6 maggio 2018

Palestina: Abu Mazen negazionista


Il presidente palestinese rilancia vecchi cliché antisemiti, con effetti sconvolgenti in Israele ma anche nel suo campo

di Umberto De Giovannangeli *

Neanche il più falco tra i falchi israeliani poteva attendersi quel regalo venuto da Ramallah. Mittente: Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Sono da oltre trent’anni che seguo l’eterno conflitto israelo-palestinese. Una cosa, penso, di aver capito: la psicologia di una Nazione. Quella d’Israele. Una psicologia che comprendi visitando lo Yad Vashem, uscendo in lacrime dal Mausoleo che ricorda il massacro di un milione e mezzo di bambini ebrei nei lager nazisti. Certo, su questa tragedia senza pari nella storia dell’umanità, si è innestata la politica e un uso dell’Olocausto teso a giustificare ogni scelta compiuta dai governanti israeliani nei settant’anni dello Stato. Lo Stato ebraico, nato dalle ceneri dei ghetti in Europa, da Dachau, Auschwitz, dai campi di sterminio nazifascisti. L’Israele del dialogo esiste, e annovera nelle sue fila, oggi non maggioritarie, gli intellettuali che danno prestigio al Paese, i suoi scrittori più apprezzati nel mondo, premi Nobel e tant’altro. E oggi è anzitutto l’Israele del dialogo a essere stata annichilita dalle affermazioni del presidente palestinese, intrise del più becero antisemitismo.

Una cosa, l’Israele del dialogo, e le componenti più aperte e progressiste della diaspora, ha sempre cercato di tener ben distinte: una cosa è criticare, anche aspramente, le scelte compiute dai vari governi, e altra cosa è tracimare nell’antisemitismo. Cosa che Abu Mazen ha fatto. Non importa se si è lasciato andare, se quelle farneticanti argomentazioni, degne del peggior Irving, riempiono una manciata di minuti in un discorso di oltre un’ora e mezza. Un leader è tale se sa controllare la rabbia di un popolo, se si dimostra capace di costruire sul dolore una speranza. Con quelle parole, Abu Mazen non si è dimostrato leader. E ha inferto un colpo durissimo alla “causa palestinese”. Una causa che è scesa agli ultimi posti nell’agenda internazionale, soppiantata dalla guerra siriana e da quella, più che probabile, tra Israele e Iran.

Oggi la vita nei Territori è marchiata dalla sofferenza. A Gaza, l’embargo israeliano sta creando una situazione indicibile che non può essere giustificata dal diritto alla difesa con cui le autorità israeliane tendono a giustificare anche l’ingiustificabile. Così come non è degno di una informazione consapevole, il silenzio tombale calato sui manifestanti palestinesi, oltre quaranta, uccisi dai cecchini israeliani nei “venerdì di rabbia” organizzati da Hamas nella Striscia. Così come non è giustificabile il silenzio sulla pulizia etnica in atto a Gerusalemme Est e sulla confisca di terre palestinesi operata senza soluzione continuità dal governo Netanyahu. Sottoporre a critica scelte che impediscono il dialogo e che rendono impraticabile un accordo di pace fondato sulla soluzione ”a due Stati”, non è solo un diritto. È un dovere. Perché significa criticare Israele per quel che fa, e non per quello che è. Una linea di distinzione che Abu Mazen ha scriteriatamente varcato.

Se Abu Mazen voleva riportare sui media internazionali la questione palestinese, be’, ha scelto davvero il modo peggiore, annota Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare nelle fila laburiste.
Un leader politico non può scendere a questi livelli, tracimando considerazioni pseudo-storiche alla David Irging – prosegue la figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan -. Cosa dovevano aggiungere quelle affermazioni sconsiderate alle ragioni che motivano la lotta dei palestinesi per un proprio Stato? Non hanno aggiunto nulla, ma hanno sottratto tanto. E questo è qualcosa di imperdonabile. È del tutto legittimo criticare l’occupazione dei Territori, l’assedio a Gaza, gli atti unilaterali che hanno reso impraticabile la soluzione a due Stati – prosegue Yael Dayan – ma tutto questo non c’entra nulla con il più becero antisemitismo, che mette sotto accusa Israele non per quel che fa ma per ciò che è.

Se c’è una giornalista israeliana che conosce ogni piega della realtà palestinese nei Territori, questa giornalista è Amira Hass, firma storica del quotidiano progressista Haaretz.
Il discorso di Abbas – annota la giornalista e scrittrice – denota uno stile autoritario e l’incapacità del personaggio ad accettare critiche o suggerimenti. Resta il fatto che il presidente dell’Anp non ha fatto venir meno il proprio sostegno alla soluzione a due Stati. Ad abbandonare questa strada è stato Netanyahu con il sostegno di Donald Trump.
È vero. Come lo è la violazione dei più elementari diritti umani, il sopravvivere sempre più difficile a Gaza o l’assenza di futuro per le generazioni palestinesi nate e cresciute all’ombra del Muro dell’apartheid in Cisgiordania. Ma oggi, chi in Israele si batte per veder riconosciute le ragioni del popolo palestinese, è molto più debole che prima dell’esternazione del presidente dell’Anp. Negarlo, è chiudere gli occhi di fronte alla realtà. E proprio perché senza memoria non c’è futuro, penso che sia utile riportare qui un pezzo dell’intervista che Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986, scomparso lo scorso anno, che nei campi di sterminio di Auschwitz (vi perse la madre, il padre e la sorellina) e Buchenwald trascorse undici mesi.

Ricordare non è solo un tributo ai milioni di donne e uomini annientati nei lager. mi concesse dieci anni fa, in occasione del sessantesimo anniversario della nascita d’Israele. Lei ha usato parole durissime contro il presidente iraniano Ahmadinejad. Perché? “Perché costui, nel ridicolizzare le verità storicamente accertate, nell’offendere la memoria dei sopravvissuti all’Olocausto ancora vivi, glorifica l’arte della menzogna. Da numero uno dei negazionisti al mondo, da antisemita con una mente disturbata, dichiara che la “soluzione finale” di Hitler non è mai esistita. E non basta. Secondo Ahmadineiad, non c’è stato un Olocausto nel passato, ma vi sarà nel futuro. Elucubrazioni di un fanatico? Sì, ma il fanatico si rivolge a folle che plaudono alle sue idee. Parole vuote? Lui non parla per nulla. Sembra impegnato nel mantenere le sue “promesse”. Sarebbe un errore mettere in dubbio la sua determinazione. Una persona non predica odio per niente. Appartengo a una generazione che ha imparato a prendere sul serio le parole del nemico. Anche perché queste parole sono accompagnate da fatti: chi c’è dietro l’organizzazione terrorista degli Hezbollah? L’Iran. L’Iran li fornisce di tutte le armi più sofisticate e degli ufficiali che addestrano le loro milizie. Gli Hezbollah non vogliono la nascita di uno Stato palestinese a fianco dello Stato d’Israele. Il loro unico obiettivo – e del presidente iraniano – è la distruzione di Israele. Ecco perché io sostengo che Ahmadinejad non può avere un posto nel panorama dei leader politici internazionali. Dovrebbe diventare “persona non grata”, per quello che sta facendo al suo Paese, al suo popolo, a tutta l’umanità”. Israele. Cosa rappresenta per Lei? ”L’alba dei nostri sogni. L’affermazione del diritto del popolo ebraico ad un suo focolaio nazionale. Un diritto difeso a caro prezzo in questi 60 anni”. 
Israele potrà un giorno vivere in pace con i palestinesi?
“È la speranza che so di condividere con la grandissima maggioranza degli israeliani consapevoli che non esiste altra soluzione che quella di due Stati che vivano fianco a fianco, optando per la pace. Ma perché ciò possa accadere è necessario che i palestinesi comprendano che non è con l’odio e la violenza praticati da gruppi estremisti come Hamas che vedranno realizzate un giorno le loro aspirazioni”.

Con le sue parole, Abu Mazen si è mostrato un novello Ahmadinejad. Nei circoli intellettuali progressisti israeliani è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una recente intervista, Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano:
Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione “a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale.

Israele è un sogno realizzato, anche se nel suo divenire si è scoperto meno idilliaco di quanto immaginato. Lo dice con orgoglio e amore , speranza e inquietudine, Amos Oz ad Elena Lowenthal per La Stampa, in un suggestivo ed emozionante confronto a tre, con David Grossman e Abraham Bet Yehoshua.
Ho paura per il futuro. Ho paura del fanatismo e della violenza. Ma sono contento di essere cittadino di uno Stato che conta otto milioni e mezzo di profeti, otto milioni e mezzo di primi ministri, otto milioni e mezzo di messia. Non ci si annoia, qui. Ci si arrabbia, ogni tanto arrivano frustrazione e collera, ma non di rado anche fascinazione ed entusiasmo. Questo è uno dei posti più interessanti del mondo.
Per me – dice Yehoshua – la conquista più importante di questi settant’anni è la legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico sia nel contesto mondiale, compresa una parte del mondo arabo e islamico, sia all’interno dell’ebraismo: oggi Israele esiste perché deve esistere, perché è ovvio che esista. Questa legittimità ce la siamo conquistata non solo con la forza delle armi, ma anche nella capacità che questo Paese ha dimostrato di assorbire milioni di profughi. C’è ancora tanto da fare, sono ancora in molti a negare il suo diritto all’esistenza. Ma ci siamo e ci saremo.

Ora, di fronte all’improvvida uscita di Abu Mazen, anche il più convinto sostenitore del diritto all’autodeterminazione palestinese, non può non interrogarsi se, per il bene dei palestinesi, la prospettiva per cui battersi non sia proprio quello di uno Stato binazionale. Dove a volare non siano i “falchi”, e a rappresentare le ragioni dei più deboli (i palestinesi) non siano presidenti incapaci.

   * da  www.ytali.com   2 maggio 2018

Umberto De Giovannangeli, da inviato speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli ultimi trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”, “L’89 arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”.

Nessun commento:

Posta un commento