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Potrebbe sembrare che la politica africana
non sia cambiata poi molto nel periodo di 45 giorni che, tra metà
settembre e fine ottobre, ha visto susseguirsi un’improbabile
coincidenza di appuntamenti elettorali nel continente. Se la
politica cambia poco le società africane, invece, si stanno
trasformando profondamente.
Il 16 settembre i malawiani sono
andati a votare per eleggere il loro presidente. L’ultima volta, nel
2019, la Corte costituzionale aveva dichiarato nullo il risultato
elettorale, con i cinque giudici in giubbotto antiproiettile ad
annunciare la decisione in tv: fu favorito il presidente in carica,
Peter Mutharika, contro Lazarus Chakwera, che però meno di un anno
dopo, nella ripetizione del voto, prevalse. Nel sequel 2025 di questo
scontro Mutharika, 85 anni, si è imposto su Chakwera, 70, con il 56,8%
ed è stato dichiarato presidente.
Il 12 ottobre, quasi un mese dopo, è stato il
turno del Camerun: il risultato, con il 92enne presidente
Paul Biya candidato per la sesta volta, era scontato. Meno i suoi
effetti: un po’ per la caratura politica dell’avversario, Issa Tchiroma
Bakary, un po’ per lo scollamento dalla realtà dell’establishment
camerunese (Biya, nato quando Hitler diventava cancelliere del Reich,
non ha potuto fare campagna elettorale a causa delle sue condizioni di
salute, in un Paese dove i nati nel 2006 rappresentano l’età media), le
proteste sono dilagate in tutto il Paese e non solo rinfocolando il
vecchio dilemma coloniale tra le popolazioni francofone e anglofone. A
fine mandato, se sopravvivrà a se stesso, Biya potrebbe avere quasi 100
anni.
Due settimane dopo, il 25 ottobre, in Costa
d’Avorio Alassane Ouattara, 83 anni, ha ottenuto quasi il 90% dei
voti e un quarto mandato presidenziale: al potere dal 2010, le
ambizioni di Ouattara all’inizio di questo millennio hanno portato il
Paese sull’orlo del collasso ma lui ne è uscito da re incontrastato:
quando finirà questo mandato, Ouattara avrà poco meno di 88 anni.
Il 29 ottobre è stato il turno della Tanzania,
in quella che è stata la tornata elettorale più sanguinosa dell’anno:
le elezioni si sono svolte in un cimitero, da mesi nel Paese è stata
scatenata quella che Amnesty International ha definito «ondata di
terrore», con migliaia di critici e oppositori (ci vuole poco, basta un
commento sbagliato al post sbagliato) incarcerati e il leader
dell’opposizione, Tundu Lissu, accusato di tradimento e a rischio pena
di morte. Il giorno del voto la rabbia è esplosa e nonostante il
blackout di internet (un blocco molto efficace per gli standard
africani, durato diversi giorni e che ha impedito a testimonianze,
informazioni, denunce e proteste di uscire dal Paese) a migliaia hanno
protestato a Dar-Es-Salaam, Arusha, Mbeya e Mwanza, beccandosi
proiettili veri sparati mirando alla testa. A due settimane dalla
mattanza non è ancora chiaro il numero delle vittime (tra le 3000 e
le 10000 – sì, diecimila), alle quali si sono aggiunti gli omicidi
di massa mirati nei centri abitati sospettati di essere roccaforti
dell’opposizione. Omicidi che vanno avanti ancora oggi.
Persino l’Unione africana abbia dichiarato le
elezioni tanzaniane “truccate” (Samia è stata dichiarata vincitrice con
il 98% dei voti) ma è bastato ignorarla: ora l’appuntamento è al 9
dicembre, giorno dell’Indipendenza, quando i giovani tanzaniani torneranno
in piazza a sfidare le mitragliatrici.
E non è finita qui: il 23 novembre sarà la Guinea
Bissau ad andare al voto, un ex-narcostato (nemmeno troppo
“ex”) il cui Parlamento è stato chiuso dal suo presidente, Umaro
Sissoco Embalò, a dicembre 2023. Il favorito è proprio lui, Embalò, che
a marzo aveva detto di non volersi ricandidare, salvo farlo dietro
consiglio della moglie.
Il 28 dicembre l’anno si chiuderà con altre
due elezioni presidenziali importanti, in Guinea e Repubblica
Centrafricana. Nel primo caso il favorito è il leader della
giunta militare attualmente al potere, Mamady Doumbouya, diplomatosi
ufficiale in Francia, alla guida dell’unica giunta militare dell’Africa
occidentale a non avere subito sanzioni internazionali di alcun genere
e che, anzi, gode di un certo favore dei governi europei. Nel secondo
caso invece il favorito è l’ex-professore di matematica Faustine
Archange Touadera, alla ricerca di un terzo (illegittimo fino a un anno
fa) mandato. Anche lui, amico di tutti: ha la guardia personale e i
consiglieri della sicurezza che sono ex-Wagner russi, fa lavorare gli
americani come contractor, ospita nel Paese una missione di caschi blu
e viene a Roma molto spesso per riunioni su sicurezza e disarmo alla
Comunità di Sant’Egidio.
Mentre fioccavano tutte queste elezioni, in Madagascar
c’è stato un colpo di Stato e il presidente se ne è scappato in
Francia, lasciando il posto a un militare.
Di fronte a tutti questi voti con i risultati
sempre uguali viene da chiedersi se l’Africa ha un futuro e,
diversamente da come ci saremmo risposti all’inizio della carriera
politica di questi dinosauri, la risposta è Sì: lo dimostrano i numeri
della demografia (l’età media, nel continente, è di poco superiore
ai 19 anni), le proteste della GenZ che dilagano ovunque, le
statistiche della scolarizzazione, sempre più diffusa e sempre più alta
come grado scolastico e formazione professionale. Da buona società
anziana, benestante e colonialista, noi europei guardiamo con paternalismo
alla politica africana, dimenticandoci lo sforzo del provare a
comprenderla. Ma se l’Africa ha un futuro, l’Europa può dire
altrettanto?
* Nord Sud Ovest Est. Per non
perdere l'orientamento
da il manifesto 18 novembre 2025 (Vai agli articoli )
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