Il presidente palestinese rilancia vecchi cliché
antisemiti, con effetti sconvolgenti in Israele ma anche nel suo campo
di Umberto
De Giovannangeli *
Neanche il
più falco tra i falchi israeliani poteva attendersi quel regalo venuto da Ramallah.
Mittente: Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Sono
da oltre trent’anni che seguo l’eterno conflitto israelo-palestinese. Una cosa,
penso, di aver capito: la psicologia di una Nazione. Quella d’Israele. Una
psicologia che comprendi visitando lo Yad Vashem, uscendo in lacrime dal
Mausoleo che ricorda il massacro di un milione e mezzo di bambini ebrei nei
lager nazisti. Certo, su questa tragedia senza pari nella storia dell’umanità,
si è innestata la politica e un uso dell’Olocausto teso a giustificare ogni
scelta compiuta dai governanti israeliani nei settant’anni dello Stato. Lo
Stato ebraico, nato dalle ceneri dei ghetti in Europa, da Dachau, Auschwitz,
dai campi di sterminio nazifascisti. L’Israele del dialogo esiste, e annovera
nelle sue fila, oggi non maggioritarie, gli intellettuali che danno prestigio
al Paese, i suoi scrittori più apprezzati nel mondo, premi Nobel e tant’altro.
E oggi è anzitutto l’Israele del dialogo a essere stata annichilita dalle
affermazioni del presidente palestinese, intrise del più becero antisemitismo.
Una cosa,
l’Israele del dialogo, e le componenti più aperte e progressiste della
diaspora, ha sempre cercato di tener ben distinte: una cosa è criticare, anche
aspramente, le scelte compiute dai vari governi, e altra cosa è tracimare
nell’antisemitismo. Cosa che Abu Mazen ha fatto. Non importa se si è lasciato
andare, se quelle farneticanti argomentazioni, degne del peggior Irving,
riempiono una manciata di minuti in un discorso di oltre un’ora e mezza. Un
leader è tale se sa controllare la rabbia di un popolo, se si dimostra capace di
costruire sul dolore una speranza. Con quelle parole, Abu Mazen non si è
dimostrato leader. E ha inferto un colpo durissimo alla “causa palestinese”.
Una causa che è scesa agli ultimi posti nell’agenda internazionale, soppiantata
dalla guerra siriana e da quella, più che probabile, tra Israele e Iran.
Oggi la vita
nei Territori è marchiata dalla sofferenza. A Gaza, l’embargo israeliano sta
creando una situazione indicibile che non può essere giustificata dal diritto
alla difesa con cui le autorità israeliane tendono a giustificare anche
l’ingiustificabile. Così come non è degno di una informazione consapevole, il silenzio
tombale calato sui manifestanti palestinesi, oltre quaranta, uccisi dai
cecchini israeliani nei “venerdì di rabbia” organizzati da Hamas nella
Striscia. Così come non è giustificabile il silenzio sulla pulizia etnica in
atto a Gerusalemme Est e sulla confisca di terre palestinesi operata senza
soluzione continuità dal governo Netanyahu. Sottoporre a critica scelte che
impediscono il dialogo e che rendono impraticabile un accordo di pace fondato
sulla soluzione ”a due Stati”, non è solo un diritto. È un dovere. Perché
significa criticare Israele per quel che fa, e non per quello che è. Una linea
di distinzione che Abu Mazen ha scriteriatamente varcato.
Se Abu Mazen
voleva riportare sui media internazionali la questione palestinese, be’, ha
scelto davvero il modo peggiore, annota Yael Dayan, scrittrice, più volte
parlamentare nelle fila laburiste.
Un leader
politico non può scendere a questi livelli, tracimando considerazioni
pseudo-storiche alla David Irging – prosegue la figlia dell’eroe della Guerra
dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan -. Cosa dovevano aggiungere quelle
affermazioni sconsiderate alle ragioni che motivano la lotta dei palestinesi
per un proprio Stato? Non hanno aggiunto nulla, ma hanno sottratto tanto. E
questo è qualcosa di imperdonabile. È del tutto legittimo criticare
l’occupazione dei Territori, l’assedio a Gaza, gli atti unilaterali che hanno
reso impraticabile la soluzione a due Stati – prosegue Yael Dayan – ma tutto
questo non c’entra nulla con il più becero antisemitismo, che mette sotto
accusa Israele non per quel che fa ma per ciò che è.
Se c’è una
giornalista israeliana che conosce ogni piega della realtà palestinese nei
Territori, questa giornalista è Amira Hass, firma storica del quotidiano
progressista Haaretz.
Il discorso
di Abbas – annota la giornalista e scrittrice – denota uno stile autoritario e
l’incapacità del personaggio ad accettare critiche o suggerimenti. Resta il
fatto che il presidente dell’Anp non ha fatto venir meno il proprio sostegno
alla soluzione a due Stati. Ad abbandonare questa strada è stato Netanyahu con
il sostegno di Donald Trump.
È vero. Come
lo è la violazione dei più elementari diritti umani, il sopravvivere sempre più
difficile a Gaza o l’assenza di futuro per le generazioni palestinesi nate e cresciute
all’ombra del Muro dell’apartheid in Cisgiordania. Ma oggi, chi in Israele si
batte per veder riconosciute le ragioni del popolo palestinese, è molto più
debole che prima dell’esternazione del presidente dell’Anp. Negarlo, è chiudere
gli occhi di fronte alla realtà. E proprio perché senza memoria non c’è futuro,
penso che sia utile riportare qui un pezzo dell’intervista che Elie Wiesel,
premio Nobel per la Pace 1986, scomparso lo scorso anno, che nei campi di
sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e
Buchenwald trascorse undici mesi.
Ricordare
non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. mi
concesse dieci anni fa, in occasione del sessantesimo anniversario della
nascita d’Israele. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano
Ahmadinejad. Perché? “Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente
accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all’Olocausto ancora
vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo,
da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di
Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadineiad, non c’è stato un
Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì,
ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui
non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe
un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio
per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio
le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti:
chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L’Iran. L’Iran li
fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le
loro milizie. Gli Hezbollah non vogliono la nascita di uno Stato palestinese a
fianco dello Stato d’Israele. Il loro unico obiettivo – e del presidente
iraniano – è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad
non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali.
Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo
Paese, al suo popolo, a tutta l’umanità”. Israele. Cosa rappresenta per Lei?
”L’alba dei nostri sogni. L’affermazione del diritto del popolo ebraico ad un
suo focolaio nazionale. Un diritto difeso a caro prezzo in questi 60 anni”.
Israele potrà un giorno vivere in pace con i palestinesi?
“È la speranza che so di condividere con la grandissima maggioranza degli israeliani consapevoli che non esiste altra soluzione che quella di due Stati che vivano fianco a fianco, optando per la pace. Ma perché ciò possa accadere è necessario che i palestinesi comprendano che non è con l’odio e la violenza praticati da gruppi estremisti come Hamas che vedranno realizzate un giorno le loro aspirazioni”.
“È la speranza che so di condividere con la grandissima maggioranza degli israeliani consapevoli che non esiste altra soluzione che quella di due Stati che vivano fianco a fianco, optando per la pace. Ma perché ciò possa accadere è necessario che i palestinesi comprendano che non è con l’odio e la violenza praticati da gruppi estremisti come Hamas che vedranno realizzate un giorno le loro aspirazioni”.
Con le sue
parole, Abu Mazen si è mostrato un novello Ahmadinejad. Nei circoli
intellettuali progressisti israeliani è da tempo aperto un dibattito sullo
Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una recente intervista, Zeev Sternhell,
il più autorevole storico israeliano:
Integrazione
o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la
soluzione “a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità
internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi
arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di
fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre
400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire
impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West
Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e
l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva
di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di
iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e
nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non
significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità.
Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io
penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di
aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle
condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato
binazionale.
Israele è un
sogno realizzato, anche se nel suo divenire si è scoperto meno idilliaco di
quanto immaginato. Lo dice con orgoglio e amore , speranza e inquietudine, Amos
Oz ad Elena Lowenthal per La Stampa, in un suggestivo ed emozionante
confronto a tre, con David Grossman e Abraham Bet Yehoshua.
Ho paura per
il futuro. Ho paura del fanatismo e della violenza. Ma sono contento di essere
cittadino di uno Stato che conta otto milioni e mezzo di profeti, otto milioni
e mezzo di primi ministri, otto milioni e mezzo di messia. Non ci si annoia,
qui. Ci si arrabbia, ogni tanto arrivano frustrazione e collera, ma non di rado
anche fascinazione ed entusiasmo. Questo è uno dei posti più interessanti del
mondo.
Per me –
dice Yehoshua – la conquista più importante di questi settant’anni è la
legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico sia nel contesto mondiale,
compresa una parte del mondo arabo e islamico, sia all’interno dell’ebraismo:
oggi Israele esiste perché deve esistere, perché è ovvio che esista. Questa
legittimità ce la siamo conquistata non solo con la forza delle armi, ma anche
nella capacità che questo Paese ha dimostrato di assorbire milioni di profughi.
C’è ancora tanto da fare, sono ancora in molti a negare il suo diritto
all’esistenza. Ma ci siamo e ci saremo.
Ora, di
fronte all’improvvida uscita di Abu Mazen, anche il più convinto sostenitore
del diritto all’autodeterminazione palestinese, non può non interrogarsi se,
per il bene dei palestinesi, la prospettiva per cui battersi non sia proprio
quello di uno Stato binazionale. Dove a volare non siano i “falchi”, e a
rappresentare le ragioni dei più deboli (i palestinesi) non siano presidenti
incapaci.
* da www.ytali.com
2 maggio 2018
Umberto De Giovannangeli, da inviato
speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli ultimi
trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i quali
“L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”, “L’89
arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”.
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