E al momento non sembrano raggiunti i livelli minimi di riduzione che la “scienza” ci impone per scongiurare gli effetti insostenibili del Cambiamento Climatico. In questi giorni le proposte avanzate giungono complessivamente a garantire una riduzione, per il 2020, del 25% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990: ben al di sotto dunque del 40% necessario.
I Governi hanno messo una posizione in chiaro: alla Conferenza di Copenhagen un Accordo di (comune?) impegno dovrà essere firmato. Il senso che qualcosa debba essere fatto, e rapidamente, ha dominato a Bonn e questo sembra il maggior risultato dei negoziati di questi giorni. Un risultato striminzito? Yvo de Boer, Segretario Esecutivo della UNFCCC, stima si tratti piuttosto di
La proliferazione delle proposte avanzate dai diversi Stati, che in più punti si sovrappongono e in altri si contendono, appare invece
Quali dunque
l’Unione Europea presenta le posizioni più avanzate, promettendo riduzioni del 20% per il 2020 rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia non mancano attivisti come Greenpeace che denunciano l’indebolimento della sua capacità di leadership all’interno dei negoziati [consultate a questo proposito il dibattito sulla leadership europea in materia];
gli Stati Uniti e il Giappone minimizzano i tetti alle emissioni che si dicono capaci di rispettare: al 2020, rispettivamente il 4 e l’8% rispetto ai livelli del 1990. Inoltre, il Giappone ha proposto l’inclusione di Cina, India e Brasile nella “parte attiva della Comunità Internazionale” (ovverosia l’insieme degli Stati tenuti a ridurre da subito le proprie emissioni), in quanto “major emitters economies” e “major contributors” alle emissioni ad effetto serra. Da parte loro, i delegati USA, che devono tener conto della “digeribilità” per il Congresso del futuro accordo sul clima, hanno proposto ai Paesi emergenti e in via di sviluppo di impegnarsi sulle azioni da condurre ma non sul risultato; i grandi Paesi emergenti come Cina, India e Brasile a tale inclusione si oppongono e si sentono pressati ad assumere formalmente tetti alle loro emissioni, pur non essendo inclusi nell’Annesso I alla UNFCCC che comprende i soli Stati (industrializzati) che, per ora, hanno la responsabilità storica (e legale) di ridurre le emissioni. In particolare questi Paesi temono il principio su cui queste richieste vengono avanzate: il criterio della grandezza nell’individuazione delle categorie di Stati. Rischierebbe di trattarsi di un precedente, con tutte le conseguenze di diritto internazionale che ciò implicherebbe;
infine, i Paesi in via di sviluppo, che prima di tutti soffrono le conseguenze del Cambiamento Climatico, chiedono a gran voce ai Paesi sviluppati di essere ben più ambiziosi e incisivi nei loro obiettivi di riduzione delle emissioni.
Quale il principale limite di questi Negoziati? La compresenza di due tavoli negoziali distinti con diverso mandato giuridico che si occupano però di tematiche profondamente interrelate. Si tratta dell’
l’Ad Hoc Working Group on Further Commitments for Annex I Parties under the Kyoto Protocol (AWG-KP), creato nel 2005, il cui compito è quello di valutare ulteriori impegni per i 37 Paesi industrializzati dell’Annesso I, tra cui i nuovi tetti alle emissioni da rispettare nel Regime post-Kyoto; a Bonn, in questi giorni, se n’è svolta l’8a sessione;
l’Ad Hoc Working Group on Long-term Cooperative Action under the Convention (AWG-LCA), creato nel 2007, il cui scopo è quello di condurre una riflessione condivisa e delle azioni concrete di cooperazione a lungo termine per permettere il pieno raggiungimento degli obiettivi della Convenzione per la Lotta al Cambiamento Climatico, attraverso specificatamente, il disegno del Regime Post-Kyoto; vi sono coinvolti tutti i 192 firmatari della Convenzione e a Bonn vi si è svolta la 6a sessione.
da:Sostenibilità energetica di Giulia Malandrini * Bordeaux (Fr.) http://sostenibilitaenergetica.wordpress.com/
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