29 novembre 2018

L'approccio alla nuova stagione di riforme costituzionali è quello giusto


il ministro Riccardo Fraccaro
Andrea Pertici * Professore ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Pisa



Il ministro Fraccaro rilancia le riforme costituzionali con uno stile molto distante da quello con cui esse sono state affrontate nella scorsa legislatura. Anzitutto gli intenti di riforma sono misurati. Non intendono mettere a soqquadro l'intera seconda parte della Costituzione, ma intervenire su alcuni punti specifici, che, se si è ben capito, riguardano il numero dei parlamentari, il quorum di validità del referendum, le proposte d'iniziativa popolare, il referendum propositivo, il Cnel e il giudizio delle Camere sulle elezioni dei propri componenti.

Le proposte di modifica sarebbero contenute in disegni di legge distinti, per non mettere insieme questioni diverse e dare agli elettori, in caso di referendum, la libertà di scegliere su ciascuna, votando anche in modo differente per le diverse modifiche costituzionali. Si tratta di un approccio che condividiamo. Anzi, che avevamo proposto più volte, durante la lunghissima discussione sulle riforme costituzionali della scorsa legislatura.

Non a caso in un breve saggio avevamo auspicato (capitolo 4) una diversa riforma costituzionale, rispetto a quella propinataci dal governo Renzi, che fosse «leggera e condivisa», realizzata attraverso diverse proposte di legge d'iniziativa parlamentare. Quest'ultima è molto importante, non perché il governo non possa presentare proprie proposte di revisione costituzionale, ma perché – come dicevamo già nello scritto citato – se la proposta proviene dal governo, spacca immediatamente il Parlamento tra maggioranza e opposizione (come aveva capito molto bene De Gasperi che infatti si astenne praticamente da qualunque intervento).

La presentazione della proposta di legge di revisione costituzionale da parte dei gruppi parlamentari di maggioranza può attenuare questa contrapposizione, ma a condizione che i proponenti si predispongano immediatamente ad ascoltare gli altri e siano disponibili a lavorare con le opposizioni a modifiche del testo. Certamente la puntualità degli interventi può rendere meno drammatica la contrapposizione, ma la Costituzione rappresenta il perimetro del confronto politico e quindi è decisamente auspicabile che esso sia disegnato con un accordo almeno sulle linee fondamentali.

Naturalmente, occorre che anche l'opposizione si predisponga favorevolmente al confronto, evitando, per esempio, di fare la permalosa o la rancorosa perché le proprie proposte di riforma sono finite male (bocciate dal 60% degli elettori sia quella del governo Berlusconi che quella del governo Renzi).

Nel merito non abbiamo ancora visto i testi, ma, da quanto anticipato, ci pare che la riduzione del numero dei parlamentari sia piuttosto ragionevole. In un sistema bicamerale, nel quale le Camere operano anche in seduta comune per lo svolgimento di limitate, ma importanti, funzioni, deve evitarsi un'eccessiva sproporzione tra le due assemblee come quella che disegnava invece l'ultima riforma costituzionale.

La proposta ora avanzata di 400 deputati e 200 senatori mantiene l'attuale proporzione. Nei valori assoluti, che ritoccherei solo leggermente verso l'alto per esigenze di rappresentanza, essa si avvicina a quella che avevamo formulato in una proposta presentata da Civati circa un anno e mezzo fa. Da quella proposta, forse, almeno nell'ambito del dibattito parlamentare, si potrebbe recuperare un secondo intervento: quello per attribuire il voto anche per il Senato con il compimento della maggiore età.

Se, infatti, può avere un senso che i senatori abbiano un'età più elevata, non sembra averlo la richiesta di un'età più elevata per i loro elettori. Per di più l'equiparazione dei due elettorati ridurrebbe le possibili differenze nella composizione delle due Camere, comunque assai limitate quando la legge elettorale sia analoga, come hanno dimostrano le ultime elezioni.

Anche sugli istituti di democrazia diretta, le proposte anticipate, in linea generale, convincono. Il quorum previsto per consentire l'abrogazione delle leggi tramite referendum fu introdotto alla Costituente tra molte discussioni e perplessità. In ogni caso, al di là delle valutazioni di ragionevolezza legate alla sua introduzione, occorre constatare come esso sia stato poi sostanzialmente utilizzato dai contrari all'abrogazione per unire le loro forze a quella degli astensionisti cronici.

Così, soprattutto quando in Italia avevamo leggi elettorali con premio di maggioranza, serviva il consenso di un minor numero di elettori per formare una maggioranza parlamentare che votava un Governo e decine di leggi l'anno, che per abrogarne una sola. Abbassare significativamente o eliminare il quorum è quindi del tutto ragionevole e condivisibile (su questo la precedente riforma costituzionale essendosi posta correttamente la questione, salvo differenziare il quorum, in modo assai bizzarro, sulla base delle firme raccolte per la proposta).

Anche su questo, sempre con Civati, avevamo presentato un progetto di legge, relativo anche alle proposte di legge d'iniziativa popolare, che – come ha affermato più volte anche il ministro Fraccaro – non possono rimanere abbandonate nei cassetti del Parlamento, ma devono essere discusse e votate dalle Camere. Per questo – riprendendo Mortati – in assenza di una deliberazione parlamentare entro un certo termine, la proposta presentata dovrebbe essere sottoposta al voto popolare per l'approvazione con referendum.

Sarebbe una garanzia efficace, molto distante dalla previsione dell'ultima riforma costituzionale, che, cercava di garantire l'approvazione delle proposte del governo, mentre si limitava a rinviare ai regolamenti parlamentari il compito di garantire «tempi forme e limiti» per la discussione e deliberazione sulle proposte d'iniziativa popolare. La votazione referendaria sulle proposte di legge d'iniziativa popolare porterebbe in sostanza anche all'introduzione di un referendum propositivo (da disciplinare poi con legge) che non sia – come non deve essere – d'iniziativa governativa o comunque di maggioranza (con il rischio di trasformarlo in un plebiscito), ma degli stessi cittadini.

Così sarebbe rispettato il carattere bottom up che gli istituti di democrazia diretta devono conservare per consentire quella reale partecipazione, il cui potenziamento auspichiamo sin dal 2014.

Le altre proposte per ora soltanto sommariamente descritte riguardano l'eliminazione del Cnel, che, in effetti, anche dopo la scampata soppressione del 2016, non sembra più trovare un suo spazio di reale operatività, e l'introduzione di un ricorso alla Corte costituzionale avverso le decisioni assunte dalle Camere sulle elezioni dei propri componenti. Quest'ultima proposta, ripresa dal sistema tedesco, pare, in effetti, pure molto utile, arrivando almeno ad attenuare la violazione del principio del nemo iudex in causa propria.

In sostanza, le proposte avanzate sembrano utili e ragionevoli nel merito, ma soprattutto sembrerebbe apprezzabile il metodo più volte indicato dal ministro, che ci consentirebbe un'ampia discussione su questioni puntuali e una decisione serena su ciascuna modifica.

Sul piano istituzionale, tuttavia, come sosteniamo da tempo, non tutte le misure più utili passano per la modifica della Costituzione, essendo necessari interventi sulla legge elettorale, sulla legge sul referendum, sui regolamenti parlamentari e per una legge sulla prevenzione dei conflitti d'interessi. Anche su questo avevamo avanzato proposte ne La Costituzione spezzata. Anche e soprattutto su questi aspetti si potrà misurare il cambiamento, che per ora apprezziamo soprattutto nello stile.

*  Professore ordinario di diritto costituzionale nell'Università di Pisa



( nota mm : primo contributo pubblicato sul tema, che non comporta da parte mia la condivisione completa dell' intervento)  

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