di Marco Almagisti e Paolo Graziano
*
Dopo le elezioni del 4 marzo, i mass
media non mancano di metterci in guardia rispetto al pericolo costituito dal
(neo)populismo. Ma siamo certi che, usando il termine in modo esteso e
improprio, non si faccia un cattivo servizio alla democrazia?
La democrazia dei moderni è una
democrazia rappresentativa. Democrazia rappresentativa è un termine che indica
un connubio: da un lato, il principio del governo popolare (per il quale la
legittimità del potere politico deriva dal popolo); dall’altro l’istituto della
rappresentanza, per cui il potere del popolo si manifesta soprattutto (ma non
esclusivamente) nella scelta dei rappresentanti che agiscono in nome e per
conto dei cittadini. La democrazia rappresentativa è una costruzione sempre in
tensione, che consente una critica dell’operato dei rappresentanti da parte di
chi li ha eletti. Tali critiche sono tanto più probabili e vigorose quanto più
si attraversano momenti di crisi economica e sociale.
Secondo alcuni autori, e noi fra questi, il (neo)populismo costituisce una risposta ad un malessere sociale profondo che in tempi recenti non è stato rilevato né “rappresentato” dai partiti tradizionali. Il (neo)populismo contemporaneo è una risposta a tale malessere democratico, interna alla democrazia. Che piaccia o non piaccia. Una risposta che si è spesso rivelata vincente, a partire dalla proposta di tagliare i costi della politica – proposta che non è demagogica, come sostengono molti commentatori, ma simbolica. E i simboli in politica non sono tutto, ma rimangono fondamentali.
Secondo alcuni autori, e noi fra questi, il (neo)populismo costituisce una risposta ad un malessere sociale profondo che in tempi recenti non è stato rilevato né “rappresentato” dai partiti tradizionali. Il (neo)populismo contemporaneo è una risposta a tale malessere democratico, interna alla democrazia. Che piaccia o non piaccia. Una risposta che si è spesso rivelata vincente, a partire dalla proposta di tagliare i costi della politica – proposta che non è demagogica, come sostengono molti commentatori, ma simbolica. E i simboli in politica non sono tutto, ma rimangono fondamentali.
Vi sono alcuni utilizzi che
riteniamo fuorvianti del termine (neo)populismo.
1) Nel linguaggio politico,
con la parziale eccezione di Podemos, Marine Le Pen e di Grillo, «populista» è
sempre il proprio antagonista, l’altro che – in quanto populista – diventa IL
nemico. Ossia, il termine «populista» è usato sic et simpliciter come un
insulto;
2) nel linguaggio giornalistico, «populista» connota spesso
l’insorgenza di movimenti o partiti non previsti o non graditi
dall’establishment;
3) di conseguenza, si rischia di definire «populista»
qualsiasi movimento di protesta, oppure ogni critica alle classi dirigenti o,
più sottilmente, ogni critica alle decisioni prese dalle classi dirigenti (fra
cui le politiche di gestione della crisi economica);
4) molti esponenti della
classe politica identificano con il termine «populista» la ricerca del
«consenso», ma in questo modo si trascura il fatto che un sistema democratico
necessita di legittimità, di costruire «consenso» sulle decisioni di fondo.
Pena la perdita di legittimità del sistema nel suo complesso e la
criminalizzazione di ogni forma di dissenso;
5) secondo molti commentatori è da
considerare «populista» quell’attore politico che punta le sue chances sulla
comunicazione politica, ma in questo modo si trascura che «comunicare»
significa «mettere in comune» e, pertanto, non è un ambito in alcun modo
separabile da quello politico;
6) conseguentemente, considerare «populista» chi
semplicemente enfatizza gli aspetti emotivi della comunicazione politica,
significa disconoscere che l’essere umano è un animale simbolico, che utilizza
prassi discorsive per definire comportamenti e identità, e la comunicazione
politica ha sempre avuto ad oggetto anche le emozioni e la loro gestione.
Per
rimanere al caso italiano, cos’erano i giganteschi apparati ideologici dei
grandi partiti di massa se non formidabili strumenti di comunicazione politica
e di gestione della speranza politica? Oggi, tramontati quei «mondi vitali», è
molto più difficile organizzare e stabilizzare il consenso, per poter
conseguire obiettivi che trascendano l’immediato. Ma non v’è altra strada – a
patto di non snaturare la democrazia – che non passi dalla faticosa
ricostruzione di legami di fiducia fra cittadini, attori politici e
istituzioni.
In questa prospettiva, consideriamo il (neo)populismo non come
malattia esibita da politici ed elettori, bensì come una manifestazione di
democrazia a cui, se non ci si trova d’accordo, ci si deve opporre con idee,
pratiche e persone nuove. E soprattutto credibili.
* da il manifesto - 7 aprile 2018
Marco Almagisti e Paolo Graziano
insegnano Scienza politica all’Università di Padova.
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