27 gennaio 2015

Italicum: da oggi siamo tutti meno liberi


di Massimo Marino


Il Senato ha approvato oggi (184 sì, 66 contrari e 2 astenuti ) con il voto favorevole di PD e Forza Italia ( e la provvisoria appendice di Alfano) la più vergognosa legge truffa che mai nessuno in Europa ha avuto il coraggio di proporre nel dopoguerra. Difficile paragonarla alla legge fascista di Mussolini (la famosa legge Acerbo ) con la quale venne azzerata la democrazia rappresentativa nel voto e che spianò la strada all'avvento del fascismo, che manteneva però alcune garanzie alle opposizioni che sono assenti in questo testo. Con questa legge, praticamente incompresa dal 99% degli italiani, il partito che prende un voto in più del secondo ( non importa se ha preso il 50 o il 25 o il 15% ) ottiene il 55 o 53% dei seggi alla Camera e potrà governare da solo. Se non otterrà ( come coalizione !) il 40% al primo turno, il partito vincente otterrà comunque il 53% al secondo turno nel ballottaggio con la coalizione arrivata seconda. 


Il voto ha sanzionato la definitiva nascita del nuovo partito trasversale ( una vera innovazione all'italiana) fondato da Renzi  e Berlusconi , il cosiddetto partito del Nazareno con il quale ormai quotidianamente Forza Italia garantisce alla bisogna la maggioranza al PD in ogni occasione su tutte le ''riforme''  di smantellamento della Costituzione, delle regole elettorali  e di tutta la legislazione di rilievo. 

Il meccanismo messo a punto dal nuovo partito, ben congegnato e reso pressoché  incomprensibile agli elettori, ha come primo obiettivo di rendere impossibile qualunque ruolo di rilievo al M5S ( o ad altre forze rilevanti che possano crescere nel paese)  nel prossimo Parlamento.


E' già previsto che al momento delle prossime elezioni il partitino di Alfano , oggi momentaneo alleato di Renzi, si ricongiunga a Forza Italia in modo che, nel caso di ballottaggio, non sia il M5S ( oggi secondo partito) ma sia il cosiddetto centrodestra, rapidamente riaggregato alla bisogna per l'occasione in un'unica coalizione, a partecipare al ballottaggio lasciando Grillo ( incapace di costruire alleanze) nell'angolino.


Fra i vari capolavori del testo due in particolare vanno chiariti. E' stato abbassato dall'8% al 3%  il quorum per ottenere degli eletti. Apparentemente si tratta di una garanzia per i partitini minori , ad esempio SEL e NCD o altri , che nel caso stessero nelle due coalizioni protagoniste dell'accordo pur non raggiungendo il 3% contribuirebbero all'obiettivo del 40% che darebbe il 55% degli eletti al solo partito vincente.  L'abbassamento del quorum ( che in molti paesi è definito attorno al 5% almeno)  in realtà ha un secondo fine: quello di favorire la frammentazione e scoraggiare aggregazioni rilevanti sia alla sinistra del PD che alla destra di Forza Italia mantenendo così una forzosa supremazia dei due nazareni.


L'obiettivo inconfessabile dell'accordo Renzi-Berlusconi  riguarda anche la neutralizzazione a proprio favore delle tendenze astensioniste e del voto di protesta. Con il meccanismo ultramaggioritario definito si annulla di fatto il voto espresso da alcuni milioni di elettori . Nel caso di successo al primo turno ( il 40%)  almeno 4-5 milioni,  il cui voto verrebbe reso nullo  e ''girato''  praticamente al partito antagonista a quello scelto dall'elettore. Nel caso di ballottaggio si arriverebbe al probabile risultato che, in presenza di tre poli di rilievo, che è più o meno la situazione che si presenterà,  parecchi milioni di elettori del terzo polo escluso dal ballottaggio, presumibilmente quelli del M5S, non potrebbero che scegliere di starsene a casa o di votare una delle due coalizioni che con questo testo li ha praticamente resi ininfluenti. Molti esperti delle tecniche elettorali valutano che, in caso di ballottaggio, difficilmente si supererebbe i 20-25 milioni di votanti sui 50 circa che hanno ( anzi avevano ) diritto di voto. 


Va segnalato nel voto di oggi il patetico comportamento della cosiddetta sinistra PD. Critici sul testo su aspetti del tutto marginali, come quello dei capilista bloccati, preoccupati più che altro di garantirsi qualche spazio di rielezione, non hanno votato contro ma hanno scelto di non partecipare al voto uscendo dall'aula ( erano 24 pressoché tutti del PD). Secondo il regolamento del Senato la loro uscita, peraltro ininfluente sul risultato data la larga maggioranza favorevole data da PD e Forza Italia, ha però abbassato il quorum permettendo alla Ministra Boschi di dichiarare che i voti del solo gruppo  PD sarebbero stati sufficienti comunque per l'approvazione. 


Per finire la pena il gruppetto residuo di Vendola (SEL) per il quale si potrebbe coniare un nuovo detto popolare : quello di tenere un piede non in due ma più abilmente in tre scarpe. Hanno votato contro.  Tuona Repubblica ''SEL ha puntato il dito contro governo e maggioranza parlando di "metodo indegno" raggiunto "a colpi di imbrogli e trucchi". Nei giorni scorsi Vendola è improvvisamente ricomparso in prima linea sull'onda del voto in Grecia, diventando improvvisamente ( e provvisoriamente ) il mentore italiano di Tsipras. Fino alle elezioni europee Vendola si dichiarava in procinto di aderire alla componente europea dei Democratici ( quella di PD, Hollande, Pasok greco, etc ) e non a quella della Linke a cui fa riferimento Tsipras. Ultimamente sul palco con Fassina, Civati, etc ,tutti per un attimo sostenitori di Tsipras, ha inventato l'ipotesi, di pannelliana memoria, della doppia ( o forse tripla ?) tessera.
Nel frattempo però,  lontano dai riflettori, si è dispiegata un offensiva all'esterno e all'interno dell'area dell'Altra Europa ( la lista con una nascita travagliata che alle elezioni europee ha ottenuto i suoi  tre eletti , tra i quali Barbara Spinelli, nel nome della Linke e di Tsipras). La lista è da mesi di fatto in stand-by  non essendo chiaro a chi serve. L'offensiva di fatto opera   per sbarazzarsene ( o renderla muta)  essendo diventata uno scomodo ingombro, di cui liberarsi al più presto,  per i grandi, soliti, vecchi attori della ennesima rifondazione della sinistra, che alle europee erano stati per un momento messi di lato permettendo alla lista di raggiungere il 4%. Chi sembra nel mirino sono le componenti interne migliori, ad esempio Viale, ma forse  anche altri con ruoli significativi sul piano istituzionale.
E' utile ricordare che, come già avvenuto nelle recenti elezioni dell'Emilia Romagna, dove SEL in coalizione con il PD si è contrapposta di fatto alla lista L'altra Emilia Romagna , lo stesso avverrà nelle otto regioni che nella prossima primavera andranno al voto.
Vendola e SEL, sull'orlo della irrilevanza, rispondono bene al detto del vecchio Cohn Bendit: ''sono d'accordo che serva nominare un Re, pongo solo una piccola condizione per discuterne : che sia io''. 


Per chiudere in bellezza questo rancoroso articolo:  Repubblica. Il giornale che meglio rappresenta questo strano regime postmoderno all'italiana, nello spiegare ( si fa per dire)  ai suoi lettori che cosa è la più ultramaggioritaria legge elettorale mai concepita  in Europa inizia la sua ''scheda'' ( praticamente un arma di distrazione di massa dei suoi lettori ) affermando che l'Italicum è una legge elettorale di tipo proporzionaleVedere per credere.  


Suma bin ciapà ( ''siamo ben messi'' in piemontese )

26 gennaio 2015

Sanità agli sgoccioli per tagli




 di  Roberto Ciccarelli *

Welfare. La Corte dei Conti: l’austerità mette a rischio i livelli minimi di assistenza («Lea»). Il «rigore» pagato dai ticket dei pazienti (+66% dal 2009) e dal blocco del personale

Insieme alla scuola, la sanità ha finan­ziato l’austerità in Ita­lia dal 2009 a oggi. È quanto emerge dal lungo capi­tolo dedi­cato dalla Corte dei Conti alla sanità nell’ambito della rela­zione sulla gestione finan­zia­ria degli enti ter­ri­to­riali per il 2013. I risparmi otte­nuti dai pesanti tagli impo­sti alla sanità dovreb­bero essere inve­stiti nell’assistenza ter­ri­to­riale e domi­ci­liare e nell’ammodernamento tec­no­lo­gico e infra­strut­tu­rale. In caso con­tra­rio scat­te­rebbe l’allarme rosso per i livelli essen­ziali di assi­stenza (Lea). A lungo andare, emer­ge­reb­bero defi­cit assi­sten­ziali, soprat­tutto al Sud.
I tagli hanno fatto cer­ta­mente fatto sbal­lare i conti ma, dice la magi­stra­tura con­ta­bile, nella sanità si è rispar­miato addi­rit­tura più del pre­ven­ti­vato dai governi dell’austerità Berlusconi-Monti-Letta-Renzi. La spesa per il ser­vi­zio sani­ta­rio nazio­nale, nel trein­nio 2011–2013, “è risul­tata essere, a con­sun­tivo, pari a 111.094, 109.611 e 109.254 milioni, dun­que infe­riore di ben 4 miliardi di euro (per il 2012) e di circa 3 miliardi (per il 2013) rispetto alle stime con­te­nute nella Legge di Sta­bi­lità 2013. È stato regi­strato un decre­mento nomi­nale del 2,8% rispetto al 2010, pari a 3,1 miliardi di euro.

Nel 2013, al netto degli altri tic­ket sulla dia­gno­stica e le pre­sta­zioni spe­cia­li­sti­che, i cit­ta­dini hanno ver­sato 1.436 milioni, pari all’1,3% della spesa sani­ta­ria cor­rente com­ples­siva, con una media di circa 24 euro a testa. Nel qua­drien­nio esa­mi­nato dalla corte, è stato regi­strato un aumento del numero di ricette del 6,3%, e un boom del 66,6% dei tic­ket e com­par­te­ci­pa­zione. L’obiettivo di dimi­nuire la spesa far­ma­ceu­tica ospe­da­liera, e quella per beni e ser­vizi, è stato man­cato. In altre parole, i tagli alla sanità sono stati pagati, in gran parte, dai cit­ta­dini stessi. A que­sto è ser­vito l’aumento dei tic­ket che, insieme al blocco del turn-over del per­so­nale, finan­zia ciò che lo Stato nega. Senza dimen­ti­care l’aumento stel­lare delle addi­zio­nali Irpef e Irap, fon­da­men­tali per far qua­drare i conti alle Asl e agli ospedali.

 Lo zelo dei custodi dell’austerità ha mol­ti­pli­cato l’accanimento dei loro col­le­ghi delle Regioni. «L’effetto com­bi­nato delle deci­sioni deli­be­rate dal par­la­mento nazio­nale e delle mano­vre cor­ret­tive attuate dalle Regioni sia in piano di rien­tro che non – spiega la Corte dei Conti — hanno gene­rato ridu­zioni di spesa net­ta­mente supe­riori di finan­zia­mento decise con la spen­ding review». L’ansia di essere più austeri dei loro man­danti ha spinto gli enti locali a ridurre, in quat­tro anni, di circa il 68% la quota di spesa per la sanità pub­blica non coperta dal finan­zia­mento al quale con­corre lo Stato.
Il bilan­cio di un qua­drien­nio ha rive­lato dun­que una delle con­trad­di­zioni dell’austerità. Con­si­de­rando anche la situa­zione delle Regioni in avanzo, il sistema sani­ta­rio a livello nazio­nale «mostra un disa­vanzo di 1.890 milioni» a causa delle mano­vre che hanno pra­ti­cato «tagli lineari» sulle prin­ci­pali voci di spesa, come i con­sumi inter­medi, la spesa far­ma­ceu­tica, le spese per il per­so­nale, l’acquisto di pre­sta­zioni sani­ta­rie da ero­ga­tori pri­vati accreditati.

Que­sto disa­vanzo rischia di non essere rein­ve­stito nella sanità. Nell’ingegneria opaca dell’austerità i fondi pos­sono essere dirot­tati altrove.
Nasce da qui l’allarme sui «Lea» lan­ciato dalla Corte dei conti. La poli­tica dei tagli aumenta, nei fatti, uno dei pro­blemi sto­rici della sanità ita­liana: il diva­rio assi­sten­ziale tra Nord e Sud. Quest’ultimo viene stran­go­lato sia dai piani di rien­tro sia dalla nuova nor­ma­tiva sull’armonizzazione con­ta­bile. L’indicazione dei giu­dici con­ta­bili è di «pere­quare» tale situa­zione attra­verso una pro­gram­ma­zione cen­trale delle nuove risorse all’interno di un nuovo piano nazio­nale degli investimenti.

Il pro­cesso di revi­sione della spesa sani­ta­ria «dovrà essere più selet­tivo e rein­ve­stire risorse nei ser­vizi sani­tari rela­ti­va­mente più carenti». Per la corte que­ste risorse vanno prese dai set­tori come l’acquisto di beni e ser­vizi non effet­tuati attra­verso le cen­trali regio­nali d’appalto o con con­ven­zioni della Con­sip. Si devono invece basare su «pro­cessi mole­co­lari di rior­ga­niz­za­zione» con­dotti dalle sin­gole Asl. Le regioni dovranno effet­tuare una più attenta ripro­gram­ma­zione dei fab­bi­so­gni, men­tre il governo dovrebbe poten­ziare il piano di medi­cina pre­ven­tiva indi­cato dal piano nazio­nale delle riforme pre­sen­tato nel Def 2014. 

·         da ilmanifesto.it    20 gennaio 2015

23 gennaio 2015

Chi decide in Italia? Chi decide in Europa ?

Seconda parte: Come è organizzato il livello alto
 
Abbiamo visto, come, nella generale decomposizione di tutte le sedi istituzionali di dibattito, mediazione e decisione, si siano progressivamente ridefinite sedi riservate ed efficaci di decisione ai livelli più alti. Vediamo come funziona e perché era inevitabile che accadesse.
 
di Giovanni Chiambretto *
 
1)    Delega e astensionismo
 La maggioranza della popolazione è abituata a partecipare alle decisioni per delega (elezioni) e quando richiesta. Per il resto si sente spettatrice di una rappresentazione mediatica quotidiana in cui viene spinta a tifare per un personaggio o per l’altro. Se lo spettacolo non gli piace, può sempre astenersi (ormai la metà del pubblico) pensando che tanto non cambia niente e che può riservarsi uno spazio personale dove vivere indisturbato astraendosi da cose che non sente proprie. L'astensionismo è' la scelta più benvista dalla Casta.
Ma non è così per tutti. C’è, ad esempio, chi gestisce attività di grande rilievo, chi è ambizioso e non si rassegna alla palude, chi vuole giocare ad ogni costo anche solo per motivi caratteriali. Costoro necessitano di un ambito apposito. Quest’ambito deve avere delle caratteristiche minime indispensabili. Deve essere efficiente (non si può perdere tempo con pericolosi mitomani) per cui deve essere selettivo, nello stesso tempo deve essere aperto a tutti i veri players  (se escludesse non avrebbe né l’autorevolezza, né l’autorità necessaria), deve avere un insieme di regole condivise che permetta di funzionare, deve, al suo interno, essere democratico (cioè privo di forzature o censure e dove ciascuno, singolo, o gruppo, possa esprimersi compiutamente). L’efficacia e la potenzialità sinergica sono proporzionali alla coerenza di queste caratteristiche. Il diffondersi e lo strutturarsi delle Ur Lodges nel mondo, negli ultimi 40 anni, in particolare dopo il crollo del Muro di Berlino, rispondono a questa esigenza.
 

22 gennaio 2015

Basta case nuove, ristrutturiamo quelle vecchie



Oltre 11 milioni di abitazioni hanno più di 40 anni di età, con consumi energetici elevatissimi.  Ecco un argomento da inserire nella ricerca delle opere utili da promuovere, nel quadro di un nuovo Piano del lavoro (chiamatelo New Deal, se preferite). 
  L’Italia è uno dei Paesi con la popolazione più anziana del mondo. E anche le nostre case lo dimostrano. I palazzi sparsi lungo la nostra penisola sono vecchi, divorano energia in eccesso e hanno bisogno di continui interventi di manutenzione. Lo aveva detto il rapporto Cresme 2013 sull’edilizia italiana. Ora lo conferma l’ultima indagine dell’Ufficio studi di Immobiliare.it, il portale degli annunci immobiliari online: il 36,6% delle abitazioni italiane, ossia 11,6 milioni di unità immobiliari, ha più di 40 anni di vita, con picchi di oltre il 40% in alcune città come Potenza, Palermo, Napoli e Catanzaro. Solo a Palermo, il Comune di recente ha censito 1.300 edifici instabili, di cui 228 a rischio crollo.
Se si considera come anno di riferimento il 1977, momento cruciale per l’edilizia per via dell’entrata in vigore delle prime norme sull’efficienza energetica degli edifici, la percentuale di abitazioni costruite prima di questa data arriva al 58,4%: 18,5 milioni di immobili su tutto il territorio nazionale non sono stati progettati quindi in un’ottica di risparmio energetico. L’età avanzata dell’Italia del mattone la rende quindi, oltre che anziana, anche particolarmente energivora: un immobile che supera i 30 anni di età consuma in un anno, mediamente, dai 180 ai 200 chilowattora ogni metro quadro. Un fabbisogno enorme se si considera che un’abitazione in classe B, standard minimo per le nuove costruzioni, arriva a consumare in media tra i 30 e i 40 chilowattora al metro quadro all’anno.
«È ora di riqualificare il nostro patrimonio immobiliare», dice Carlo Giordano, amministratore delegato di Immobiliare.it, «e per farlo bisogna limitare la costruzione di nuove abitazioni, puntando alla manutenzione di quelle già esistenti e invecchiate. In questo modo, si ridurranno il consumo del suolo, il fabbisogno energetico globale e la necessità di infrastrutture per la mobilità. Reinvestire sui quartieri obsoleti delle nostre città, infine, può rivelarsi la risposta migliore alla nuova domanda abitativa».

  Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.

Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.
Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.
Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.
Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di
Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.

 da eddyburg.it , 18 Gennaio 2015 - fonte: Linkiesta.it, 18 gennaio 2015