Conversione ecologica significa riconversione strutturale della produzione per ridurre
l’aggressione alle risorse della natura e lo sfruttamento di uomini e donne, ma
anche conversione personale del nostro stile di vita. Per la prima occorre la
più larga partecipazione dal basso delle comunità locali e sperimentare nuove
produzioni: per la diffusione di fonti energetiche rinnovabili, per promuovere
l’efficienza energetica, per favorire l’utilizzo di veicoli in forma condivisa,
sistemi di riciclo, coltivazioni ecologiche. Per la conversione personale,
invece, serve prima di tutto condivisione: degli acquisti, della cura (dei
bambini, degli anziani, dei malati), ma anche condivisione e scambio di beni e
saperi. La conversione ecologica è in ogni caso un processo di “riterritorializzazione”,
perché la “riterritorializzazione”, spiega Guido Viale, è probabilmente una
delle poche risposte adeguate al problema centrale posto dalla globalizzazione
liberista: la competizione sempre più serrata.
di
Guido Viale*
Il termine “conversione ecologica” è
stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer per sintetizzare il percorso necessario per
ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i
limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude
alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per
ridurre l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e
meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e
scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini
e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di
altri membri del genere umano; dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita,
attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un
miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex
amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, in competizione con noi o
nemico. Associarsi per effettuare insieme degli acquisti, per promuovere
insieme dei servizi o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque
possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte
organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle
sindacali, potrebbero appoggiare.
L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i Gas (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire
insieme gli acquisti, soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno
continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun
“collettivismo”), ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme,
direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione
commerciale e i relativi ricarichi (insieme ad un sacco di imballaggi inutili,
inquinanti e di pubblicità); si rompe
l’isolamento proprio della società in cui viviamo. Inoltre ci si può così
accordare per condividere molte altre cose,
per esempio: la cura di bambini, anziani e
malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di
abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e know-how per il
“fai da te”, lezioni, ecc.. Si può dire che ci si informa e ci si
forma insieme, perché per comprare cose sane e beni utili bisogna intendersi
sia su come sono fatti che di come vengono prodotti. Infine, si dà una mano ai produttori che vogliono rendere
sostenibile la loro azienda, favorendo la creazione di mercati
alternativi: per esempio, gli agricoltori che vogliono passare all’agricoltura
biologica e a chilometri zero o le imprese alimentari che adottano metodi di
lavorazione che non avvelenano il cibo.
Ovviamente tutto ciò non basta. Per
perseguire e raggiungere la sostenibilità ambientale occorre imporre un cambio
di rotta generale. Occorre imporre ai governi, sia a livello locale che
nazionale, una vera politica industriale: cioè dei piani che orientino
l’attività economica verso prodotti, tecnologie, sistemi di produzione e
un’organizzazione del lavoro sostenibili. Politiche,
dunque, che entrino nel merito del “che cosa”
produrre (e che cosa non produrre), di come produrlo, con che cosa, per chi e
anche dove.
Mettere al centro della politica
industriale la conversione ecologica di tutto il sistema economico, o per lo
meno delle sue strutture portanti, oggi si può proporre e realizzare solo
promuovendo la più larga partecipazione dal
basso della popolazione coinvolta: sia di quella che vive del lavoro
nelle o delle imprese da convertire, sia di quella che subisce l’impatto, cioè
i danni ambientali e le trasformazioni sociali provocati da quelle aziende. Ciò
vuol dire che una politica industriale sostenibile può nascere solo nel quadro
di una democrazia partecipata, che abbia al suo centro il lavoro e
l’organizzazione dei lavoratori interessati.
Insieme al lavoro, però, essa deve
promuovere anche l’impegno e la presenza
organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni
locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi
diffusi tra i membri di tutta la comunità; per poi allargare il coinvolgimento
ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere
programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea. Nelle aziende colpite dalla crisi economica e
occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile (leggi anche Ripensare la società dal
lavoro. Alcune proposte, di Alberto
Castagnola, ndr), poiché esse non torneranno mai più ad aprire e
a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato. Per
salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente
di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e
operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature
esistenti, occorre passare a nuove produzioni.
Tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un
mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili
mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto
il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti
energetiche rinnovabili; soluzioni per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in
forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di riciclo totale
di scarti e rifiuti; progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia
e la rinaturalizzazione del territorio;
sistemi di coltivazione ecologici a
elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il
recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e
capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc..
Per avviare queste nuove produzioni
occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo
una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità, e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità
montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da
questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono. Ma
molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e
definire, a costo zero. Mentre su
altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria
rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e
definite le cose che si vogliono fare. A quel punto si può aprire una vertenza:
sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro
appoggio, nei confronti dei governi regionali, di quello nazionale e
dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione. Senza un
progetto definito, però, nessuna di queste cose può andare avanti. Per esempio,
le energie rinnovabili o l’efficienza energetica sul lungo periodo si ripagano
da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili, ma per
diffonderle in forme produttive e sensate ci vogliono programmi a livello
territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici,
imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione
degli impianti, di materiali e attrezzature per l’efficienza energetica.
Così, con il coinvolgimento di un
certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali
produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro
produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come
Comuni, ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se associati.
Qui l’esempio dei Gas – il rapporto diretto tra
produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una
scala più allargata in campo energetico, nel campo dell’edilizia e
della manutenzione del territorio, nel settore agroalimentare o nel campo della
mobilità. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a
farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una
gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso
d’opera.
Certo, per promuovere una
conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo
imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono
indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze
esterne. Queste forze, però, ci sono e bisogna farle emergere: all’interno
delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento
cooperativo. L’importante è mantenere, o ricondurre a un ambito territoriale
più ristretto rispetto a quello creato dalla globalizzazione, i rapporti tra le
diverse fasi di un ciclo produttivo e tra i diversi stadi di una filiera,
accrescendo così le possibilità di un controllo
dal basso sulle scelte economiche. In una parola, la
democratizzazione dell’economia. La conversione
ecologica è dunque innanzitutto un processo di “riterritorializzazione”
dei rapporti economici attraverso relazioni quanto più dirette possibili tra
produttori e consumatori, in un regime di totale trasparenza, per consentire un
controllo pubblico delle transazioni in corso.
La “riterritorializzazione” è
comunque un obiettivo sempre relativo e mai assoluto, la cui realizzazione può
essere concepita solo in progress, come processo. Inoltre, essa riguarda
esclusivamente il ciclo di vita dei beni materiali e non quello
dell’informazione e dei saperi, la cui circolazione deve invece essere sempre
più libera e intensa su tutto il pianeta; riguarda cioè “gli atomi” e non i “bit”.
La “riterritorializzazione” rappresenta l’unica
risposta adeguata al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista
che è la competizione sempre più serrata
che si svolge a livello planetario e che tende ad allineare ai livelli
più bassi i livelli salariali e quelli di protezione sociale e di protezione
ambientale.
Non riesco a capire come Viale che apprezzo per quanto riguarda le sue posizioni ecologiche non riesca a capire che non esistono "politiche industriali" senza ripristinare la I parte titolo terzo rapporti economici della Costituzione che prevede la regia dello stato sull'economia tanto pubblica tanto privata - come modello economico misto ... quello che con leggi dell'ultimo trentennio e trattai europei hanno sostituito con modello economico neoliberista. Poi ridefiniti i trattati europei in senso modello economico misto ripristinata la costituzione italiana ... tutto il resto previsto sui territori da Viale ci stanno a fagiuolo. Luigi Fasce - Comitato L'Altra Liguria Genova - www.circolocalogerocapitini.it
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