di Alessio Pisanò *
Facciamo un po’ un’analisi dei sette punti programmatici del M5S per
cambiare l’Europa.
Ognuno di questi punti meriterebbe un lungo discorso, ma un post su Internet
implica concisione.
Dedicherò volutamente poco spazio al primo
punto – quello forte, il referendum sull’euro – perché considero
controproducente per gli italiani appiattire l’intero discorso europeo al tormentone
sull’euro. Il programma del M5S offre punti interessanti, ecco perché vale
la pena smetterla di parlare solo della moneta unica.
Referendum per la permanenza nell’euro. Per dovere di cronaca va detto che ad oggi
i trattati Ue non prevedono la possibilità di uscita dalla moneta unica ma solo
dall’Unione europea. Questo perché l’adozione di una moneta unica era stata
concepita all’inizio come un processo irreversibile volto a rafforzare
l’integrazione economica e politica dei Paesi Ue. Recentemente alcuni giuristi
stanno mettendo in dubbio questo assunto mentre gli economisti si
sbizzarriscono a immaginare i vari scenari di un’eventuale uscita di un Paese
dall’euro. A Bruxelles ci sono tutta una serie di misure in progress per
stabilizzare l’unione economica e monetaria sulle quali varrebbe la pena
soffermarsi ben più che su un’ipotetica uscita dall’euro (immagino il coro di
obiezioni ma, come ho già detto, il programma M5S contiene altri punti che
meritano di essere trattati).
Abolizione del fiscal compact. Il problema contenutistico del fiscal
compact riflette il “come” ci si è arrivati. Capire questo aiuta a individuare
la soluzione. Il fiscal compact è un accordo preso tra i capi di Stato e di
Governo in sede di Consiglio europeo e successivamente ingoiato dalle altre
istituzioni. Visto che si è trattato di un processo intergovernativo (tra
governi) e non comunitario (non europeo nel suo insieme), hanno prevalso le
istanze dei governi più forti, i cosiddetti “falchi d’Europa”, in primis
la Germania. Ecco che eliminare il fiscal compact non basta, bisogna evitare
che si arrivi di nuovo a simili soluzioni ovvero che alcuni Paesi abbiano più
voce in capitolo di altri. Non ci saranno altri fiscal compact se le decisioni
Ue, anche di gestione di eventuali crisi, saranno prese considerando
l’interesse comune, quindi con un metodo “comunitario”.
Adozione degli Eurobond. Benissimo. Gli eurobond sono sul tavolo di Bruxelles da mesi. Il
problema è che i paesi economicamente più forti – come Germania, Finlandia e
Paesi bassi – sono fortemente contrari a condividere il loro debito con quelli
più deboli. Gli eurobond, in presenza di una moneta unica e di un’integrazione
politica, sono sacrosanti, ma affinché vengano accettati da tutti, l’Unione
europea deve evolvere in senso politico (vedi punto precedente).
Alleanza tra i Paesi mediterranei per una
politica comune. Punto un po’ vago ma in linea di massima
condivisibile. Meglio partire da quello che c’è già e che trascende la stessa
Ue iscrivendosi nel Processo di Barcellona e percorrendo il lavoro fatto in
questi anni dall’Unione per il Mediterraneo. Una simile prospettiva non può
infatti ignorare i Paesi non europei che si affacciano sul Mediterraneo, sia a
scopi commerciali, di aiuti allo sviluppo che di gestione dell’immigrazione la
quale non può restare responsabilità unica dei Paesi di arrivo come l’Italia.
Attenzione però a non trasformare questa alleanza in una frattura tra il
Nord e il Sud d’Europa – anche perché gli eurobond (punto precedente) solo
tra Italia, Spagna e Grecia non sarebbero un buon affare.
Investimenti in innovazione e nuove
attività produttive esclusi dal limite del 3% annuo di deficit di bilancio. Un punto su cui in molti sono d’accordo e
sul quale a Bruxelles anche l’Italia sta insistendo particolarmente. Per questo
bisogna rimettere mano ai Trattato di Maastricht e, ancora una volta, convincere
i Paesi del Nord.
Finanziamenti per attività agricole e di
allevamento finalizzate ai consumi nazionali interni. All’interno del bilancio pluriennale Ue
2014-2020 la politica agricola comune riceve già ingenti finanziamenti. Nel
dettaglio su 960 miliardi di euro in stanziamenti d’impegno (e 908,4 miliardi
di euro in pagamenti), ben 312,7 miliardi di euro (29%) andranno
per le spese connesse al mercato e i pagamenti diretti e 95,6 miliardi di euro
(9%) per lo sviluppo rurale. I fondi all’agricoltura sono diminuiti negli anni a vantaggio di quelli
destinati ad altri settori come infrastrutture, ricerca, innovazione, cultura e
tanto altro (diminuzione che rispecchia la minor vocazione agricola dell’Europa
rispetto a 40 anni fa). Non è chiaro perché il punto del programma sottolinea i
“consumi nazionali interni”: niente sussidi alle migliaia di aziende che
esportano con successo i prodotti alimentari italiani all’estero e fanno del
Made In Italy un vanto nazionale?
Abolizione del pareggio di bilancio. Qui a parlare dovrebbero essere gli
economisti. Una cosa è certa, il discorso va affrontato con la massima serietà:
se è controproducente obbligare un Paese al pareggio a prescindere dalle
proprie esigenze economiche congiunturali, è altrettanto irresponsabile che la
spesa pubblica lieviti fuori da ogni controllo come è successo in Italia per
tanti anni. Ancora una volta, le regole devono essere europee, condivise e non
imposte.
* da
ilfattoquotidiano.it , 6 gennaio 2014
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