28 ottobre 2025

I curdi tendono ancora la mano: la guerriglia lascia la Turchia

 di Tiziano Saccucci *

Kurdistan Dopo lo scioglimento del Pkk e la distruzione simbolica delle armi nuovo passo per la pace. Ma c'è una condizione: la liberazione di Abdullah Ocalan

Le montagne del Kurdistan hanno vissuto domenica una giornata che resterà negli annali di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi del Medio Oriente contemporaneo. La leadership del Movimento per la Libertà del Kurdistan ha annunciato l’avvio del ritiro di tutte le forze di guerriglia dalla Turchia verso le Zone di Difesa di Medya, nella Regione del Kurdistan in Iraq, in quello che viene definito un passo decisivo per l’apertura della seconda fase del processo di «Pace e Società Democratica».

NON SI TRATTA della prima iniziativa di questo genere, già nel 2013 la guerriglia del Pkk aveva lasciato la Turchia in risposta ad una appello del suo fondatore, Abdullah Öcalan, salvo poi tornarvi a seguito del collasso del processo di pace che innescò un’escalation culminata con l’assedio e la distruzione di intere città da parte dell’esercito turco. L’annuncio è stato dato nel cuore di Qandil, in una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di giornalisti internazionali, tra cui inviati di Bbc, Reuters, Afp e Al Arabiya. Alla guida dei guerriglieri comparsi davanti alle telecamere, si sono presentati Sabri Ok, membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (Kck) insieme a Vejîn Dersîm, comandante provinciale delle Yja Star, struttura autonoma delle donne nella guerriglia, e a Devrîm Palu del Consiglio di comando delle Forze di Protezione del Popolo (Hpg).

Nella dichiarazione letta in turco e curdo, Sabri Ok ha affermato che il Movimento ha deciso di attuare le risoluzioni del XII congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, svoltosi lo scorso maggio, «ponendo fine alla struttura organizzativa del partito e alla strategia di lotta armata». Il documento sottolinea come le decisioni siano state prese «sulla base delle direttive del leader Abdullah Öcalan», che il 27 febbraio aveva lanciato l’«Appello per la Pace e una Società Democratica». «Abbiamo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale il primo marzo – si legge nel testo – Successivamente, trenta combattenti per la libertà, guidati dalla co-presidente del Kck Besê Hozat, hanno bruciato le proprie armi in una cerimonia pubblica, manifestando così la nostra volontà di porre fine alla lotta armata». Secondo la leadership curda, il ritiro delle unità dalla Turchia è volto a «prevenire scontri e provocazioni» e a consolidare un contesto politico utile alla prosecuzione del processo. «La pratica dimostrerà l’efficacia di questi passi unilaterali», ha dichiarato Sabri Ok, sottolineando che «è ora necessario adottare determinati approcci giuridici e politici, in linea con le risoluzioni del congresso».

NEL SUO INTERVENTO, il dirigente del Kck ha precisato che il Movimento chiede «una legge transitoria specifica per il Pkk» e la promulgazione di «leggi per l’integrazione» che permettano ai militanti di partecipare alla politica legale. La conferenza stampa è stata accompagnata da misure di sicurezza eccezionali: telefoni sequestrati, disturbatori di segnale, accesso controllato. Alla fine della dichiarazione, i guerriglieri hanno salutato militarmente Sabri Ok prima di rientrare nelle loro aree operative. Poche ore dopo, è arrivato il sostegno del Congresso Nazionale del Kurdistan (Knk), che ha definito il passo del Movimento «un atto di coraggio e determinazione per una pace giusta». Il Consiglio esecutivo del Knk ha infine invitato l’Unione europea, il Consiglio d’Europa e gli Stati uniti a «sostenere il processo e a rimuovere immediatamente il Pkk dalle liste delle organizzazioni terroristiche». Anche Ankara ha reagito, ma in tutt’altra chiave. Il portavoce del partito di governo Akp, Ömer Çelik, ha rivendicato la decisione del Pkk come «un risultato concreto della tabella di marcia per una Turchia libera dal terrorismo». Secondo Çelik, il ritiro e l’annuncio di nuovi passi verso il disarmo rappresentano «progressi in linea con l’obiettivo strategico di liberare la nostra democrazia da ogni minaccia». Il vicepresidente dell’Akp, Efkan Ala, ha aggiunto che «con il sostegno della nostra amata nazione, stiamo marciando con determinazione verso l’obiettivo di una Turchia libera dal terrorismo», definendo le ultime dichiarazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan «il completamento di un’altra importante tappa».

DUE NARRAZIONI, dunque, che scorrono parallele. Da un lato quella curda, che parla di pace, democrazia e libertà di Abdullah Öcalan, «che deve ottenere la sua libertà fisica il prima possibile»; dall’altro quella del governo turco, che legge la mossa come un passo nella propria agenda di sicurezza e sovranità. I monti che per decenni sono stati fronte di una guerra senza tregua tornano a essere teatro di speranze. «Non vogliamo immaginare una mancata risposta – ha detto Sabri Ok – Risolvere la questione curda è impossibile nelle attuali condizioni di detenzione del leader Apo. Deve vivere e lavorare liberamente».

nella foto: combattenti curde tra le montagne di Qandil

* da il manifesto 27/10/2025  

La società curda tra prudenza e speranza

 

di Maysoon Majidi *

Pace o miraggio? Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di «fine definitiva della strategia militare» e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri

Pace o miraggio? È la domanda di fronte al ritiro totale della guerriglia curda dalla Turchia e la ridefinizione della politica curda. Con l’annuncio ufficiale del ritiro completo delle forze del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) dal territorio turco verso il nord dell’Iraq, si chiude uno dei conflitti più lunghi e complessi del Medio Oriente. La decisione, resa pubblica il 26 ottobre 2025 dalle montagne di Qandil, segna non solo la fine di oltre quarant’anni di guerra, ma anche l’inizio di una nuova fase nella ridefinizione della politica curda in Turchia e nella regione.

NATO NEL 1978 come movimento di liberazione d’ispirazione marxista-leninista, il Pkk ha progressivamente trasformato la propria strategia, passando dalla lotta armata alla via politica e democratica. Nel comunicato letto a Qandil, il gruppo ha spiegato che il ritiro risponde alle decisioni del dodicesimo congresso e all’appello del suo leader incarcerato Abdullah Öcalan per «una società pacifica e democratica». Nelle immagini diffuse, venticinque combattenti – otto donne tra loro – attraversano il confine turco verso le aree difensive nel nord dell’Iraq.

I passaggi precedenti di questo processo sono noti: il cessate il fuoco del primo marzo, la decisione di sciogliere le strutture militari a maggio e la cerimonia simbolica di disarmo svoltasi a Suleymaniya a luglio. Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di «fine definitiva della strategia militare» e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri. «Non vogliamo solo un’amnistia generale – ha dichiarato il dirigente Sabri Ok – ma norme che garantiscano una reale partecipazione politica». Sull’intero processo pesa però una lunga storia di sfiducia. Il precedente tentativo di pace del 2015 fallì nel sangue, con l’arresto di migliaia di attivisti, giornalisti e deputati del Partito democratico dei popoli (Hdp, poi costretto a sciogliersi). Molti temono che il governo di Recep Tayyip Erdogan possa utilizzare questo nuovo percorso per ottenere legittimità internazionale senza attuare vere riforme.

ANKARA, dal canto suo, definisce il ritiro «un passo concreto verso una Turchia senza terrorismo» e ha istituito una commissione parlamentare di 51 membri per elaborare un quadro legale al processo di pace. I media turchi parlano di un imminente incontro tra Erdogan e una delegazione del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem, successore dell’Hdp), che in seguito si recherà sull’isola di Imrali per consultare Öcalan.

Gli attivisti curdi accolgono il processo con cautela. Finché non saranno garantite le libertà politiche e rimossi i vincoli imposti ai partiti curdi, dicono, «questa sarà una pace dall’alto, non una pace dal basso». Intanto, la società curda, stremata da decenni di conflitti, guarda con speranza alla possibilità di una nuova stagione politica. Per molte donne curde, la transizione ha un doppio significato: la fine della guerra e l’inizio di una nuova battaglia per la parità nel campo politico. Le conseguenze del ritiro superano i confini turchi. Baghdad teme un aumento della presenza del Pkk nel nord dell’Iraq, Teheran guarda con sospetto alla crescente influenza dei curdi vicini a Öcalan in Iran occidentale, mentre in Siria le forze curde alleate del Pkk tentano di consolidare la propria posizione di fronte ad Ankara.

SECONDO DIVERSI analisti occidentali, se il processo di transizione verrà consolidato, potrebbe alterare gli equilibri di sicurezza lungo le frontiere siriane e irachene. Sul piano giuridico, il futuro di Abdullah Öcalan e la sorte dei combattenti disarmati rappresentano la prova più delicata. L’esperienza internazionale mostra che ogni transizione priva di leggi chiare e di un monitoraggio indipendente rischia di fallire. Se Ankara approverà in tempi rapidi le norme su amnistia e integrazione e renderà la liberazione di Öcalan parte del processo di legittimazione politica, Qandil potrà trasformarsi da simbolo di guerra a simbolo di pace. In caso contrario, il rischio di un ritorno alla violenza rimane reale. In un Medio Oriente ancora prigioniero di guerre infinite, la scelta del Pkk di deporre le armi ricorda una verità semplice ma radicale: nessuno Stato può costruire la propria stabilità eliminando l’altro. La pace – come gridano le donne curde a Qandil – non nasce dalle armi, ma dall’uguaglianza e dalla giustizia.

nella foto: componenti del Pkk depongono e distruggono le proprie armi a Suleimaniya

* Maysoon Majidi è scrittrice, regista, giornalista e attivista per i diritti umani - Il manifesto 28/10/2025

 

Perché la violenza politica sta crescendo negli Stati Uniti?

di Ursula Daxecker, Neeraj Prasad e Andrea Ruggeri *

 L’uccisione dell’influencer di destra Charlie Kirk è solo l’ultimo episodio in una serie di attacchi contro politici e i loro stretti collaboratori negli Stati Uniti. Ma gli USA non sono l’unica democrazia ricca ad aver vissuto questa esperienza: ad esempio, anche in Germania la violenza contro i politici è in aumento. Questo ritorno della violenza politica non è solo dannoso per la democrazia, ma anche sorprendente. La democrazia non dovrebbe essere un modo pacifico di risolvere i conflitti? Perché allora questa violenza si verifica? E come si confronta con la violenza del passato? In una nuova ricerca su questo tema – appena pubblicata in un numero speciale di una rivista – cerchiamo di dare un senso a questi eventi.

Retorica delle élite e narrazioni di minaccia e ingiustizia. Perché la violenza politica è in aumento? Anzitutto, la retorica delle élite conta, soprattutto per i politici in carica. Negli Stati Uniti – soprattutto a destra – politici e influencer politici hanno intensificato l’uso di una retorica estrema, a volte addirittura violenta. Questa retorica minaccia e demonizza avversari politici, minoranze, immigrati o le istituzioni democratiche. Un linguaggio ostile ha conseguenze reali, che vanno ben oltre gli esempi più eclatanti, come l’incitamento di Trump alla folla che assaltò il Campidoglio il 6 gennaio 2021. Ad esempio, un articolo del nostro numero mostra che le contestazioni delle elezioni da parte di Repubblicani locali hanno alimentato un aumento delle proteste negli USA. Lungi dall’essere un segno di sano impegno civico, questi cittadini si sono mobilitati contro le istituzioni democratiche. Inoltre, come dimostra un altro contributo, i politici negli Stati Uniti e altrove inseriscono la retorica ostile – a prescindere dalla sua veridicità – all’interno di più ampie narrazioni di minaccia o ingiustizia provenienti da presunti nemici, che si tratti di gruppi percepiti come “altri” o del cosiddetto deep state.

Queste narrazioni aiutano i seguaci a dare un senso a ciò che accade, indipendentemente dal fatto che le affermazioni delle élite abbiano o meno un fondamento reale. La retorica ha conseguenze politiche: gli atteggiamenti degli elettori verso i nemici dichiarati – ad esempio gli immigrati – diventano più polarizzati. La dinamica diventa ancora più pericolosa quando politici che usano retorica violenta entrano nelle istituzioni, perché possono sfruttare l’intero potere dello Stato contro presunti avversari, come Donald Trump minaccia oggi di fare contro i gruppi di sinistra.

 Il declino delle organizzazioni di partito e l’ascesa degli influencer e dei collaboratori

In secondo luogo, il modo in cui i partiti interagiscono con gli elettori è cambiato radicalmente negli Stati Uniti e in altre democrazie, aprendo spazi all’estremismo. I partiti, soprattutto quelli di estrema destra, si affidano sempre più a influencer e movimenti sociali piuttosto che a strutture organizzative per mobilitare gli elettori. Il declino delle organizzazioni partitiche ha indebolito i meccanismi di selezione e formazione della classe dirigente. In assenza di tali strutture, si favoriscono candidati concentrati in uno stato permanente di campagna elettorale. Questa dinamica alimenta una logica costante di rilancio al rialzo, radicalizzando posizioni, identità e retorica. Tale dipendenza crea spazi per strategie estreme, compreso il ricorso alla violenza.

Come mostrano articoli dedicati a Colombia e Nigeria, delegare la violenza ai collaboratori permette ai politici di negare responsabilità. La delega è in parte una risposta ai vincoli democratici, ma può anche rendere la politica più estrema, con politici incapaci o non disposti a controllare attori radicali a loro collegati. La violenza ispirata da partiti radicali comprende non solo attacchi eclatanti, ma anche aggressioni contro funzionari elettorali e politici locali. Le conseguenze per la democrazia sono gravi: scoraggiamento del reclutamento, soprattutto delle donne, e riduzione della partecipazione della società civile. Le connessioni tra partiti politici e attori estremisti non sono ben comprese e richiedono urgentemente ulteriori studi.

Il ciclo di polarizzazione politica e violenza

In terzo luogo, la polarizzazione non è solo una causa, ma anche una conseguenza della violenza politica. La violenza e le narrazioni che la accompagnano radicalizzano e irrigidiscono le identità sia delle vittime che degli aggressori. Queste dinamiche sono ben documentate in altri contesti, come l’India o l’Italia del periodo tra le due guerre. Negli Stati Uniti la polarizzazione è nata a destra e resta asimmetrica, ma una contro-polarizzazione su tutto lo spettro politico è una conseguenza logica. In un paese dove i cittadini sono fortemente armati, queste dinamiche possono avere conseguenze letali. Alcuni hanno ipotizzato la possibilità di una guerra civile negli USA. Dato il potere dell’apparato statale, ciò appare improbabile. Un parallelo storico più calzante potrebbe essere la violenza politica vissuta in Italia tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, i cosiddetti Anni di Piombo, come discusso in un contributo al nostro numero speciale. Movimenti clandestini, assassinii da parte di singoli e attentati contro civili per diffondere paura possono diventare routine in una società polarizzata in cui la politica violenta viene sostituita e rafforzata dalla retorica violenta.

Gli effetti polarizzanti della violenza aiutano a capire perché gli elettori di sinistra e di destra attribuiscano la responsabilità della violenza agli avversari, ma non alla propria ideologia (come mostra la Figura 1). Considerando i danni prodotti da violenza politica e polarizzazione, sarebbe ancora più importante che i politici di tutti i partiti condannassero senza eccezioni tutte le forme di violenza politica. I Repubblicani spesso non lo fanno, accusando solo la sinistra. Finora i Democratici hanno continuato a condannare la violenza sia da sinistra sia da destra, ma questo potrebbe cambiare se la violenza dovesse ulteriormente intensificarsi.

Immagine che contiene testo, schermata, Carattere, numero

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

La democrazia si erode e la violenza diventa parte della politica

La violenza politica non è un malfunzionamento della democrazia: è la spia rossa sul cruscotto, che segnala il surriscaldamento del motore di gestione dei conflitti. Gli Stati Uniti non stanno scivolando nel caos per caso: ci vengono spinti da un mix tossico di retorica delle élite, strutture partitiche indebolite e polarizzazione crescente. Quando i leader normalizzano l’ostilità, quando gli influencer amplificano la paura e quando i partiti delegano la mobilitazione agli estremisti, la violenza politica smette di essere impensabile e diventa inevitabile.

La ricerca è chiara: la retorica radicalizza, le istituzioni deboli aprono la strada e la polarizzazione si nutre della violenza. Non si tratta solo di aggressori isolati o di gruppi oscuri; si tratta della corrosione della fiducia democratica a ogni livello – dai cittadini riluttanti a candidarsi, agli elettori che non vedono più gli avversari come legittimi. Il pericolo non è una guerra civile nel senso tradizionale, ma un’erosione lenta della democrazia in un sistema in cui minacce e aggressioni diventano parte stessa del processo politico. Gli Anni di Piombo italiani ci mostrano dove porta questa strada: paura, paralisi e normalizzazione della brutalità. Se la democrazia vuole sopravvivere, richiede un atto non negoziabile: che i leader di ogni orientamento traccino una linea netta e condannino la violenza politica senza eccezioni, esitazioni o scuse.

 Ursula Daxecker è professoressa di Scienza politica all’Università di Amterdam.

Neeraj Prasad è assistant Professor di Scienza politica all’Università di Amsterdam.

Andrea Ruggeri è professore di Scienza politica all’Università di Milano.

Questo testo, che presenta un numero monografico della rivista «Journal of Peace Research», è apparso originariamente sul blog della London School of Economics and Political Science.

* da Polidemos ( https://centridiricerca.unicatt.it ) ottobre 2025

 

27 ottobre 2025

Connolly, in Irlanda c’è una presidente rivoluzionaria

 Irlanda: Presidenziali-  Contro il genocidio di Israele, per la riunificazione dell’isola. Sostenuta da tutta la sinistra, vince con uno schiacciante 63%

di Enrico Terrinoni *

«Vogliamo una repubblica di cui essere orgogliosi, una repubblica che non chiuderà mai un occhio di fronte alla normalizzazione del genocidio, alla normalizzazione della questione dei senzatetto o delle oscene liste d’attesa». Sono parole di Catherine Connolly, la neoeletta Presidente d’Irlanda (questo il titolo costituzionale di chi vince le presidenziali indette nella Repubblica). Connolly succede a Michael D. Higgins, il poeta presidente che conclude in questi giorni il suo secondo mandato, e indubbiamente il più amato e rispettato capo di stato irlandese degli ultimi decenni.

L’elezione è avvenuta con una percentuale schiacciante del 63% contro il circa 30% della sua competitor. Si registra però un astensionismo record. L’affluenza al voto è sotto il 46% e la percentuale dei voti nulli è altissima, quasi l’8%.

CONNOLLY, COME HIGGINS, è stata iscritta al Labour Party. Ne è poi uscita per concorrere da candidata indipendente in parlamento, dove si è sempre distinta per le sue battaglie per la giustizia sociale, contro le diseguaglianze e contro l’interventismo occidentale nei conflitti in corso.

Inizialmente, quando ha annunciato la sua candidatura, è stata sostenuta soltanto dai partiti a sinistra del Labour, i Social Democrats e People Before Profit. Solo in un secondo momento si è unito anche il suo vecchio partito. Così ha fatto anche Sinn Féin, cambiando decisamente le sorti della sua candidatura.

Alcune dichiarazioni di Connolly nelle settimane precedenti il voto non lasciano adito a fraintendimenti circa la sua collocazione a livello internazionale. Su Israele, protettorato e avamposto del potere statunitense, ha affermato che «il genocidio è stato consentito e finanziato dal denaro americano», e ha espresso tutta la sua preoccupazione per l’industria militare e i suoi enormi profitti. Ha criticato, ad esempio, la Germania, che «sta ridando vita alla sua economia attraverso l’industria militare», e spiegato che la plurisecolare storia di colonizzazione subita dall’Irlanda «ci consente di avere una prospettiva unica sul mondo, e dobbiamo usare la nostra voce per la pace». Sulla Nato ha dichiarato, «non abbiamo niente da guadagnare e tutto da perdere nell’unirci ai poteri forti. Possiamo parlare di pace solo se manteniamo la nostra credibilità di stato neutrale».

I CRITICI L’HANNO SPESSO sollecitata sul suo presunto antiamericanismo, e negli ultimi giorni di campagna elettorale le è stato chiesto come si sarebbe comportata se avesse dovuto accogliere Trump in visita in Irlanda, dove possiede un golf resort. Connolly, impassibile, ha spiegato che l’avrebbe accolto cordialmente, salvo poi aggiungere che, se l’eventuale discussione verterà sul genocidio, «allora sarà tutta un’altra storia».

Questa e altre dichiarazioni hanno irritato non pochi in Irlanda, in primis tra i banchi del governo di centrodestra, che subisce una chiara lezione da queste presidenziali. I due partiti di cui si compone non hanno saputo esprimere un candidato unico. All’inizio i concorrenti erano due, Jim Gavin di Fianna Fail, costretto a ritirarsi per uno scandalo riguardante una proprietà in affitto (sebbene il suo nome sia rimasto sulla scheda e abbia ottenuto il 7% delle preferenze), e Heather Humphreys di Fine Gail, protestante originaria di una zona al confine tra Sud e Nord, rimasta in corsa fino alla fine ma senza mai suscitare davvero empatia con gli elettori.

La vittoria di Connolly, oltre alla inedita “riunificazione” delle sinistre, si deve senza dubbio al sostegno di Sinn Féin. Non a caso la presidente, nelle settimane passate, ha fatto spesso riferimento alla questione nazionale, e in termini inequivocabili. Ha detto di considerare la riunificazione irlandese una «conclusione scontata», anche perché «l’articolo 3 della costituzione dà voce alla ferma volontà del popolo irlandese di avere un’Irlanda unita». Non ha mancato, poi, di augurarsi di vedere questo scenario, già durante il suo settennato.

Connolly è una figlia del popolo cresciuta in una famiglia proletaria nel sobborgo di Galway. Il padre, carpentiere e impiegato nelle costruzioni navali, ha dovuto crescere una famiglia di 14 figli, dopo la scomparsa della moglie. Trasferitasi in Inghilterra, Connolly ha ottenuto un master in psicologia e una laurea in legge. E prima di dedicarsi interamente alla politica è stata avvocata e psicologa clinica.

SEBBENE DAL PUNTO di vista istituzionale sembrerebbe non esserci stato alcuno scossone, una delle partite più difficili, per Connolly, sarà proprio quella di confrontarsi con l’eredità immensa di Higgins, un presidente artista che, come e più di lei, negli ultimi quattordici anni non ha mai lesinato feroci critiche all’ordine mondiale, scagliandosi, ad esempio, sin dall’inizio contro le politiche genocidarie di Israele, di cui ha ricevuto gli strali.

Altra incognita per lei sarà il momento di grande complessità sociale in cui avviene il passaggio di consegne. Ad esempio, nei giorni passati a Dublino si sono viste proteste violente nei pressi di un albergo che ospita immigrati e richiedenti asilo. I tumulti, scatenati dalla presunta notizia di una violenza sessuale subita da una giovane nelle vicinanze dell’hotel, sono stati sedati con fermezza dalla polizia, bersagliata però da sassaiole e lanci di petardi. Le forze dell’ordine sono state costrette a presidiare per giorni il sito.

SI TRATTA DI EVENTI non più così rari in Irlanda, alimentati dalla destra pro Brexit alleata delle frange oltranziste del Nord. Nulla sembra suggerire che l’atmosfera si alleggerirà a breve. Soprattutto dopo che Sinn Féin in settimana ha proposto a governo e parlamento una mozione per iniziare a pianificare formalmente un processo che, nei loro auspici, dovrebbe portare alla riunificazione.

nella foto: Catherine Connolly lascia la Claddagh National School nella città di Galway dopo aver votato

 * da il manifesto  26 ottobre 2025

25 ottobre 2025

Elezioni e astensioni: chi si contenta gode

 di Massimo Marino

La quarta  puntata di sette della telenovelas dal titolo “Restare a casa è meglio ( per loro ) “ è stato il voto per la Regione Toscana a metà ottobre (dopo Marche, Valle d’Aosta, Calabria) che si è confermata, con crescenti difficoltà, la Regionerosapallidochepiùpallidononsipuò. Telenovelas suddivisa  in ben quattro atti in tre mesi fra il 28 settembre e il 24 novembre: un record mondiale.  

Ci attende quindi a fine novembre il  grande finale in tre atti: Campania, Puglia, Veneto. Alla fine saranno 17 milioni gli elettori coinvolti dei quali è probabile che meno di 8 votino un candidato Presidente e probabilmente meno di 7 voteranno una delle Liste che ha qualche possibilità di ottenere seggi.

Tanti episodi ci confermano che, al contrario di quanto sta avvenendo,  più si accorpano le votazioni ( fino al possibile Election Day annuale dove in una sola data dell’anno si può votare per Comuni, Regioni , Politiche o Europee e referendum )   più aumenterebbero i votanti e diminuirebbero gli astenuti. Di questi ultimi fanno parte le bianche e le nulle, conteggiate chissà perché come votanti ma in realtà super-astenuti che te lo dicono andando pure al seggio. 

Mi sono convinto da un po' che la telenovelas del voto a pezzi abbia due registi, silenziosamente uniti nella lotta, che albergano nei due partiti al momento più votati: Fratelli d’Italia  e PD, che hanno un sogno comune, quello di restare in due, con qualche aggregato di contorno precario e sottopagato come si usa oggi. E decisi e uniti su tutto quanto utile per impedire a qualunque costo ( per noi e per la democrazia) che possa sopravvivere un terzo incomodo, chiunque esso sia. Anche se la conseguenza sicura è quella di essere votati da  quattro gatti. Non a caso aleggia un singolare silenzio a sinistra sulle ipotesi golpiste di modifica della legge elettorale ( senza proposte alternative se non tenersi il rosatellum ) con la quale con il 40%, magari con il 15% dei votanti totali, si prende tutto. 

Programmi e progetti a parte, tecnicamente ci sono comunque innumerevoli  modi per favorire la partecipazione degli elettori:

1)   - il principale è ovviamente l’election day: in un weekend prestabilito dell’anno e solo in quello ( a fine aprile o inizio giugno o al riavvio di settembre, o nella prima settimana di novembre )  si vota qualunque cosa si debba votare nel corso di quell’anno:  elezioni e referendum.

2)   -  i residenti all’ estero o domiciliati provvisoriamente in un'altra regione dovrebbero avere la possibilità di votare nella settimana precedente on line o per posta o in un seggio speciale polivalente in ogni Comune. Tutte cose possibili, basta scegliere,  già praticate in altri paesi.

I dati della Toscana, a conferma di vari sondaggi e rilevazioni recenti, indicano che ormai l’astensionismo, che ha una parte “militante”, cioè effetto di una precisa scelta politica dell’elettore, si sta progressivamente stabilizzando verso il basso: se va bene non più del 60% alle Politiche, meno del 50% alle Europee, attorno al 45% per i Presidenti e vicino al 40% per le Liste nelle Regioni,  al  40 - 60% al primo turno nei Comuni e fra il 35 e il 45% al secondo turno.     

In Toscana il 12-13 ottobre hanno votato uno dei 3 candidati Presidenti ( Giani, Tomasi, Bundu)  il 46,4 % degli elettori ( 1,395 mil. su 3,007) e il 42,2 % ( 1,270 mil su 3,007 ) ha votato  per una delle 10 liste a sostegno, 3 delle quali non hanno superato il quorum e non hanno eletto nessuno.

Nel 2020, in presenza però del mini election day con il referendum sulla riduzione dei parlamentari, il voto a Presidenti (7) e Liste (15 di cui 9 non hanno eletto nessuno) ) era stato più alto (59,5% e 54,3%). Il dato di ottobre scorso è in realtà  paragonabile a quello del 2015: 45,8% per i Presidenti (7) e 44,4 % per le liste (10 di cui 3 non hanno eletto nessuno) .

Insomma la rossa Toscana , che io chiamerei  da oggi la Toscana rosapallido di Giani e amici di Renzi  nell’ultimo decennio si sta stabilizzando ad avere il 54-55 % di elettori che non vota alcun Presidente e il 57-58 % che non vota nessuna lista pur potendo scegliere fra 10-15 presentate. Incredibilmente una situazione quasi paragonabile a quella disastrosa di Marche e Calabria. 

Il CSX, unito questa volta al M5S,  ha visto il debutto della nuova creatura Casa Riformista ( nuova invenzione renziana  con  qualche contributo di  socialisti e radicali) ben  mascherata al fondo del simbolo di Giani Presidente, che ha sedotto ( o preso in giro) 112 mila elettori ( il doppio dei 55mila del M5S), dei quali mi chiedo quanti avessero chiaro che stavano votando per Renzi.  

In totale in Toscana nel voto per il Presidente  la coalizione vincente del campolargo ha preso il 25,02% degli elettori aventi diritto ( 694mila su 3,007 mil.)  Il CDX di Tomasi ha preso il 18,98% ( 570mila su 3,007 mil.), la lista della Bundu ha preso l’ 1,90% con 72mila voti ( non ottenendo alcun seggio con la lista rimasta sotto il 5% dei votanti) .

Analogo l’andamento delle Liste di appoggio principali  (5 e 4) con il 23,08% per il campolargo e il 17,26%  per il cdx. L’entusiasmante vittoria del campolargo diventa meno entusiasmante se si confronta i voti reali con quelli del 2020 e del 2015. Il Giani I° del 2020 ha preso per il Presidente il 28,93% degli elettori totali a cui si può aggiungere nel confronto  altri 3,80 elettori della candidata Presidente Galletti dei 5Stelle. Se si va al 2015 l’attuale campolargo aveva tre diversi candidati: Rossi per l’Area PD renziano, Fattori per SiSinistra, Giannarelli per il M5S ) che hanno espresso  sommandoli  nel voto al Presidente il 31,77% dei votanti totali ed il 30,87%  per  le loro 4 liste.

In sintesi, con qualche semplificazione, si è passati da 948mila voti del 2015 ( divisi in 3) a 977mila del 2020 (con 5stelle separati e contemporaneo referendum)  a 752mila del 2025 ( tutti uniti nel campolargo rosapallido ). Potremmo chiuderla qui con qualche evidente ma affrettata conclusione: Chi si contenta gode.

Ma è utile invece approfondire:

Il declino del M5S è tragicamente evidenziato dal caso Toscana:

Politiche:  527mila voti nel 2018, 209mila voti nel 2022

Europee: 237mila voti nel 2019, 136mila voti nel 2024

Regionali: 201mila voti nel 2015, 114mila voti nel 2020, 55mila voti nell’ottobre 2025

Voti andati o tornati al PD o verso il deserto di centro ? Non direi proprio:

Il PD alle regionali nel 2015 aveva 615mila voti, nel 2020 563mila voti, nel 2025 437mila. La lista di appoggio con il nome del Presidente non modifica di molto l’andamento discendente indicato.

La sinistra di centro ( il sogno dei Renzi, dei Calenda, di alcuni altri minori e dei loro sponsor nei media,  nella confindustria e soprattutto nel partito trasversale della ZTL che persegue l’obiettivo delle riforme al contrario perché nulla cambi)  per il momento non va al di là di alcune decine di migliaia di voti nella Regione del suo principale “animatore” .

Risultato: l’insieme dei vari pezzi che i media  oggi chiamano malamente “ opposizione di sinistra“ in Toscana nel 2015 era sostenuta da 32 elettori su 100, nel 2020 da 29 elettori su 100, nel 2025 da 25 elettori su 100.

Nella generale crisi del campolargo toscano, buon esempio di un destino nazionale, oltre all’ovvio dilagare dell’astensionismo, negli ultimi 10 anni  ( 2015-2025) vedo solo due evidenze:

-        -  la rappresentanza  dei 5stelle nella versione “progressista indipendente ma non troppo” si è dimezzata da 4 a 2 seggi ( e da 201mila a 55mila voti) e quella dei moderati della sinistra di centro, esigua ma ben sostenuta dai media, sembra aver raddoppiato i seggi da 1-2 a 3-4.   Mi chiedo quale influenza potranno mai avere i 5stelle nella nuova giunta del Giani II°.

-       -   l’assenza di un riformismo radicale ( che non ha nulla a che fare con la sinistra estrema)  se viene sostituito da uno scolorito moderatismo rosato,  con gli attuali  sistemi elettorali è un disastro, rende impossibile qualunque ipotesi di alternativa e, pur se minoritarie,  lentamente regala l’intera Italia alle destre. 

Di un progetto comune di alternativa, al momento non vedo tracce. 

 nella figura in basso seggi Toscana 2025 vs 2020


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13 ottobre 2025

Elezioni e astensioni. A destra e a sinistra si fa finta di niente

di Massimo Marino

Non c’è un solo paese al mondo dove si  oserebbe convocare le elezioni in sette grandi aree diverse del paese (come le nostre Regioni) spalmando il voto in almeno quattro appuntamenti diversi nell’arco di tre mesi. Praticamente un invito silenzioso ad andare al mare, quasi che quel 50-55 % di astenuti faccia paura a tutti. Siamo al punto che si conteggia normalmente come votanti le schede bianche e nulle ( di solito il 2-3% degli elettori negli ultimi anni ) quando invece si tratta in gran parte di super-astenuti ( vengo anche al seggio ma non voto per nessuno di voi ). Per mezza giornata si intervista qualche sociologo o psicologo, un po' di blablabla per “interpretare” gli assenti e poi si passa a chi avrebbe stravinto o straperso le elezioni. Mai i numeri di votanti, vanno per la maggiore le percentuali  perché  stendono un po' di nebbia sulla pietosa realtà, mai spiegare i mille trabocchetti del voto maggioritario con il quale si inventano listarelle e si premia con un po' di seggi chi non li ha presi con i voti veri. 

Due settimane dopo Marche e Valle d’Aosta si è votato in Calabria e una settimana dopo si sta votando in Toscana. Poi arriveranno entro fine novembre altre tre Regioni: Campania, Puglia e Veneto. La disaffezione data dall’  “astensionismo militante” ( quello di  chi ha smesso di votare dopo le grandi delusioni: prima il renzismo, poi i 5stelle versione dimaiana e amici, forse un po' di legaioli  che non amano la versione anti-antifascista dell’ultimo Salvini ) si va a sommare a quelli con domicilio fuori regione che per le elezioni locali non pensano valga la pena di doversi recare al proprio seggio. Ho già mostrato più volte che in Italia si vota di più solo quando ci si aspetta grandi cambiamenti o grandi emergenze ( ad esempio  le politiche del 2018, il referendum contro lo smantellamento costituzionale di Renzi del 2016, i referendum su acqua e nucleare del 2011 ). Neppure la semplice istituzione di un Election Day annuale in una data fissa dell’anno dove concentrare qualunque appuntamento elettorale viene presa in considerazione (aumenterebbe di molto i votanti). Anzi a destra e a sinistra molti sembrano proprio silenziosamente “ uniti nella lotta”  per circoscrivere l’affluenza solo ai votanti più fedeli e sicuri.      

In Calabria solo 42 elettori su 100 hanno votato uno dei tre candidati Presidenti ( 792mila su 1,888 mil. ) e solo 40 su 100 ( 759mila) hanno votato una delle 15 liste presenti. Rispetto alle precedenti regionali del 2021 il cosiddetto cdx ha ottenuto 22200 voti in più sul Presidente e 15400 voti in più sulle proprie 8 liste. Il cosiddetto csx ( compreso M5S) per il Presidente  ha preso 30200 voti in meno rispetto al 2021 ( somma di tre candidati, cioè Bruni/De Magistris/Olivero ) e 25200 voti in meno sulla somma delle loro 14 liste.

I voti reali totali espressi in Calabria per i Presidenti sono stati  792731 ( identici a quelli del 2021 che erano 792708 ) e quelli espressi per le liste sono paragonabili ( 759mila invece di 762mila).

Singolare che la somma di bianche e nulle contro le 46mila del 2021 è stata di 22mila nel 2025, cioè 24mila in meno. Pressoché uguali  ai votanti in più per il cdx.

Segnalo che l’aumento del cdx (  22200 voti ) sull’intero corpo elettorale ( 1,888368 mil) corrisponde a poco più dell’1%. In pratica rispetto al 2021 ha cambiato voto 1 elettore su 100.

Si conferma, se ce ne era bisogno, l’irrilevanza del tema del  campo largo o stretto che a nessuno interessa e soprattutto nulla cambia. Anche quando, non so se per ignoranza o in malafede si inventano risultati che non esistono. L’ultimo caso le elezioni comunali di Genova dove la Salis nel maggio scorso avrebbe vinto perché il campo era largo anzi larghissimo. Così ci raccontano il generale Gruber, il colonnello Schlein e il sergente Renzi  e tanti altri, anche se spesso è vero proprio il contrario: alle regionali di fine ottobre 2024 senza renziani, calendiani e radicali Orlando ( perdendo la Regione contro Bucci per poche migliaia di voti ) aveva già vinto nel Comune di Genova con il  52,3 contro il recente 51,5 della Salis.

Gli elettori, specie fuori sede, vanno a votare se diventa semplice farlo, in digitale o per posta ( in Calabria si stimano in  650mila gli elettori all’estero o domiciliati fuori dalla regione). Ma prima di tutto votano se ci sono proposte vere, progetti  riformatori credibili e infine leadership plurali  all’altezza dell’impegno.

Esemplare il travagliato destino  del M5S: in Calabria 406895 voti alla Camera  nel 2018 ridotti ai  48775 attuali nel 2025 ( 106mila sommando anche la lista Tridico). Qualcuno si consola e si illude con la favola del voto 5stelle sempre più contenuto  negli appuntamenti locali rispetto a quelli nazionali invece di porsi domande più serie. 

Per il momento tantissimi elettori NON si spostano affatto a destra ( che in Italia resta una minoranza) ma NON sono più disponibili a votare ancora una volta  alleanze opportuniste senza veri progetti comuni e senza idee.  

12 ottobre 2025