di Marta Furlan *
Alla luce degli eventi di
questa settimana, cerchiamo di fare un breve riassunto di contesto, per
comprendere i principali motivi e le principali problematiche che attanagliano
la regione mediorientale, che la rendono una inesauribile fonte di instabilità.
Il 14 maggio
2018 Israele ha compiuto il suo 70° anniversario, raggiungendo un traguardo che nel 1948 sembrava
ai più impossibile, dato il teso panorama mediorientale nel quale lo Stato
ebraico venne alla luce. E in effetti, ancora oggi il Medioriente continua ad
essere regione di profonde tensioni in cui lo scorrere del tempo produce sempre
nuovi sconvolgimenti, ma mai significative distensioni. Prendendo
l’anniversario dell’indipendenza d’Israele quale pretesto utile per
interrogarci su dove sia il Levante oggi, il primo elemento da rilevare non può
che essere la permanenza del conflitto israelo-palestinese. Contrariamente alle
aspettative di quanti venticinque anni fa – quando Arafat e Rabin suggellavano
l’accordo di Oslo con la loro celebre stretta di mano sul prato della Casa
Bianca – pensavano si stesse assistendo all’inizio di una nuova forma di
convivenza tra ebrei e palestinesi, il conflitto tra i due popoli non hai mai
cessato di essere. Al più ha cambiato forma, oscillando tra guerra
convenzionale, resistenza passiva, guerriglia e terrorismo per adattarsi alle
circostanze e alle esigenze dei diversi momenti storici.
Nell’ultimo
anno si è osservata una pericolosa combinazione di fattori che ha
inevitabilmente portato a un aumento delle ostilità sui due fronti:
- l’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump, a oggi il presidente statunitense più marcatamente filo-israeliano;
- il rafforzamento dell’ultra-destra israeliana che dal 2015 guida il paese;
- la continua assenza di una classe politica palestinese coesa e credibile, che sappia superare la frattura tra Gaza e Cisgiordania e avanzare gli interessi nazionali palestinesi.
Eletto
presidente nel gennaio 2017, già lo scorso dicembre Trump annunciò il trasferimento dell’ambasciata statunitense in
Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Riconoscendo quest’ultima quale capitale
dello Stato ebraico e modificando così quello che era stato l’approccio
statunitense alla questione israelo-palestinese sotto ogni precedente
amministrazione, Trump ha di fatto compromesso la credibilità degli Stati Uniti
quali arbitro super partes nel dialogo tra ebrei e palestinesi, ora
sempre più destinato allo stallo. La decisione di Trump, inoltre, non solo ha
reso ogni prospettiva di futura negoziazione più difficile, ma ne ha anche
profondamente cambiato i termini: riconoscendo Gerusalemme capitale ebraica, ha
allontanato – secondo alcuni, definitivamente cancellato – la possibilità di
una soluzione “a due stati” che porti a uno Stato palestinese con Gerusalemme
Est capitale. Una tale decisione, con le implicazioni che comporta per il
dialogo tra le due parti, non poteva che infiammare gli animi palestinesi e
rafforzare l’ultra-destra israeliana. Quest’ultima, forte della nuova amicizia
israeliana-statunitense, si è affrettata a sfruttare il momento, proseguendo
nell’occupazione ebraica della Cisgiordania per mezzo di nuovi permessi alla
costruzione e di legalizzazioni retroattive e approvando un disegno di legge che conferisce al ministro degli Interni il
pericoloso potere di revocare la cittadinanza israeliana ai cittadini
palestinesi non giudicati “leali” allo Stato.
Su questo
sfondo si colloca la “marcia del ritorno”, lanciata dai palestinesi di Gaza il
30 marzo scorso per protestare contro l’isolamento al quale Israele relega la
Striscia e per reclamare il diritto a fare ritorno alla propria terra. Le
proteste, tenutesi per sei venerdì consecutivi, hanno visto migliaia di giovani
(alcuni associati con Hamas, altri non politicamente schierati e altri ancora
profondamente critici nei confronti del gruppo che governa dal 2007 sulla
Striscia) marciare verso il confine con Israele, accolti con gas lacrimogeni e
proiettili dalle forze israeliane al di là della barriera che, va detto, è
stata più volte attaccata con l’intento di infiltrarsi in territorio israeliano
da parte di gruppi di manifestanti palestinesi. Fino a metà maggio, il numero
delle vittime era di 49 morti ma il culmine è stato raggiunto il 14 maggio,
data significativa che non solo marca l’anniversario dello Stato ebraico e
della Nakba palestinese, ma che quest’anno è venuta a coincidere anche
con il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Solo in quel
giorno, 58 palestinesi sono stati uccisi e 2,700 feriti in modo più o meno
grave. Drammatica conferma che non sono bastati settant’anni a sanare le
tensioni tra i due popoli.
Accanto alla
perenne questione palestinese, il Medio Oriente è oggi attraversato da
ulteriori tensioni che stanno contribuendo a definire nuove dinamiche regionali
e nuovi assi di alleanza e di rivalità. In Siria la vittoria di Assad è oramai
assodata, e la guerra è entrata in una nuova fase in cui il conflitto civile ha
lasciato il posto alla competizione tra potenze esterne – regionali e non – interessate
a spartirsi il territorio in utili zone d’influenza. Così, mentre l’opposizione
ad Assad si vede costretta a lasciare le sacche che ancora controlla in cambio
della sopravvivenza, e mentre i curdi tentano di difendere le proprie
rivendicazioni autonomiste, Russia, Iran e Turchia hanno fatto del tavolo
negoziale di Astana (al quale gli Stati Uniti non sono presenti) il luogo in
cui definire il futuro assetto della Siria.
Qui,
particolarmente importante è il fattore iraniano. Infatti, mentre la Turchia
usa Astana per assicurarsi che l’irredentismo curdo non ottenga in Siria
vittorie che galvanizzerebbero i curdi della penisola anatolica e anche per
ritagliarsi un ruolo di primo piano nelle dinamiche mediorientali in un momento
in cui i suoi rapporti con l’occidente sono al loro punto più basso, e mentre
la Russia usa Astana per tutelare i propri interessi strategici nella regione
per mezzo di un regime siriano amico che lasci a Mosca le proprie basi navali e
aeree nell’area mediterranea, l’Iran sta usando Astana per dare soddisfazione
alle proprie ambizioni egemoniche. Nello specifico, Teheran sta sfruttando il
proprio coinvolgimento nella guerra di Siria a fianco di Assad (sostenuto sia
per mezzo della Guardia Rivoluzionaria Iraniana sia per mezzo dell’alleato
libanese Hezbollah) al fine di creare un corridoio d’influenza sciita che
dall’altopiano iranico si estenda fino al Mediterraneo passando attraverso
l’Iraq, il Libano e la Siria meridionale.
* da www.thezeppelin.org ( leggi i nostri Siria Report ) 18 maggio 2018
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