24 luglio 2017

L’ira di Berlino contro Ankara: «Via le aziende tedesche»



Crisi. Dopo l’arresto di 22 cittadini, la Germania invita le imprese a non investire in Turchia. Si fa strada l’idea che Erdogan faccia arrestare tedeschi per scambiarli con i golpisti in esilio


Relazioni tra Germania e Turchia nuovamente in fibrillazione: il nuovo motivo d’attrito ha il nome di Peter Steudtner, consulente in materia di diritti umani, arrestato il 5 luglio durante un workshop di Amnesty International insieme ad un collega svedese e quattro attivisti turchi.

Parole durissime sono state pubblicate dal ministero degli esteri tedesco: «È stato necessario comunicare alle autorità turche tutto lo sdegno e l’incomprensione del governo tedesco per il caso di Steudner e degli altri attivisti. La Germania ne ha richiesto l’immediato rilascio e l’accesso ai servizi consolari. Le accuse di collegamenti con il terrorismo sono palesemente inventate, a meno di voler assurdamente considerare Amnesty come un’organizzazione terroristica».
E il ministro Sigmar Gabriel ha annunciato un cambio di linea nelle relazioni turco-tedesche: «Vorremo che la Turchia continuasse a far parte dell’Occidente, ma non assistiamo ad alcuno sforzo di volontà da parte del governo turco. La Germania si vede quindi costretta a rivedere la propria politica verso la Turchia».
In precedenza rivolto solo ad alcune categorie sensibili, un avviso è stato diramato a tutti i cittadini tedeschi in Turchia, allertati su come possano essere soggetti a provvedimenti giudiziari arbitrari e privati dell’accesso ai servizi consolari, «ristretto dalle autorità turche in violazione del diritto internazionale».
Gabriel ha annunciato che si stanno considerando provvedimenti finanziari in linea con la nuova politica estera: «Non vedo come il governo tedesco possa continuare a garantire investimenti di nostre aziende in Turchia quando c’è la minaccia di espropri arbitrari dettati da ragioni politiche».

Il riferimento è a casi come quello di Ozel Sogut, uomo d’affari tedesco detenuto per presunti collegamenti con la rete dell’imam Gülen, che il governo turco accusa del tentato golpe del 2016. Alimenta la tensione anche una presunta lista di oltre 60 aziende tedesche che il governo turco avrebbe inoltrato a Berlino perché ritenute di avere collegamenti con i gulenisti.
La stampa tedesca ha anche lanciato la pesante accusa ad Erdogan di aver offerto uno scambio di prigionieri: Deniz Yucel, giornalista in carcere dal febbraio scorso con accuse di terrorismo, al posto di due generali turchi che hanno chiesto asilo politico in Germania.
La notizia è stata smentita da Gabriel, ma stampa e mondo della diplomazia tedeschi sembrano prenderla sul serio. Bild e Faz citano fonti del ministero degli esteri, mentre conferme indirette arrivano dalla politica turca, dov’è opinione diffusa che il mancato rilascio di cittadini tedeschi sia la naturale conseguenza del rifiuto di Berlino a soddisfare le richieste di estradizione di Ankara.
La reazione del governo turco arriva per bocca del portavoce Ibrahim Kalin, che ha ribattuto a Gabriel: «Riteniamo che queste dichiarazioni sfortunate rappresentino un investimento politico interno mirato alle prossime elezioni in Germania. Non ci è possibile recepire dichiarazioni che intendono confondere l’ambiente economico a scopi politici».
Il vice premier Mehmet Simsek ha dichiarato che «le uscite stampa che sostengono che la Turchia stia indagando compagnie come Daimler e Basf sono completamente false».

Il dissidio tra Turchia e Germania era già scoppiato per il divieto ad alcuni parlamentari tedeschi, che Ankara ritiene vicini al Pkk, di visitare basi turche in cui stazionano soldati di Berlino, che ha quindi deciso di muovere le proprie truppe in Giordania. A rischio anche l’accordo sui migranti, pensato e voluto dalla Germania.
Sono circa 450 i militari turchi che hanno chiesto asilo in Germania e 22 i cittadini tedeschi transitati per le prigioni turche, di cui sei tuttora in carcere con accuse di terrorismo.

Nella foto: Deniz Yucel, giornalista turco-tedesco in carcere

* da il manifesto, 21 luglio 2017

Plastica: dagli anni ’50 nel mondo ne sono state prodotte 8.300 milioni di tonnellate


Il 79% è finita in discarica e nell’ambiente, il 12% incenerita e solo il 9% riciclata


Da quando è cominciata nei primi anni ’50 la produzione su larga scala dei materiali sintetici, gli esseri umani hanno prodotto più di 8,3 miliardi di tonnellate di materie plastiche: a calcolarlo è lo studioProduction, use, and fate of all plastics ever made”, appena pubblicato su Science Advances da un fitto team di ricercatori.  Per fare un paragone, 8,3 miliardi di tonnellate sono circa 25.000 volte più pesanti dell’Empire State Building e peserebbero più di un miliardo di giganteschi elefanti da 7,5 tonnellate l’uno.

Lo studio, sostenuto da Ocean Conservancy e finanziato dalla National Science Foundation, è la prima analisi globale della produzione, dell’utilizzo e della gestione post-consumo di tutte le materie plastiche prodotte nel mondo (in realtà, il calcolo si ferma al 2015). I ricercatori statunitensi hanno anche scoperto che degli 8,3 miliardi di tonnellate di materie plastiche prodotte dall’uomo 6,3 miliardi di tonnellate sono diventate rifiuti: ne è stato riciclato solo il 9%, mentre il 12% è stato incenerito; il restante 79% è finito nelle discariche o peggio, disperso nell’ambiente naturale.


I ricercatori avvertono che «se le tendenze attuali continueranno, entro il 2050 finiranno nelle discariche o nell’ambiente naturale circa 12 miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica». La Jambeck sottolinea che «la maggior parte delle materie plastiche non si biodegradano in nessun modo, quindi i residui di plastica che l’uomo ha generato potrebbero restare con noi per centinaia o addirittura migliaia di anni. Le stime sottolineano la necessità di pensare criticamente ai materiali che usiamo e alle nostre pratiche di gestione dei rifiuti». Sì, perché la “peste” della plastica non è un destino, ma il frutto della cattiva gestione, recupero, riciclo e riuso della plastica: se il ciclo dei rifiuti non si chiude diventa un problema.


Per arrivare alla cifra di 8,3 miliardi di tonnellate di plastica prodotte dagli anni ’50, gli scienziati hanno compilato statistiche di produzione per resine, fibre e additivi provenienti da una varietà di fonti industriali e li hanno accorpati secondo il tipo e il settore di consumo. È così che hanno scoperto che «la produzione mondiale di materie plastiche è aumentata dai 2 milioni di tonnellate degli anni ’50 agli oltre 400 milioni di tonnellate nel 2015», superando la maggior parte degli altri materiali creati dall’uomo ad eccezione dei materiali che vengono utilizzati ampiamente nell’industria delle costruzioni, come l’acciaio e il cemento.


Ma mentre l’acciaio e il cemento vengono utilizzati soprattutto per costruire edifici e infrastrutture, il più grande mercato delle materie plastiche è quello degli imballaggi, e la maggior parte di questi prodotti non viene riutilizzata una volta scartata. Geyer, il principale autore dello studio, spiega ancora: «Quasi la metà di tutto l’acciaio che produciamo va nelle costruzioni, quindi avrà decenni di utilizzo. Per la plastica è l’opposto». Tipicamente, la vita utile di un imballaggio è inferiore a un anno.


Nel mentre il ritmo della produzione di plastica non mostra segni di rallentamento, anzi: di tutte le materie plastiche prodotte dagli anni ‘50 al 2015, circa la metà è stata prodotta negli ultimi 13 anni.

Geyer ha spiegato alla BBC News che «stiamo rapidamente andando verso un “Planet Plastic” e, se non vogliamo vivere in questo tipo di mondo, allora dobbiamo ripensare a come utilizziamo alcuni materiali, in particolare la plastica». Geyer è più che consapevole che il problema non sta nella plastica in sé, ma nella sua gestione post-consumo: «Quello che stiamo cercando di fare è di creare le basi per una gestione sostenibile dei materiali. In poche parole, non puoi gestire ciò che non misuri e quindi pensiamo che le discussioni sulle politiche saranno più informate e basate sui fatti ora che abbiamo questi numeri».


Quello di Geyer  è lo stesso team di ricercatori che nel 2015 aveva condotto uno studio pubblicato su Science che aveva calcolato quanti rifiuti di plastica finiscono negli oceani: nel 2010 sarebbero stati 8 milioni di tonnellate. La ricercatrice Jenna Jambeck evidenzia invece che «oggi ci sono persone viventi che ricordano un mondo senza plastica, ma questa è diventata ormai così onnipresente che non si può andare da nessuna parte senza trovare i rifiuti di plastica nel nostro ambiente, compresi i nostri oceani».


I ricercatori, naturalmente, non vogliono la totale eliminazione della plastica dal mercato, «ma piuttosto un esame maggiormente critico dell’uso di plastica e del suo valore a fine vita». La Lavender conclude: «Ci sono settori in cui le materie plastiche sono indispensabili, soprattutto nei prodotti progettati per la durabilità. Ma credo sia necessario guardare attentamente al nostro uso estensivo delle materie plastiche e chiederci quando l’uso di questi materiali ha, o non ha, senso».


   * da greenreport.it , 20 luglio 2017


23 luglio 2017

Le quattro sorelle dell’acqua. Ecco i padroni dei rubinetti italiani



I colossi Acea, Hera, Iren e A2a riforniscono quindici milioni di persone. Ma né la gestione privata né quella pubblica riescono a evitare gli sprechi

 di Roberto Giovannini *

Se l’obiettivo della gestione dell’acqua «privata» in Italia era quella di ridurre gli sprechi, si può ben dire che l’obiettivo sia stato mancato di gran lunga. In Italia, secondo il Blue Book di Utilitalia, su cento litri di acqua distribuiti ben 39 si perdono per strada. Va meglio al Nord (il 29%), va malissimo al Centro e al Sud (46 e 45%). E anche un’azienda pubblica ma gestita per produrre utili come Acea disperde circa il 40% dell’acqua. Del resto, le reti sono stravecchie: il 60% dei tubi è stato posato più di 30 anni fa, il 25% da più di 50 anni. Anche gli investimenti per migliorare il servizio sono scarsi: servirebbero 5 miliardi l’anno, e se ne spendono meno della metà, e di questo passo per rinnovare completamente la rete ci vorranno 250 anni. Infine, l’Europa ci massacra di sanzioni per la violazione delle regole. 

È la dimostrazione del fallimento del processo di privatizzazione dell’acqua, dicono i sostenitori dell’«acqua pubblica». Sono aumentate le tariffe, arricchendo i gestori con ingenti utili, che di fatto, quando gli azionisti sono pubblici, si traducono in una tassa sui consumatori finali. E la qualità del servizio non è affatto migliorata. Al contrario, dicono i sostenitori della gestione privata dell’acqua: non si può certo chiedere a un inefficiente e impoverito settore pubblico di cambiare le cose. Soltanto con una gestione oculata - dicono ad Utilitalia - e con un aumento delle tariffe, che in Italia sono più basse del resto d’Europa (un metro cubo costa 6,03 dollari a Berlino, 3,91 a Parigi e 1,35 a Roma), si possono reperire le risorse per fare gli investimenti che servono.

L’acqua, diceva Stefano Rodotà, è un «bene comune»: non coincide né con la proprietà privata né con la proprietà dello Stato, ma è un diritto inalienabile dei cittadini. Il giurista da poco scomparso fu protagonista del referendum del 2011 in cui prevalse il sì alla cosiddetta «acqua pubblica», un voto che impedendo la remunerazione degli investimenti di soggetti privati avrebbe bloccato l’ingresso dei capitali privati nella gestione dei servizi idrici. Ma l’intervento del governo - con uno dei decreti Madia, poi parzialmente bloccato dalla Consulta - del Parlamento e infine del Consiglio di Stato ha di fatto azzerato il pronunciamento referendario. E ha creato un paesaggio dell’Italia dell’acqua in cui la presenza di aziende private è sempre più importante, sempre più predominante.
  
Esistono ancora grandi aziende interamente pubbliche, come ad esempio l’Acquedotto Pugliese, che serve il 7% circa della popolazione italiana, o l’Abc di Napoli. Ma per circa 15 milioni di italiani i «padroni dell’acqua» sono aziende multiutilities su scala interregionale e internazionale, in alcuni case quotate in Borsa, che quasi sempre sono teoricamente controllate dagli enti locali che ne posseggono la maggioranza, ma in cui sono i partners privati a ispirarne le strategie e le politiche. Strategie «moderne», anche sul piano delle tariffe, che evidentemente puntano a generare utili oltre all’erogazione del servizio. Aziende che integrano, oltre al servizio idrico (che continua ad essere relativamente poco remunerativo) attività nel campo dell’energia e della gestione dei rifiuti.  

Tra le protagoniste di questo processo di «industrializzazione», o di «finanziarizzazione» dell’acqua ci sono certamente le cosiddette «quattro sorelle»: Acea, Hera, Iren e A2a. Quattro colossi, quotati in Borsa, che già oggi forniscono acqua a circa 15 milioni di italiani attraverso gli «Ato» che controllano (le 64 aree territoriali omogenee in cui è diviso il territorio nazionale). In Acea il socio di maggioranza è il Comune di Roma con il 51% delle azioni, seguito dalla multinazionale francese Suez con il 23,3% e dall’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 5,006%). Acea è il più grande operatore italiano nel settore, con 8,5 milioni di abitanti serviti a Roma, Frosinone e altre aree di Lazio, Toscana, Umbria e Campania. Hera (dopo Acquedotto Pugliese) è il terzo «padrone dell’acqua», con il 6,1% della popolazione servita in Emilia-Romagna, Marche, Veneto e Friuli-Venezia Giulia: i principali azionisti pubblici sono i Comuni di Bologna, Imola, Modena, Ravenna, Trieste e Padova. Iren è il quarto, con il 3,8%: per il 49% è di proprietà dei Comuni di Torino, Genova, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. A2a, infine, è per la maggioranza dei Comuni di Brescia e Milano: per ora ha numeri relativamente più piccoli, ma come le altre «sorelle» è impegnata in una massiccia campagna di acquisizioni di altre aziende del settore (come la Lrh di Como e Lecco). Di recente Acea ha acquisito Idrolatina e gli Acquedotti Lucchesi, mentre Iren ha rilevato l’Atena di Vercelli. Un processo di concentrazione del mercato che pare destinato a continuare. 

* da lastampa.it ,  7 luglio 2017