di Alberto
Martinelli *
Secondo
il rapporto Istat «Noi
Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» nel 2011 una
famiglia italiana su quattro era in una situazione di «deprivazione»(ovvero
aveva almeno tre dei nove indici di disagio economico come, per esempio, non
poter sostenere spese impreviste, arretrati nei pagamenti o un pasto proteico
ogni due giorni). Si tratta di un’ulteriore conferma di un problema generale di
particolare gravità, quello della crescente disuguaglianza sia nelle diverse società
nazionali, sia a livello dell’intero mondo. Per quanto riguarda il nostro
Paese, anche l’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie nel 2012
mostra disuguaglianza in aumento: il 10% delle famiglie più ricche possiede il
46,6% della ricchezza netta (ovvero la somma delle attività reali, ossia
immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi,
titoli di Stato, azioni, eccetera), mentre l’indice Gini di concentrazione
della ricchezza ha raggiunto il 64%, in aumento rispetto al 60,7% del 2008.
Quanto alla situazione mondiale, basti citare il rapporto dell’Oxfam da poco
discusso al World Economic Forum di Davos: lo 0,7% della popolazione mondiale
(32 milioni di persone) possiede il 41% della ricchezza, il 7,7% una percentuale
di ricchezza più o meno equivalente a quella del primo gruppo (42,3%), al 22,9%
spetta il 13,7% della ricchezza, mentre alla grande maggioranza della
popolazione (il 68,7%) rimane solo il 3% residuo.
Il
processo di aumento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito è generale. Si verifica nei grandi Paesi emergenti, sia in società già
fortemente diseguali — come quella indiana, o brasiliana, o nigeriana — sia in
società un tempo più egualitarie, come la cinese o l’indonesiana.
Ciò non sorprende: diverse ricerche comparative sui processi di modernizzazione mostrano un incremento
delle disuguaglianze nelle prime fasi dello sviluppo economico e una successiva
diminuzione in virtù di condizioni favorevoli, come l’industrializzazione, la
crescita delle classi medie, lo sviluppo dell’istruzione, l’attuazione del
welfare state e di politiche ridistributive. Nel mondo contemporaneo in realtà
le diseguaglianze stanno aumentando sensibilmente anche nei Paesi sviluppati.
Dopo i «trent’anni gloriosi», dalla fine della Seconda guerra mondiale agli
anni Settanta, in cui una certa ridistribuzione dei redditi è stata favorita da
politiche socio-economiche riassumibili nella formula Keynes at home and Smith
abroad (Keynes a casa e Smith all’estero), ovvero politiche anticicliche e di
welfare in sede domestica e liberalizzazione degli scambi in ambito
internazionale, nei successivi tre-quattro decenni — quelli della
globalizzazione — si sono sì create le condizioni per l’emersione dalla povertà
di centinaia di milioni di cinesi e indiani ma, d’altro lato, sono fortemente
aumentate le disuguaglianze nella grande maggioranza sia dei Paesi sviluppati
sia di quelli in via di sviluppo.
Una
distribuzione fortemente disuguale del reddito e della ricchezza tra classi sociali, generi, generazioni, gruppi etnici minaccia la crescita
economica, la coesione sociale e la stabilità politica dei Paesi in cui si
verifica. In primo luogo, un aumento dei consumi da parte di una ristretta
minoranza di super-ricchi, per quanto possano accrescere la loro propensione
all’acquisto di beni e servizi, non riuscirà mai a compensare la contrazione
della domanda determinata da un impoverimento relativo di una assai più ampia
classe media, e impedirà il ciclo virtuoso rappresentato dall’aumento dei
salari e della produttività con conseguente crescita della domanda di beni e
servizi e ulteriore sviluppo della produzione. Inoltre, la percezione di
disuguaglianze eccessive — sia all’interno di una stessa organizzazione ( in
cui il reddito di alti dirigenti è centinaia di volte il salario medio dei
dipendenti), sia tra tipi di lavoro (come nel caso della retribuzione di un
medico ospedaliero, pari a una frazione di quella di un consulente finanziario
o un consigliere regionale), sia tra gruppi che ricevono remunerazioni diverse
per lo stesso tipo di lavoro (donne rispetto a uomini) — viola il fondamentale
principio di equità nei rapporti sociali, incrina il patto di cittadinanza,
ovvero la solidarietà e la collaborazione che rendono possibile la società, e
mette a rischio la stessa tenuta democratica perché favorisce le oligarchie del
denaro e del potere, il clientelismo e la corruzione. Come
scrive Rousseau, infatti, in una società democratica «nessun cittadino deve
essere tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da
essere costretto a vendersi ».
* www.corriere.it/opinioni 14 febbraio 2014
Alberto Martinelli (1940) dal 1987 al 1999 è
stato Preside della Facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di
Milano. E' tra i fondatori della rivista Reset. E' presidente dell'International Sociological Association. E’ stato
consigliere del Presidente del Consiglio dei ministri per le politiche sociali,
Presidente del Comitato nazionale per l'integrazione degli immigrati., Presidente
del Comitato per la prevenzione delle attività criminali di stampo mafioso del Consiglio
comunale di Milano e rappresentante ufficiale del Comune di Milano nel Comitato
esecutivo Eurocities.
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