Nel marzo del 1994, Alexander Langer
scrive Il tentativo di decalogo per la
convivenza inter-etnica. Dieci punti che indicano modalità teoriche e
pratiche capaci di consentire alla compresenza sullo stesso territorio di
etnie, lingue, culture, religioni e tradizioni diverse di farsi riconoscere e
rendersi visibile nella propria dimensione plurietnica a svantaggio degli
esclusivismi etnici.
Per Langer, esplosioni di
nazionalismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso sono tra i fattori
dirompenti nella convivenza civile più minacciosi delle tensioni sociali,
ecologiche o economiche perché implicano tutte le dimensioni della vita
collettiva. Cultura, economia, vita quotidiana, abitudini, oltre che la
politica e la religione. Scrive su questi temi mentre scorre il sangue nella ex
Yugoslavia e nel ’94 ogni soluzione al conflitto appare lontana. La convivenza
a cui pensa non è prescrittiva. Al contrario è in grado di dissolvere la
conflittualità etnica solo nel caso sia soggettivamente voluta e agita da
mediatori, costruttori di ponti, traditori della compattezza etnica ma non da
transfughi. Esclude quindi ogni operazione tesa alla forzatura delle inclusioni,
dei processi di assimilazione, dei divieti di lingua e religione. Allo stesso
modo, stigmatizza le esclusioni forzate marchiate dall’emarginazione, dalla
ghettizzazione, dalla espulsione fino ad arrivare allo sterminio. Delinea con
coerenza il quadro di una convivenza soggettivamente desiderata, conseguenza
positiva del massimo livello possibile di conoscenza reciproca. Nello stesso
anno – 1994 – pochi mesi più tardi, a settembre, prepara per i Colloqui di
Dobbiaco un testo in cui mette a fuoco quella che secondo lui è la
questione politica centrale nell’impostazione di una strategia ecologica
alternativa e fortemente innovativa. Questa questione politica è il nodo
attorno a cui si sviluppa anche il pensiero di Langer per quanto riguarda la
neutralizzazione della conflittualità etnica. Delinea, così, un precetto
secondo lui indiscutibile e ineliminabile: “La conversione ecologica – scrive
nel titolo – potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”.
Lo “Stato etico ecologico”, l’eco-dirigismo, l’eco-autoritarismo, possibilmente
illuminato e possibilmente mondiale è “rimedio estremo” che non funziona.
Non esiste il "colpo
grosso", l’atto liberatorio che possa aprire la via verso la conversione
ecologica: i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione enorme e
paziente. Sarebbe auspicabile, secondo Langer, che il carburante del motore
della trasformazione si alimentasse nella triade “lentius, profundius, soavius”
piuttosto che ai pozzi comportamentali definiti dall’altra triade “altius,
citius, fortius”. La paura della catastrofe, ne è convinto, non ci condurrà mai
sulla giusta strada, non permetterà mai alla politica ecologista di sfuggire
alle insuperabili contraddizioni imposte da quest’ultimo tridente dove governa
l’esercizio di un potere che si esprime per costrizioni, per vittorie
strappate, per arroganze indipendenti dalla persuasione, dalla diffusione del
sapere, dal coinvolgimento culturale di grandi masse di cittadini. Ecco che
Langer fonda, come chiave della trasformazione, il principio del piacere
diffuso, dell’ampia condivisione di riflessioni, di metodi, di obiettivi;
coniuga, cioè, politica e piacere, movimento e piacere, cambiamento e piacere,
seguendo una logica e un vocabolario intellettuale, forgiati nelle rivolte e
nella critica sessantottesche. Apre allora alla didattica delle questioni
affrontate e imposta una pedagogia tesa alla persuasione piuttosto che alla
semplice e riduttiva vittoria, come sola pratica politica in grado di
intrecciare coscienze e interessi in modo solidale, consapevole, duraturo. Cita
come qualità imprescindibile di ogni operatività politica la pazienza, mentre
il mondo intorno a lui predica e attua il contrario. Per questo, parla di un
lavoro di “persuasione enorme”. In questo aggettivo in cui la quantità tende
all’infinito, Langer si muove in rotta di collisione con la crescente
sbrigatività, con il carattere commercialmente succinto, riduzionista del
linguaggio progressivamente adottato dalla politica tradizionale per evitare la
sbornia della velocità dei tempi nuovi, per non lasciarsi superare da questi,
per non perdere la partita. Langer sposta la politica dal luogo in cui si è
posizionata per mascherare la crisi allora evidente e oggi drammaticamente
esplosa. Attento alla sufficienza con cui la tribuna di quella politica guarda
alla sua diagnosi e ai suoi rimedi, riposiziona il pensiero e l’iniziativa
politica lungo un asse che la riconnette alla capacità di esprimere visioni
possibili, ad una critica radicale dell’esistente. Al di fuori della
persuasione, al di fuori di quel lavoro enorme non è possibile il cambiamento,
al di fuori di quella didattica in grado di promuovere la conoscenza e lo
sviluppo di nuova coscienza non c’è vittoria capace di resistere, di mutare e
spostare davvero le cose.
Senza il piacere e prima ancora senza il desiderio di
quel piacere, ogni cambiamento è impossibile. Langer, infine, lungo questa
strada sembra sganciare la politica dall’orbita della cultura industriale per
rimetterla alle cure di una cultura – forse contadina - che non ha mai smesso
di tutelare quelle tre chiavi: lentius, profundius, soavius. Non è una reazione
alla stringatezza e alla frequenza delle decisioni e delle azioni che sembrano
governare il mondo globalizzato: Langer anticipa, con il suo precetto,
l’orizzonte etico entro cui si giocano il presente e la sopravvivenza.
Rivoluziona il linguaggio della politica, la rimette in grado di pensare, di
pensare il futuro, di promuovere analisi e critica, di riacquistare forza,
prima che potere, e credibilità. La misura – non reattiva, non conservatrice -
che Langer applica alla sua rivoluzione intellettuale è ben descritta da queste
affermazioni:
Una politica ecologica punitiva che
presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella
competizione democratica; e ancora: ecco perché una politica ecologica potrà
aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili,
elaborate – come è ovvio – in larga misura al di fuori della politica, fondate
su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino
etniche (radicate, cioè, nella storia e nella identità dei popoli). Né singoli
provvedimenti, né un ’Ministero dell’Ambiente’, né una valutazione di impatto
ambientale più accurata, né norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di
velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare
la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di
ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.
La conversione
ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile
di Alexander Langer [1]
1. Abbiamo creato
falsa ricchezza per combattere false povertà – Re Mida patrono del nostro tempo
Da qualche secolo ed in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per
sfuggire a false povertà. Di tale falsa ricchezza si può anche perire, come di
sovrappeso, sovramedicazione, surriscaldamento ecc. Falso benessere come
liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte
industrializzata e "sviluppata" del pianeta. Ci si è liberati di
tanto lavoro manuale, avversità naturali, malattie, fatiche, debolezze – forse
tra poco anche della morte naturale – in cambio abbiamo radiazioni nucleari,
montagne di rifiuti, consunzione della fantasia e dei desideri. Tutto è
diventato fattibile ed acquistabile, ma è venuto a mancare ogni equilibrio. Non
solo l’apprendista stregone è il personaggio-simbolo del nostro tempo. L’antico
re Mida – che ottenne il compimento del suo desiderio che ogni cosa che toccava
si trasformasse in oro – ci appare come il vero patrono dei culti del progresso
e dello sviluppo, l’attualissimo predecessore dei benefici della nostra
civiltà.
2. Non si può più far finta si non
sapere, l’allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo ed ha generato
solo provvedimenti frammentari e settoriali Da qualche decennio e con sempre
maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo
impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si
recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali. Un quarto
di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e
prognosticare, a dare l’allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi
e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. La tutela tecnica
dell’ambiente è notevolmente migliorata nel mondo industrializzato, si sono
registrati singoli successi, alcune acque si stanno rivitalizzando, certe
specie in pericolo di estinzione si sono salvate, cominciano a circolare
detersivi, carburanti ed imballaggi "ecologici"...
3. Perchè l’allarme non ha prodotto la svolta? È già
finito l’intervallo di lucidità (Stoccolma 1972 - Rio 1992)?
Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni,
boicottaggi, raccolte di firme...: tutto ciò ha aiutato a riconoscere
l’emergenza: le malattie sono state diagnosticate, le possibilità di guarigione
studiate e discusse – terapie complessive non sono state ancora attuate. E
soprattutto: appare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione, se ci
fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinati. Visto però che le
cause dell’emergenza ecologica non risalgono ad una cricca dittatoriale di
congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono
quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la
svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga
misura. C’è da meravigliarsi se oggi persino la diagnosi risulta controversa?
Silvio Berlusconi, a capo del governo della cosiddetta Seconda Repubblica, sin
dal suo discorso inaugurale alla Camera ha ritenuto di dover ironizzare sull’allarme
per l’effetto-serra: "forse il nostro pianeta comincerà ad intiepidirsi in
un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio
Giulio Cesare". C’è da pensare che dunque ci resta ancora tanto tempo per
cementificare, dissipare, disboscare! Vuol dire che l’intervallo di lucidità
che si potrebbe situare tra le due conferenze mondiali sull’ambiente (Stoccolma
1972 - Rio de Janeiro 1992) è già terminato? Si è fatto il pieno di lamenti ed
allarmi e si pensa ora che la riunificazione del mondo tra Est e Ovest vada
celebrata con nuovi fasti di crescita?
4. "Sviluppo sostenibile" – pietra
filosofale o nuova formula mistificatrice?
Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula
magica dello "sviluppo sostenibile" sembra essere la quadratura del
cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa
consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche
autolimitazione della parte altamente industrializzata ed armata dell’umanità,
come pure l’idea che alla lunga sia meglio puntare sull’equilibrio piuttosto
che sulla competizione selvaggia; ma il termine "sviluppo" (o
crescita, come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto
parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati
della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una
reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la
propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato
ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di
supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per
suscitare l’impeto globalmente necessario per la conversione ecologica.
5. A mali estremi, estremi rimedi? ("Muoia
Sansone con tutti i filistei"? Eco-dittatura?)
Di fronte ai vicoli ciechi nei quali ci troviamo, può
succedere che qualcuno tenti estreme vie d’uscita. Anche tra ecologisti, pur
così propensi ad una cultura della moderazione e dell’equilibrio, ci può
esserci chi – seppure oggi in posizione isolata – chi pensa a rimedi estremi.
Scegliamone i due più rilevanti: la prima potrebbe essere caratterizzata con
"muoia Sansone e tutti i filistei": la convinzione che la catastrofe
ambientale sia inevitabile e non più rimediabile, e che pertanto tocchi mettere
in conto disastri epocali come ne sono avvenuti altri nel corso dell’evoluzione
del pianeta. In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta
ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali
disastri. L’altro "rimedio estremo" che si potrebbe agitare, sarebbe
lo "Stato etico ecologico", l’eco-dirigismo o eco-autoritarismo
possibilmente illuminato e possibilmente mondiale. Visto che l’umanità ha abusato
della sua libertà, mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza e quella
dell’ambiente, qualcuno potrebbe auspicare una sorta di tutela esperta ed
eticamente salda ed invocare la dittatura ecologica contro l’anarchia dei
comportamenti anti-ambientali. Si deve dire chiaramente che simili ipotetici
"estremi rimedi" si situano al di fuori della politica – almeno di
una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in
alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz’altro deplorevoli),
il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E
l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcuno sforzo di tipo
politico: per politica si intende l’esatto contrario della semplice
accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza. Quindi si
dovrà cercare altrove la chiave per una politica ecologica, ed inevitabilmente
ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti
e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi,
scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso, l’atto liberatorio tutto
d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica, i passi
dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente.
6. La domanda decisiva è: come può risultare
desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? "Lentius, profundius,
suavius", al posto di "citius, altius, fortius"
La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su
cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che
rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della
catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera
sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli; e la
stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A
quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale,
ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non
sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una
maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere
così sensibilmente diversa come sarebbe necessario. Nè singoli provvedimenti,
nè un migliore "ministero dell’ambiente" nè una valutazione di
impatto ambientale più accurata nè norme più severe sugli imballaggi o sui
limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno
davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione
culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri
desiderabile. Sinora si è agiti all’insegna del motto olimpico "citius,
altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni
altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà,
dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di
occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si
radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al
contrario, in "lentius, profundius, suavius" (più lento, più
profondo, più dolce"), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo
benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo
dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso. Ecco
perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse
antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate – come è ovvio – in larga
misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche,
sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella
storia e nell’identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che
attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e
forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che
presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella
competizione democratica.
7. Possibili priorità nella ricerca di un benessere
durevole I passi che qui si propongono – intrecciati ed interdipendenti tra
loro – fanno parte di una visione favorevole al cambiamento e potrebbero a loro
volta incoraggiare nuovi cambiamenti. Purchè ogni passo limitato e parziale si
muova in una direzione chiara e comprensibile, ed i vantaggi non siano tutti
rimandati ad un futuro impalpabile.
a) bilancio ecologico Gli attuali bilanci
pubblici e privati sono tutti basati su dati finanziari. Sintanto che non si
avranno in tutti gli ambiti (Comune, Provincia, Regione, Stato, CE, ...)
accurati bilanci della reale economia ambientale che facciano capire i reali
"profitti" e le reali perdite, non sarà possibile sostituire gli
attuali concetti di desiderabilità sociale, e tanto meno un cambiamento
dell’ordine economico.
b) ridurre invece che aumentare i bilanci Ogni
discorso sulla necessità della svolta resta assurdo sino a quando la crescita
economica resterà l’obiettivo economico di fondo e sino a quando i bilanci
pubblici e privati punteranno ad aumentare di anno in anno. La parte
industrializzata del pianeta dovrà finalmente decidersi alla crescita-zero e
poi a qualche riduzione – naturalmente con la necessaria cautela e moderazione
per non causare dei crolli sociali o economici.
c) favorire economie regionali invece che
l’integrazione nel mercato mondiale Sino a quando la concorrenza sul
mercato mondiale resterà il parametro dell’economia, nessuna correzione di
rotta in senso ecologico potrà attuarsi. La rigenerazione delle economie
locali, invece, renderà possibile – tra l’altro – una gestione più moderata e
controllabile dei bilanci, compreso quello ambientale.
d) sistemi tariffari e fiscali ecologici, verità
dei costi Di fronte ad un mercato che addirittura postula e premia
comportamenti anti-ecologici, visto che non ne fa pagare i costi, si rende
indispensabile un sistema fiscale e tariffario orientato in senso ambientale,
che imponga almeno in parte una maggiore trasparenza e verità dei costi:
imprenditori e consumatori devono accorgersi dei costi reali del massicio
trasporto merci, degli imballaggi, del dispendio energetico, dell’inquinamento,
del consumo di materie prime, ecc.
e) allargare e generalizzare la valutazione di
impatto ambientale Tutto quanto viene oggi costruito (opere, tecnologie,
ecc.), produce impatti e conseguenze di dimensioni sinora sconosciute. La
valutazione di impatto ambientale – nel senso più comprensivo di una reale
valutazione delle conseguenze ecologiche, ma anche sociali e culturali a breve
e lungo termine di ogni progetto – dovrà diventare il nocciolo di una nuova
sapienza sociale, e va quindi adeguatamente ancorata negli ordinamenti. Così
come altre società, passate o presenti, proteggevano con norme fondamentali e
tabú (sulla guerra, l’ospitalità, l’incesto...) le loro scelte di fondo, oggi
abbiamo bisogno di norme fondamentali a difesa della valutazione di impatto
ambientale – non importa se si tratti di autostrade, missili, biotecnologie,
forme di produzione di energia o introduzione di nuove sostanze chimiche di
sintesi. Tale valutazione non potrà avvenire senza l’intervento dei più diretti
interessati e postulerà una Corte ambientale a suo presidio.
f) redistribuzione del lavoro, garanzie sociali
Solo una vasta redistribuzione sociale del lavoro (e quindi dei "posti di
lavoro" socialmente riconosciuti) permetterà la necessaria correzione di
rotta. L’ammortamento sociale degli effetti prodotti da scelte di conversione
ecologica (che si chiuda una fabbrica d’armi o un impianto chimico..) è un
investimento importante ed utile quanto e più di tanti altri, e se si
indennizzano i proprietari di terreni che devono cedere ad un’autostrada, non
si vede perché altrettanto non debba avvenire nei confronti di operai o
impiegati che devono cedere alla ristrutturazione ecologica.
g) riduzione dell’economia finanziaria, sviluppo
della "fruizione in natura" Sino a quando ogni forma di economia
sarà canalizzata essenzialmente attraverso il denaro, sarà assai difficile far
valere dei criteri ecologici, e ci saranno pesanti ingiustizie
socio-ecologiche: chi può pagare, potrà anche inquinare. Un processo di
"rinaturalizzazione" – che allontani dalla mercificazione
generalizzata (dove tutto si può vendere e comperare) e valorizzi invece
l’apporto personale e non fungibile – potrebbe aiutare a scoprire un diverso e
maggior godimento della natura, del lavoro, dello scambio sociale. Le "res
communes omnium" (dalla fontana pubblica alla spiaggia, dalla montagna
alla città d’arte) non si difendono col ticket in denaro, bensì con l’esigere
una prestazione personale, con un legame col volontariato, ecc.
h) sviluppare una pratica di partnership La
necessaria autolimitazione ecologica riesce più convincente se si fa esperienza
diretta di interdipendenza e partnership: nella nostra attuale condizione,
forse potrebbero essere alleanze o patti "triangolari" (Nord/Sud/Est)
quelle che meglio riflettono il nesso tra i cambiamenti necessari in parti
diverse, ma interconnesse del mondo. L’"alleanza per il clima" ne può
fornire una interessante, per quanto ancora parzialissima, esemplificazione.
8. Una Costituente ecologica?
Società anteriori alla nostra avevano il loro modo di
sanzionare, solennizzare e tramandare le loro scelte ed i loro vincoli di
fondo: basti pensare alla "magna charta libertatum", al leggendario
giuramento dei confederati elvetici sul Rütli, alla dichiarazione francese sui
diritti dell’uomo, al patto di fondazione delle Nazioni unite... Oggi
difettiamo di una analoga norma fondamentale di vincolo ecologico che – viste
le caratteristiche del nostro tempo – avrebbe peso e valore solo se frutto di
un processo democratico. Certamente esiste in questa o quella carta
costituzionale un comma o articolo sull’ambiente, ma siamo ben lontani dal
concepire la difesa o il ripristino dell’equilibrio ecologico come una sorta di
valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società, e di trarne le
conseguenze. Se si vuole riconoscere ed ancorare davvero la desiderabilità
sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l’ambiente,
bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà
avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto
culturale e sociale, ma che dovrebbe sfociare in qualcosa come una
"Costituente ecologica". In fondo le Costituzioni moderne hanno il
significato di vincolare il singolo ed ogni soggetto pubblico o privato ad
alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior
ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un
solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun
singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all’apparente
convenienza che l’economia della crescita e dei consumi di massa sembra
offrire.
[1] Testo scritto il primo agosto 1994 Colloqui di Dobbiaco.
* da www.lavoroculturale.org
- 19 luglio 2012
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