7 aprile 2018

Cercare il consenso non è populismo


di Marco Almagisti e Paolo Graziano *

Dopo le elezioni del 4 marzo, i mass media non mancano di metterci in guardia rispetto al pericolo costituito dal (neo)populismo. Ma siamo certi che, usando il termine in modo esteso e improprio, non si faccia un cattivo servizio alla democrazia?

La democrazia dei moderni è una democrazia rappresentativa. Democrazia rappresentativa è un termine che indica un connubio: da un lato, il principio del governo popolare (per il quale la legittimità del potere politico deriva dal popolo); dall’altro l’istituto della rappresentanza, per cui il potere del popolo si manifesta soprattutto (ma non esclusivamente) nella scelta dei rappresentanti che agiscono in nome e per conto dei cittadini. La democrazia rappresentativa è una costruzione sempre in tensione, che consente una critica dell’operato dei rappresentanti da parte di chi li ha eletti. Tali critiche sono tanto più probabili e vigorose quanto più si attraversano momenti di crisi economica e sociale.
Secondo alcuni autori, e noi fra questi, il (neo)populismo costituisce una risposta ad un malessere sociale profondo che in tempi recenti non è stato rilevato né “rappresentato” dai partiti tradizionali. Il (neo)populismo contemporaneo è una risposta a tale malessere democratico, interna alla democrazia. Che piaccia o non piaccia. Una risposta che si è spesso rivelata vincente, a partire dalla proposta di tagliare i costi della politica – proposta che non è demagogica, come sostengono molti commentatori, ma simbolica. E i simboli in politica non sono tutto, ma rimangono fondamentali.

Vi sono alcuni utilizzi che riteniamo fuorvianti del termine (neo)populismo. 

1) Nel linguaggio politico, con la parziale eccezione di Podemos, Marine Le Pen e di Grillo, «populista» è sempre il proprio antagonista, l’altro che – in quanto populista – diventa IL nemico. Ossia, il termine «populista» è usato sic et simpliciter come un insulto; 

2) nel linguaggio giornalistico, «populista» connota spesso l’insorgenza di movimenti o partiti non previsti o non graditi dall’establishment; 

3) di conseguenza, si rischia di definire «populista» qualsiasi movimento di protesta, oppure ogni critica alle classi dirigenti o, più sottilmente, ogni critica alle decisioni prese dalle classi dirigenti (fra cui le politiche di gestione della crisi economica); 

4) molti esponenti della classe politica identificano con il termine «populista» la ricerca del «consenso», ma in questo modo si trascura il fatto che un sistema democratico necessita di legittimità, di costruire «consenso» sulle decisioni di fondo. Pena la perdita di legittimità del sistema nel suo complesso e la criminalizzazione di ogni forma di dissenso; 

5) secondo molti commentatori è da considerare «populista» quell’attore politico che punta le sue chances sulla comunicazione politica, ma in questo modo si trascura che «comunicare» significa «mettere in comune» e, pertanto, non è un ambito in alcun modo separabile da quello politico; 

6) conseguentemente, considerare «populista» chi semplicemente enfatizza gli aspetti emotivi della comunicazione politica, significa disconoscere che l’essere umano è un animale simbolico, che utilizza prassi discorsive per definire comportamenti e identità, e la comunicazione politica ha sempre avuto ad oggetto anche le emozioni e la loro gestione.

Per rimanere al caso italiano, cos’erano i giganteschi apparati ideologici dei grandi partiti di massa se non formidabili strumenti di comunicazione politica e di gestione della speranza politica? Oggi, tramontati quei «mondi vitali», è molto più difficile organizzare e stabilizzare il consenso, per poter conseguire obiettivi che trascendano l’immediato. Ma non v’è altra strada – a patto di non snaturare la democrazia – che non passi dalla faticosa ricostruzione di legami di fiducia fra cittadini, attori politici e istituzioni. 

In questa prospettiva, consideriamo il (neo)populismo non come malattia esibita da politici ed elettori, bensì come una manifestazione di democrazia a cui, se non ci si trova d’accordo, ci si deve opporre con idee, pratiche e persone nuove. E soprattutto credibili.

* da il manifesto  - 7 aprile 2018

Marco Almagisti e Paolo Graziano insegnano Scienza politica all’Università di Padova.


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