di Beppe Grillo *
Siamo
abituati, come tutti gli appartenenti alla propria epoca, a pensare che questo
sia il migliore dei mondi possibili. E forse è anche vero. Non è perfetto, ma
sicuramente è un momento in cui può divenire possibile. Ma come tutti i periodi
di grandi cambiamenti, questo è il momento di scegliere alcune strade invece di
altre. Perché sono le strade che prendi che determinano il vero cambiamento. Una
di queste difficili scelte è capire come coniugare competitività e
solidarietà.
Il padre
della moderna economia, Adam Smith, aveva un’idea rivoluzionaria: scatenare
l’egoismo dentro ognuno di noi. Così facendo avremmo dato il tutto per
tutto per raggiungere i nostri obiettivi e i più bravi avrebbero ottenuto i
risultati migliori. Ovviamente l’occidente ha acquisito una mentalità
competitiva con il passare dei tempi, e delle religioni, come ha
brillantemente analizzato Weber in “L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo”. Secondo Smith questo avrebbe prodotto più ricchezza per tutti, ed
è vero, così è stato, almeno per un po’. Ma alla domanda che gli facevano i
suoi detrattori, se ci sarebbe stato un freno a tutto ciò, Smith rispondeva che
il mercato si sarebbe modellato da sè, che dovevamo rivolgerci all’interesse
personale del macellaio, e non alla sua benevolenza. Dobbiamo dire che questo
non è avvenuto. Ed è abbastanza chiaro.
Secondo la
rivista Forbes, cinque anni fa 385 persone avevano la stessa ricchezza di
mezzo pianeta, ossia la stessa ricchezza di 3 miliardi e 400 milioni di persone
più povere del mondo. Nel 2016 sono diventate 88, ed ora hanno la ricchezza
di 3 miliardi e 600 milioni di persone. Questo vuol dire che tra dieci anni 12
individui potrebbero avere la ricchezza di tutto il mondo.
Ovviamente
con la competitività si riesce a far crescere il paese, abbiamo strutturato
tutto il nostro sistema sociale, abbiamo costruito tanto e fatto un viaggio
incredibile. Un viaggio che ci ha portato da una società contadina ad una
società del futuro. É vero che questo comporta delle storture, soprattutto ora
che siamo in un’economia globalizzata, dove tutto ciò che conta è il risultato
economico delle aziende, conditio sine qua non della sopravvivenza delle
stesse (a scapito di altre). Accanto alla cattiva distribuzione della
ricchezza, abbiamo anche una pessima distribuzione del sapere: ci sono persone
coltissime e persone semi analfabete. Pensate che viviamo in un mondo che ogni
anno produce un Pil di 65 trilioni di dollari, ossia 65 mila di miliardi di
dollari. Una cifra mostruosa, che ogni anno cresce mediamente del 3% in più. Secondo
il rapporto ONU sullo Sviluppo umano, basterebbero 100 miliardi di dollari
ogni anno per sradicare dal pianeta la fame e la povertà estrema.
Come mai non
si fa? Cosa ce lo impedisce?
Abbiamo
governato il mondo con la scienza e la tecnica, ma abbiamo dimenticato il cuore
e l’anima. Abbiamo disuguaglianze ormai
incolmabili e inconcepibili. Fortunatamente parte di queste disuguaglianze
saranno colmate con il tempo. Infatti nel 2030 il il 60% dei laureati nel
mondo saranno donne, come i possessori di master. Finalmente l’umanità
recupera metà dell’umanità che è stata tenuta emarginata da tempo immemore,
metà umanità che non ha potuto studiare per secoli, che non ci ha potuto dare i
frutti della sua intelligenza.
Quante cose
si sarebbero potute fare prima avendo a disposizione il doppio delle
intelligenze?
Il mondo è
divenuto così competitivo da lasciare indietro troppa gente. Da sempre abbiamo
costruito una società tenuta in piedi proprio sulla competitività del lavoro.
Ora questo appare assurdo. Presto saremo, in quello che gli americani chiamano,
jobless route, cioè sviluppo senza lavoro. E questo è un trend iniziato
proprio con la rivoluzione tecnica.
Nel 1891 gli italiani erano 40 milioni e lavoravano 70
miliardi di ore. Nel 1991, 100 anni dopo, gli italiani erano diventati 57
milioni, però lavoravano 60 miliardi di ore. Cioè lavoravano 10 miliardi di ore
in meno, ma producevano 13 volte in più. Gli ultimi dati risalenti al 2016 ci
dicono che siamo 61 milioni di italiani e abbiamo lavorato 44 miliardi di ore,
producendo 22 volte di più.
Questo
comporta maggiore tempo libero, magari da investire in quello che Rifkin
chiama quaternario, ossia tutte le attività no-profit e sociale, che
dovrebbero esplodere e inglobale gran parte dei futuri inoccupati produttivi.
Possiamo dire che siamo cresciuti con il mito della competitività,
pensiamo che sia parte del nostro DNA, che è propria dell’essere umano, siamo
convinti che sia la nostra natura. Ma come diceva Claude Levi Strauss,
spesso confondiamo cultura per natura. Ed infatti sono solo 200 anni che queste
idee sono entrate nel nostro stile di vita e non c’è nessuno studio che
dimostri queste peculiarità umane, anzi.
La grande
scoperta di Darwin fu a lungo usata proprio dalle classi dominanti,
perché avvallava quella idea di superiorità dell’individuo più adatto. Ma anche
se lui non l’ha mai detto, presto “più adatto” divenne “migliore”. I migliori
ce la fanno. Ed è questa l’idea che anche oggi abbiamo. I poveri sono poveri
perché in fondo gli manca qualcosa. Cosa? Mancano delle caratteristiche
magnifiche che attribuiamo ai ricchi, a chi da solo ce l’ha fatta. Questa è
stata la giustificazione naturalistica del neoliberismo.
Kropotkin aveva in mente invece un’altra teoria evolutiva. Il
suo pensiero era diverso, partiva dall’idea della collaborazione, e la spiegava
cosi: “Se chiediamo alla natura, chi è il più adatto? Sono quelli che sono
continuamente impegnati nella guerra reciproca, o sono quelli che si sostengono
a vicenda? Allora possiamo vedere immediatamente che quegli animali che
acquisiscono abitudini di aiuto reciproco, sono senza dubbio i più adatti. È
più probabile che sopravvivano e raggiungano, il maggiore sviluppo
dell’intelligenza e dell’organizzazione“. Quando l’uomo ha dato prova di
sè, quando ha fatto grandi cose, le ha fatte insieme, si è battuto insieme. É
stato il “gruppo” a cambiare il mondo. É stato grazie alla solidarietà che
abbiamo fatto cose davvero grandi.
Ovviamente
la competitività non deve sparire, ma riequilibrarsi. La vita è sempre vista
come un superamento di qualcosa, spesso dell’altro. Non deve per forza essere
così. Possiamo cambiare visione e dotarci di due lenti per osservare il mondo.
Perché entrambe, per ora, servono, a comprenderlo.
* dal blog www.beppegrillo.it 5 aprile 2018
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