzione, nella migliore delle ipotesi, stagnante, vuol dire sottrarre almeno un milione di auto alle vendite della Volkswagen o delle imprese francesi ben sostenute dai loro governi. Difficile crederci, proprio ora che Fiat perde colpi e quote di mercato sia in Italia che in Europa. Per riuscire a piazzare mezzo milione all’anno di Alfa (vetture, non marchio), è già stato detto che dovrà venderle anche sulla Luna. Allora, che le quotazioni della Fiat crescano è solo il segno che la Borsa è ormai una bisca fatta per pelare il “risparmiatore”. Nessuno – nemmeno Giovanni Sartori, che pure “aveva previsto tutto” ed è molto in ansia per le sorti del pianeta - si è veramente chiesto che futuro abbia, tra picco del petrolio, contenimento delle emissioni, misure anticongestione e inquinamento urbano, l’industria dell’automobile in Europa e nel mondo. Eppure il tema meriterebbe qualche riflessione. In Europa c’è già un eccesso di capacità produttiva del 30-40 per cento; negli Stati Uniti anche: Il sole24ore del 6 gennaio ci informa che “nei prossimi cinque anni” anche in Cina – la nuova frontiera del mercato automobilistico mondiale – ci sarà una sovracapacità produttiva del 20 per cento.

Per il momento – da Repubblica, 7 gennaio – apprendiamo che “Pechino soffoca tra i gas” (e per ingorghi e congestione); tanto che sono stati contingentati e sottoposti a un sorteggio i permessi di circolazione. E qualche tempo fa una coda di cento chilometri alle porte di Pechino si è sciolta solo dopo un mese. Non sono buone notizie per l’industria automobilistica. Ma anche il governo della “locomotiva del mondo” comincia a pensare ai suoi guai “La desertificazione è il problema ecologico più grave del paese” ha affermato Liu Tuo, capo dell’ufficio cinese per il controllo della desertificazione (il manifesto, 6 gennaio). Niente a che fare con la produzione e la messa in circolazione di 17 milioni di auto, aggiuntive, non sostitutive, in un anno?
La conclusione è chiara: la “modernizzazione” al sostegno della quale è sceso in campo, con spirito militante, tutto l’establishment italiano, è questa: una corsa verso il basso delle condizioni di chi lavora, facendo delle maestranze di ogni fabbrica una truppa in guerra contro le maestranze della concorrenza (sono peggiorate molto anche quelle degli operai tedeschi e francesi, nonostante i salari più alti: lo dimostra un grave aumento delle malattie professionali) e, come risultato di tanti sacrifici, la desertificazione del pianeta Terra. Se questa è la “modernizzazione” – e che altro, se no? – diventa anche più chiaro che cosa significa opporsi alla sua sostanza e alle sue conseguenze. Non la “conservazione” dell’esistente – sarebbe troppo comodo – come sostengono i fautori delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione, ma la progettazione, la rivendicazione e la realizzazione di un mondo totalmente altro, dove la condivisione sostituisca la competizione e la cura dei beni comuni sostituisca la corsa all’appropriazione privata di tutto e di tutti: il che ovviamente non è questione di un giorno o di un anno – e in parte nemmeno di uno o due decenni – né di una semplice dichiarazione di intenti, per quanto articolata e documentata possa essere.

Quel mondo va costruito pezzo per pezzo. A partire quasi da zero. Ma sapendo che una “moltitudine inarrestabile” composta da migliaia di comunità e da milioni e forse miliardi di esseri umani, ciascuno a modo suo, cioè secondo le condizioni specifiche in cui si trova a operare e a cooperare con il suo prossimo, aspira e già lavora in questa stessa direzione. Nel numero citato de Il sole24ore un articolo dal titolo “Tra gli operai, un sì per il futuro” (ma il testo dice esattamente l’opposto) registra una condanna unanime del nuovo accordo (nessuno lo considera, come fa invece l’establishment, un passo avanti); ma tutti piegano la testa dicendo che non c’è alternativa. “Però – sostiene Bruno, un quadro della Fiom – la posta in palio è il lavoro, e chi si fa blandire dalle sirene degli estremismi e dalle ideologie sbaglia strada”. “O sa – aggiunge – di avere qualche alternativa pronta”.
Il problema è proprio questo. Non ci sono “alternative pronte”. Quindi bisogna approntarle e non è un lavoro da poco. Ma ormai, che l’alternativa è la conversione ecologica del sistema industriale e innanzitutto, per il suo peso, per il suo ruolo e per le sue devastazioni, quella dell’industria automobilistica – che non vuol dire automobili ecologiche, che è un ossimoro, ma mobilità sostenibile – lo ha realizzato anche la Fiom.

La “modernizzazione” di Marchionne sta cambiando a passi forzati i sindacati. Quelli firmatari hanno scelto per sé la funzione di guardiani del regime di fabbrica: che era il ruolo dei sindacati “sovietici” e della Cina “comunista”.
Ma cambia anche il ruolo dei sindacati che non rinunciano alla difesa dei lavoratori e al conflitto. Che per mantenere la loro indipendenza devono cercare sostegno e offrire una prospettiva anche a chi si batte contro lo stato delle cose fuori delle fabbriche.

Così il raggruppamento Uniti contro la crisi, a cui aderiscono anche molti membri della Fiom, ha convocato per il 22 e il 23 a Marghera un primo seminario per discutere e affrontare il problema della riconversione. E’ un progetto che intende coinvolgere la totalità dei movimenti ambientalisti, gran parte dei comitati e dei collettivi che si sono battuti in questi anni per “un altro mondo possibile”. E, soprattutto, vuole coinvolgere un movimento degli studenti, dei ricercatori e dei docenti schierati contro la distruzione della scuola, dell’università, della ricerca e della cultura imposta dal governo, che su questi temi può trovare il terreno più fertile per dare continuità e respiro al proprio impegno.

Produrre e lavorare meglio, con democrazia


Lettera di 46 economisti sulla Fiat

I fatti dietro l'accordo sullo stabilimento di Mirafiori, il ridimensionamento produttivo della Fiat in Italia e il crescente orientamento finanziario, le alternative alla strategia dell'azienda. Lettera di 46 economisti sul conflitto Fiat-Fiom

Il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l’analoga vicenda per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco - è importante per il futuro economico e sociale del paese. Giornali e tv presentano la versione Fiat, sostenuta anche dal governo, per cui con la crescente competizione internazionale nel mercato dell’auto i lavoratori devono accettare condizioni di lavoro peggiori, la perdita di alcuni diritti, fino all’impossibilità di scegliere in modo democratico i propri rappresentanti sindacali.

Vediamo i fatti. Nel 2009 la Fiat ha prodotto 650 mila auto in Italia, appena un terzo di quelle realizzate nel 1990, mentre le quantità prodotte nei maggiori paesi europei sono cresciute o rimaste stabili. La Fiat spende per investimenti produttivi e per ricerca e sviluppo quote di fatturato significativamente inferiori a quelle dei suoi principali concorrenti europei, ed è poco attiva nel campo delle fonti di propulsione a basso impatto ambientale. A differenza di quanto avvenuto tra il 2004 e il 2008 - quando l’azienda si è ripresa da una crisi che sembrava fatale – negli ultimi anni la Fiat non ha introdotto nuovi modelli. Il risultato è stata una quota di mercato che in Europa è scesa al 6,7%, la caduta più alta registrata nel continente nel corso del 2010.

Al tempo stesso, tuttavia, nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti.

A dispetto della retorica dell’impresa capace di “stare sul mercato sulle proprie gambe”, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno.

A fare le spese di questa gestione aziendale sono stati soprattutto i lavoratori. Negli ultimi dieci anni l’occupazione Fiat nel settore auto a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti, e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane. Le qualifiche dei lavoratori Fiat sono in genere inferiori a quelle dei concorrenti, i salari medi sono tra i più bassi d’Europa e la distanza dalle remunerazioni degli alti dirigenti non è mai stata così alta: Sergio Marchionne guadagna oltre 250 volte il salario di un operaio.

Questi dati devono essere al centro della discussione sul futuro della Fiat. L’accordo concluso dalla Fiat con Fim, Uilm e Fimsic per Mirafiori – che la Fiom ha rifiutato di firmare - prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. L’accordo appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione, e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sul piano delle relazioni industriali i contenuti dell’accordo sono particolarmente gravi: l’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, e cancellerebbe la Fiom dalla presenza nell’azienda e dal suo ruolo di rappresentanza dei lavoratori che vi hanno liberamente aderito. Il referendum del 13-14 gennaio tra i dipendenti sull’accordo, con la minaccia Fiat di cancellare l’investimento nel caso sia respinto, pone i lavoratori di fronte a una scelta impossibile tra diritti e lavoro. In questa prospettiva, la strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia, scaricando costi e rischi sui lavoratori e imponendo un modello di relazioni industriali ispirato agli aspetti peggiori di quello americano.

Esistono alternative a una strategia di questo tipo.

In Europa la crisi è stata affrontata da imprese come la Volkswagen con accordi sindacali che hanno ridotto l’orario, limitato la perdita di reddito e tutelato capacità produttive e occupazione; in questo modo la produzione sta ora riprendendo insieme alla domanda. Produrre auto in Europa è possibile se c’è un forte impegno di ricerca e sviluppo, innovazione e investimenti attenti alla sostenibilità ambientale; per questo sono necessari lavoratori con più competenze, meno precarietà e salari adeguati; un’organizzazione del lavoro contrattata con i sindacati che assicuri alta qualità, flessibilità delle produzioni e integrazione delle funzioni. E’ necessaria una politica industriale da parte del governo che non si limiti agli incentivi per la rottamazione delle auto, ma definisca la direzione dell’innovazione e degli investimenti verso produzioni sostenibili e di qualità; le condizioni per mercati più efficienti; l’integrazione con le politiche della ricerca, del lavoro, della domanda. Considerando l’eccesso di capacità produttiva nell’auto in Europa, è auspicabile che queste politiche vengano definite in un contesto europeo, evitando competizioni al ribasso su costi e condizioni di lavoro. Su tutti questi temi è necessario un confronto, un negoziato e un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori dell’azienda.

In nessun paese europeo l’industria dell’auto ha tentato di eliminare un sindacato critico della strategia aziendale dalla possibilità di negoziare le condizioni di lavoro e di rappresentare i lavoratori. L’accordo Fiat di Mirafiori riduce le libertà e gli spazi di democrazia, aprendo uno scontro che riporterebbe indietro l'economia e il paese.

Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici, ma un inasprimento dei conflitti sociali. Ci auguriamo che governo e forze politiche e sindacali contribuiscano a una soluzione di questo conflitto che ristabilisca i diritti dei lavoratori a essere rappresentati in modo democratico e tuteli le condizioni di lavoro. Esprimiamo la nostra solidarietà ai lavoratori coinvolti e alla Fiom, sosteniamo lo sciopero nazionale del 28 gennaio 2011 e ci impegniamo ad aprire una discussione sul futuro dell'industria, del lavoro e della democrazia, sui luoghi di lavoro e nella società italiana.

da www.sbilanciamoci.info 7 gennaio 2011


7 gennaio 2011

Il porcellum «virtuoso»

Per i Comitati Dossetti per la Costituzione è possibile un utilizzo virpositivo della legge elettorale

di Raniero La Valle e Luigi Ferrajoli *

Una proposta per un «uso virtuoso» della legge elettorale Calderoli viene lanciata dai Comitati Dossetti per la Costituzione e sarà illustrata ai partiti in una Assemblea nazionale il 28 gennaio a Bologna. L'obiettivo è quello di fermare la corsa verso il baratro del sistema politico italiano, facendo della prossima legislatura un momento di discontinuità e di dialogo tra le forze politiche, per ripensare le modalità del bipolarismo e riaprire una strada condivisa per portare a conclusione la ormai troppo lunga e rovinosa transizione italiana.

Ciò comporta però che il prossimo Parlamento non sia il mero risultato della sfida tra due soli contendenti, ma esprima la rappresentanza di tutte le forze politiche, senza il trauma del premio di maggioranza, senza esclusioni predeterminate e senza l'annullamento dell'identità e dell'autonomia dei vecchi e nuovi soggetti politici, a cominciare da quelli di nuova formazione che non possono, prima ancora di cominciare ad esistere, essere costretti ad assimilarsi e a scomparire nel blocco dei partiti maggiori. Dunque sarebbe necessario, almeno per un «giro», un'elezione di tipo proporzionale. Ciò si può ottenere, dicono i Comitati Dossetti, anche se non si riuscisse a modificare la legge elettorale, facendo venire alla luce e rendendo operante l'impianto primariamente proporzionale e pluralistico della stessa legge Calderoli, in modo che attraverso il suo migliore uso da parte delle forze politiche, sia ugualmente possibile «un voto libero ed eguale».

Anzitutto infatti, sottolineano i Comitati, la legge Calderoli non prevede la designazione diretta di un presidente del Consiglio da parte del corpo elettorale (checché possa essere scritto nei simboli) ed anzi esplicitamente fa salve le prerogative del capo dello Stato a cui tocca il conferimento dell'incarico di governo sulla base dei risultati elettorali e della consultazione dei partiti. La legge Calderoli prevede invece l'indicazione di un capo per ciascuna delle coalizioni concorrenti, il quale pertanto può essere una figura rappresentativa e di garanzia, di alto profilo culturale o istituzionale, ma non necessariamente il candidato politico per la guida dell'esecutivo; ogni forza collegata nella coalizione può invece presentare agli elettori il proprio progetto di governo, e sarebbe appunto tra questi che l'elettorato sarebbe invitato a indicare la propria preferenza. È dunque possibile formare coalizioni elettorali più ampie rispetto a delle pure e semplici alleanze di governo, coalizioni che condividano scelte generali di democrazia e di diritto, che enuncino, come richiesto dalla legge, un programma che può comprendere pochi punti essenziali, e che presentino all'elettorato, come espressione rappresentativa della loro intesa, una personalità significativa dei valori condivisi dalle liste collegate, anche se non appartenente ad alcuna di esse e non identificabile con alcuno dei loro specifici programmi politici e di governo.

Riguardo poi ai risultati del voto, la legge Calderoli, facendo proprio l'impianto del Testo Unico del 1957 per le elezioni della Camera e del decreto legislativo n. 533 del 1993 per l'elezione del Senato, prevede, come prima ipotesi e come prima fase della procedura, che tutti i seggi in palio alla Camera e al Senato siano distribuiti in modo proporzionale tra tutte le coalizioni e le liste concorrenti, sulla base di una quota elettorale nazionale (o regionale per il Senato) eguale per tutti, così che i voti di tutti gli elettori pesino tutti allo stesso modo nell'assegnazione dei seggi.

Tuttavia la legge Calderoli introduce a un certo punto una ipotesi subordinata, e cioè che, fatta in via provvisoria l'assegnazione dei seggi, risulti che nessuna coalizione o partito abbia conseguito, grazie ai suoi voti, 340 deputati alla Camera e il 55 per cento dei seggi in ciascuna regione al Senato. A questo punto la legge Calderoli da distributiva diventa redistributiva, toglie i seggi agli uni e li attribuisce agli altri; alla coalizione o lista risultata come la minoranza più forte, (anche per pochi voti rispetto a ciascuna delle altre) aggiunge tanti deputati o senatori quanti ne mancano a 340 (o al 55 per cento nella regione) togliendoli da quelli già assegnati alle altre liste e coalizioni. Di conseguenza si vengono a formare due diverse quote elettorali, una, a cui bastano meno voti, per chi vince, l'altra, per la quale ci vogliono molti più voti, per gli altri; e così i voti dei cittadini non sono più eguali, essendo computati secondo aritmetiche diverse.

Inoltre la legge Calderoli introduce una ulteriore discriminazione, perché stabilisce una soglia di sbarramento che non è eguale per tutti: ai partiti uniti in una coalizione che ottenga un certo numero minimo di voti vengono distribuiti seggi se hanno conseguito il 2 per cento dei voti alla Camera e il 3 per cento al Senato; ai partiti non coalizzati non viene invece distribuito alcun seggio se non hanno superato la soglia del 4 per cento alla Camera e dell'8 per cento al Senato. Questo meccanismo redistributivo dei seggi introdotto come ipotesi nella legge Calderoli, ed esaltato dall'attuale maggioranza come se fosse una nuova Costituzione, può non scattare, in modo tale che la legge, per natura sua proporzionale, non opererebbe la successiva manomissione del risultato elettorale. È sufficiente che i partiti applichino la legge Calderoli con la stessa sagacia con cui, nelle sue ipotesi subordinate, essa è stata concepita.

È sufficiente cioè che tutte le forze e i partiti interessati a un Parlamento eletto, almeno per la prossima legislatura, senza l'alterazione del premio di maggioranza, stabiliscano un «collegamento» in una coalizione non di carattere partitico-politico ma tecnico-istituzionale, che per la sua estensione, superiore a quella necessaria e possibile per la formazione di un governo, possa conseguire per volontà dell'elettorato più di 340 deputati e del 55 per cento dei senatori in ogni regione.

In tal caso non ci sarebbe alcun premio di maggioranza; a tutti i partiti, anche a quelli che avessero dato vita a una coalizione opposta, i seggi sarebbero attribuiti in modo proporzionale secondo la effettiva forza di ciascuno e, non essendoci alcuna ragione che dei partiti siano esclusi dalle coalizioni, per tutti la soglia di sbarramento si abbasserebbe al 2 per cento alla Camera e al 3 per cento al Senato.

Questo uso virtuoso della legge Calderoli prevede pertanto un collegamento di carattere tecnico-istituzionale in una coalizione che potrebbe andare da un capo all'altro dello schieramento politico, ferma restando la comune fedeltà ai valori fondamentali di democrazia e di libertà, e non esclude che all'interno della medesima coalizione, nella stessa campagna elettorale, singoli partiti o alleanze di partiti si candidino a governare, illustrino agli elettori il loro specifico programma e propongano una guida e un ceto di governo; ogni partito e forza politica, dentro e fuori la coalizione, manterrà cioè la propria identità e la propria prospettiva ideale e politica e mostrerà le proprie capacità di aggregazione in vista di obiettivi condivisi; sarà poi, sulla base di risultati elettorali non manipolati, che le ipotesi di governo suffragate dal più largo consenso dei cittadini, potranno tradursi in realtà, in modo che sia nello stesso tempo salvaguardata la governabilità, assicurata da forze omogenee, e la rappresentatività dell'intero corpo elettorale nel rapporto di fiducia col governo e nell'opera delle riforme.

Una tale coalizione, potrebbe risolvere anche la questione delle preferenze. I partiti collegati potrebbero infatti organizzare, una o due settimane prima del deposito delle liste, delle primarie in cui i cittadini, scegliendo quattro o cinque nomi dell'elenco loro presentato dai partiti, determinerebbero l'ordine in cui ciascun partito inserirebbe i candidati nella lista definitiva, ordine che sarebbe quello secondo il quale, come stabilisce la legge, infine verrebbero eletti.

Quella qui suggerita sarebbe, secondo i Comitati Dossetti, la via per uscire dalla lunga stagione dell'odio e avviare una ricomposizione dell'unità spirituale e politica dell'Italia: una via, ma forse anche l'unica via.

* Presidente e Vice-presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione 1 gennaio 2011