La riforma costituzionale
è tornata tra le priorità dell’attuale maggioranza. Si riparte da lì
dove eravamo rimasti prima delle elezioni: dal progetto del governo, nonostante
esso sia stato criticato da quasi tutti i senatori della commissione
affari costituzionali, malgrado l’approvazione di un opposto ordine del
giorno che dovrebbe impegnare in senso contrario la stessa commissione.
È allora opportuno anzitutto ricordare ciò che sembra si voglia invece
pervicacemente dimenticare: le costituzioni non sono strumenti di
governo.
Il loro scopo è quello di limitare
i sovrani, assicurare i diritti, dividere il potere. Una costituzione
strumentum regni non è una costituzione moderna: «Non si
ha costituzione se essa non fissa la separazione dei poteri e non assicura
la garanzia dei diritti» è scritto nei testi fondativi il costituzionalismo
moderno, è scritto nell’articolo 16 della dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789. Ed è semplicemente questo
che sosteniamo quando affermiamo che la costituzione non è nella disponibilità
di nessuna maggioranza politica. Non è nella disponibilità neppure
dei governi amici o ritenuti tali.
Le costituzioni possono essere cambiate, non c’è dubbio. Ma le modalità del loro cambiamento sono quelle fissate dalla carta costituzionale stessa. Stabilite in costituzione proprio per evitare che siano i governi, i poteri di volta in volta dominati, le maggioranze momentanee, i soli rapporti di forza a definire ciò che tiene unita un’intera società, a decidere sulla vita e sui diritti di tutti i consociati, sul modo di organizzare i poteri.
Da noi le regole del cambiamento
sono fissate nell’articolo 138. Il più citato tra quelli della nostra costituzione,
ma mai sino in fondo compreso. Pensare che si sia solo previsto un percorso
più accidentato (le maggioranze più alte, la doppia lettura di camera
e senato, magari anche il referendum che qualche minoranza ostinata
può richiedere) vuol dire non comprendere la sostanza dell’art. 138, che non
rappresenta semplicemente un ostacolo al cambiamento. Non è una
forza che frena (katechon). È una disposizione che, in caso, si
oppone all’improvvisazione, che invita a dare un senso non banale, non contingente
alla modifica dei principi che si pongono alla base del vivere civile.
Ed è appunto la complessità
del cambiamento che mi sembra sfugga. Alla base dei testi di riforma non
vedo un’idea di costituzione adeguata ai tempi complessi che viviamo. Proposte
sostenute dall’esigenze di dare risposte politiche immediate
all’indignazione, ma prive di ogni reale capacità di cambiamento profondo.
Sono testi che oscillano pericolosamente, passando attraverso parole
d’ordine d’effetto, ma vuote.
Un «senato dei sindaci», ma che
è invece composto in modo assai bizzarro: da sindaci, da governatori,
da rappresentanti delle regioni, da nominati del presidente delle Repubblica.
Senza nessuna scelta di un modello coerente tra i tanti disponibili.
Un senato che non può essere in grado di affermarsi neppure come organo rappresentativo
delle regioni, privato — come si vuole sia il nuovo senato — di ogni potere
effettivo nelle stesse materie di competenza regionale: è solo uno
slogan il «senato dei sindaci» ed è solo una suggestione lontana
dalla realtà quella che si richiama ai modelli federali come in Germania
o negli Stati uniti. (…)
In Italia avremo un gran bisogno
di cambiamento. Un cambio di passo rispetto al passato. Ma temo che nessun
cambiamento avremo sin tanto che continueremmo a giocare con le
parole, senza mai soffermarci a riflettere sul senso reale delle cose.
A proposito di parole usate a sproposito. L’accusa che ci viene spesso rivolta è quella di essere conservatori e di ostacolare il cambiamento. Parole prive di senso, pronunciate senza la consapevolezza della storia. Parole che potrebbero essere facilmente ribaltate.
Se infatti c’è un significato complessivo che può trarsi dalle riforme costituzionali, e ancor più da quella elettorale, è che esse si pongono in stretta continuità con il ventennio che abbiamo alle spalle e che ora si vuole meglio «conservare», definitivamente istituzionalizzare, iscrivendo i suoi principi addirittura nel testo della costituzione.
Non è solo una battuta provocatoria,
se è vero — come a me sembra indiscutibile — che la stagione che
abbiamo attraversato, che ci ha condotto sull’orlo del baratro economico,
finanziario, culturale, politico, è stata caratterizzata da una
progressiva verticalizzazione del sistema politico, da una concentrazione
dei poteri nelle mani di pochi, nella progressiva esautorazione del parlamento,
nella trasformazione dei partiti di massa in partiti personali, dalla
graduale chiusura autoreferenziale del ceto politico, nella progressiva
e sempre più accentuata distanza dei poteri governanti dal corpo elettorale.
Un corpo elettorale prima abbandonato a se stesso e che poi ha
finito per abbandonare la politica a se stessa.
Da tempo si tenta inoltre di sublimare l’assenza di un tessuto democratico diffuso, con la personalizzazione delle leadership. Non più partiti che definiscono indirizzi politici generali, bensì capi cui delegare il cambiamento, con i quali ci si può solo identificare, ma non si possono certo contestare.
Non è dunque un’improvvisa svolta autoritaria quella che denunciamo, bensì una progressiva caduta verso un particolare modello di democrazia. Quel tipo di democrazia che noi poveri costituzionalisti chiamiamo «democrazia d’investitura» ovvero «identitaria». Un modello in verità molto distante da quello disegnato in costituzione. Nella sua prima parte. In quella parte che nessuno dice di voler cambiare, proprio perché tutti ancora — a parole almeno — dicono che definisce i principi democratici ancora validi, entro cui tutti dovremmo continuare a riconoscerci.
Da tempo si tenta inoltre di sublimare l’assenza di un tessuto democratico diffuso, con la personalizzazione delle leadership. Non più partiti che definiscono indirizzi politici generali, bensì capi cui delegare il cambiamento, con i quali ci si può solo identificare, ma non si possono certo contestare.
Non è dunque un’improvvisa svolta autoritaria quella che denunciamo, bensì una progressiva caduta verso un particolare modello di democrazia. Quel tipo di democrazia che noi poveri costituzionalisti chiamiamo «democrazia d’investitura» ovvero «identitaria». Un modello in verità molto distante da quello disegnato in costituzione. Nella sua prima parte. In quella parte che nessuno dice di voler cambiare, proprio perché tutti ancora — a parole almeno — dicono che definisce i principi democratici ancora validi, entro cui tutti dovremmo continuare a riconoscerci.
Ma allora, se vogliamo prendere sul
serio queste dichiarazioni diffuse, dovremmo pretendere un diverso
e più radicale cambiamento. Dovremmo esigere una vera rottura di continuità
con il recente passato per ripensare quel modello di democrazia che
sostiene l’impianto della nostra costituzione e che oggi è in sofferenza.
Non la chiusura degli spazi di democrazia e partecipazione bensì
l’affermazione delle regole del pluralismo sociale e politico.
Qualcuno vuole realmente cambiare lo stato di cose presenti? Si introducano nuove forme di partecipazione che non si limitino alle spettacolari — ma assolutamente prive di effetti — consultazioni on line dei cittadini: non basta l’ apertura di un indirizzo mail fantasiosamente intitolato alla rivoluzione di palazzo Chigi (ad una «rivoluzione dall’alto» dunque) per assicurare il coinvolgimento nelle decisioni politiche.
Si pensi con più fondatezza
a modificare i regolamenti parlamentari per imporre la discussione
dei disegni di legge popolare, ad esempio.
Si valorizzi la cittadinanza attiva, l’Italia che ancora crede che sia utile scendere in piazza, manifestare per le proprie idee e difendere i territori dalla deturpazione delle grandi opere inutili. Le istituzioni del pluralismo sono quelle che si fanno carico del disagio e che hanno la forza di cambiare opinione, anche a seguito del diffuso dissenso sociale. Cambiare idea anche per prevenire il dilagare di ogni violenza, che rappresenterebbe la morte del confronto democratico e civile.
Non si vuole più la concertazione perché ostacola la decisione, all’inconcludenza dei «tavoli» delle trattative tra le parti sociali si vuole sostituire la velocità dell’intervento risolutivo. Ma delle regole per garantire il controllo democratico dovremo pur indicarle. La partecipazione rallenta è vero, ma la velocità senza limiti porta di sicuro fuori strada, fuori dalla strada della democrazia partecipativa.
Al governo spetta la tutela di ciò che è comune, ma non può pensare di svolgere questo compito senza i diretti interessati. E allora, quando si tratta di garantire i beni essenziali della vita, i diritti fondamentali dei cittadini, dall’acqua alla cultura, dall’ambiente all’istruzione, soprattutto in una fase di ristrettezze economiche, perché non avere un po’ più di fantasia e permettere, ad esempio, la gestione dei beni comuni agli stessi cittadini. Applicando principi partecipativi che in costituzione sono stati introdotti, ma che non hanno trovato ancora una applicazione generalizzata.
Invertire la rotta vuol anche dire
non continuare a sbarrare la strada ai nuovi competitori politici:
clausole di sbarramento, premi, torsioni maggioritarie sono tutti strumenti
finalizzati a favorire lo scopo legittimo della governabilità, ma
è giunto il tempo di dire che oltre alla governabilità anche i pluralismo
delle forze politiche è un valore costituzionale. E un parlamento
ricco di diverse esperienze, che ricominci a rappresentare non più
solo i vertici dei partiti dei leader, ma anche una società frammentata
e divisa, parlamentari scelti dagli elettori e non inseriti
nelle liste grazie ad una selezione operata dall’alto, rappresenta il presupposto
indispensabile per fare uscire il nostro sistema parlamentare dal coma
profondo cui è entrato.
Il testo
è un estratto dell’intervento letto a Modena nel corso della
manifestazione «Per un’Italia libera e onesta» promossa da Libertà e Giustizia il 2 giugno con: GUSTAVO
ZAGREBELSKY, SANDRA BONSANTI, STEFANO RODOTÀ, LORENZA CARLASSARE, MARCO
TRAVAGLIO, GIANCARLO CASELLI, CARLO SMURAGLIA, ALBERTO VANNUCCI, ELISABETTA
RUBINI, PAUL GINSBORG, ROBERTA DE MONTICELLI, GAETANO AZZARITI
Nessun commento:
Posta un commento