Prima di una
sospensione ad agosto, in questo e nel prossimo post vorrei aprire
una riflessione sugli scenari energetici futuri su cui agiscono potenti
forze e che, nonostante i 27 milioni di voti del referendum antinucleare,
continuano ad essere sottratti all’informazione e alla volontà popolare.
Hermann
Scheer già alla
fine del secolo scorso, riteneva che in seguito all’esaurimento dei fossili il
futuro energetico fosse ad un bivio: atomo o sole, tra loro in conflitto
come alternative, sociali, ambientali e economiche, prima che tecnologiche.
L’accelerazione della crisi climatica (l’Agenzia
Europea per l’Ambiente valuta in 15.000 miliardi di euro i danni per eventi catastrofici nel sud
dell’Europa nel prossimo quinquennio); la diffusione di tecnologie
estrattive rivoluzionarie per gas e petrolio (shale gas e trivellazioni in
condizioni ambientali estreme); il rapido avvicinamento alla grid parity da
parte delle fonti naturali e i progressi nell’efficienza energetica, hanno reso
più articolato lo scenario previsto da Scheer. È comunque rimasto il discrimine
tra un sistema sempre più accentrato e basato su fonti ad alta densità
energetica ed elevatissimo impatto ambientale e un sistema diffuso, a matrice
territoriale, decarbonizzato e senza una rigida distinzione tra produttori e consumatori.
In effetti, con il lento declino del sistema tradizionale (v. anche i post
precedenti e l’affermazione di Bloomberg secondo cui il 70% della nuova
potenza elettrica che verrà installata nel mondo entro il 2030 sarà alimentata
da fonti rinnovabili) sono i dati che annunciano un passaggio storico
rispetto al quale la politica evidenzia tutto il suo deficit progettuale, per
piegarsi agli interessi poco lungimiranti di un potere
economico-finanziario-industriale che ha portato alla crisi attuale.
Non c’è
segno di svolta a livello mondiale ma, a parte rare eccezioni (la Germania in
particolare), solo esitazione. In questa irresponsabilità diffusa, il
governo e la classe dirigente nostrani si distinguono nel ripercorrere con
baldanza le strade antiche, mentre mistificano – per lo più con affermazioni e
dati opinabili – i progressi sul versante delle energie verdi.
È utile
cominciare a fare il punto sulla direzione di marcia del sistema energetico da
qui alla seconda metà del secolo e sulla effettiva praticabilità di nuove
strade che le lobby non ci vogliono far scoprire. Eppure qui si gioca una parte
rilevantissima dell’uscita dalla crisi. Pertanto irritano le affermazioni un
po’ volgari di Paolo Scaroni (Eni): “Abbiamo investito in modo
dissennato nelle energie rinnovabili, vecchie, costose e
inefficienti: eravamo ubriachi? Sul fronte energetico l’Europa non ha molta
scelta: o creiamo le condizioni per lo shale gas o dobbiamo pensare ad altre
opzioni, tra le quali il nucleare”. E di rimando Chicco Testa
(Assoelettrica): “Dal 2005 abbiamo fatto errori enormi: i lavori verdi non sono
mai stati sviluppati, non abbiamo mai costruito una filiera, non ci sono lavori
qualificati. Ci sono solo giardinieri e lavoratori che puliscono gli impianti
fotovoltaici”. L’arrogante sicurezza tradisce il disegno di fondo: contrastare
la diffusione degli impianti alimentati da rinnovabili deridendoli come
economia di nicchia e assistita e penalizzandoli, evitando di riprogettare la
rete e le reti per funzioni di accumulo, di scambio locale multidirezionale e
di flessibilità nell’allocazione dell’offerta programmata.
Ma ciò che
più preoccupa è l’incertezza
di tutto il sindacato e in particolare della Cgil nel sostenere con fermezza il
modello vincente in base all’occupazione, alla salute e alla stabilizzazione
del clima. In un recente convegno, il segretario generale degli elettrici ha
sostenuto che occorre “gestire la transizione per uscire dal fossile, con una
posizione comune dell’Europa sull’atomo, difendendo i posti di lavoro e
rafforzando la competitività delle imprese”. E l’Ires-Cgil afferma che: “i due
sistemi energetici, vecchio e nuovo, devono convivere perché ognuno serve
all’altro”. Ancora, nelle conclusioni del convegno, si è detto che “va gestita
la fase di transizione per uscire dal fossile, cercando di farsi meno male
possibile e difendere i posti di lavoro”.
Di
conseguenza, dopo aver apprezzato le “tecnologie innovative di cattura e
stoccaggio della CO2, della gassificazione e idrogenizzazione dei combustibili”
ed aver approvata la costituzione dell’Italia come Hub europeo del gas,
l’attenzione del sindacato sembra concentrarsi soprattutto sul prezzo di questa
materia prima, vero dominus delle politiche energetiche e tariffarie del
futuro. Insomma, il mondo del lavoro, decisivo per il governo della riconversione,
si pronuncia in definitiva per la convivenza del sistema dei fossili con quello
delle rinnovabili. Non rendendosi conto che è quanto le grandi utilities
e il mondo della finanza perseguono, ben sapendo che il primo è cento volte più
potente del secondo.
Ripeto:
l’alternativa è tra due prospettive organizzative della società e tra due
diversi approcci al rapporto tra scienza, tecnologia e democrazia. Chi sostiene
che esse possano e debbano convivere nel tempo medio-lungo, ora che si
cominciano a confrontare anche sotto il profilo economico e industriale, prende
un abbaglio. È proprio su questo che la politica energetica nazionale si
discosta dalla prospettiva assunta dalla Ue! E lo dimostra il dibattito in
corso sugli incentivi alle diverse fonti (non solo le rinnovabili) e le
contraddizioni che si stanno aprendo nella gestione dell’attuale rete
elettrica ed energetica, impraticabile, così come è stata progettata, al
modello decentrato e cooperativo delle rinnovabili. Sono convinto di una
precisa strategia delle corporation e delle grandi utility per mantenere legata
al modello ereditato dal gas, dal carbone e dal petrolio tutta la fase di
transizione imposta dall’emergenza climatica. Questa strategia ha due punti
fermi:
1) mantenere
il sistema energetico all’interno del sistema speculativo-finanziario
che domina le grandi opere e del sistema industriale multinazionale garantito
dalle strategie militari e dai blocchi geopolitici;
2) mantenere
a tutti i costi, anche con il sussidio degli stati o la creazione di bolle
speculative, la profittabilità di grandi centrali a combustione o a fissione
anche nel caso in cui i costi dei combustibili o i bilanci energetici
diventassero proibitivi.
È in questa
prospettiva che si può realizzare un rientro del nucleare su scala
continentale e mondiale e che si alimenta nel frattempo con la bolla dello
shale gas, il miraggio del sequestro di CO2 in caverne impenetrabili, nonché la
favola dell’Italia hub del gas in Europa. Anche se le popolazioni continueranno
ad avversare una prospettiva come quella dell’atomo, le lobby e gli interessi
militari potrebbero renderla difficilmente evitabile, inchiodando la
direzione della transizione sui loro schemi.
* da
ilfattoquotidiano.it, 30 luglio 2013
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