di Tiziano Saccucci *
Kurdistan Dopo lo scioglimento del Pkk e la distruzione simbolica delle armi nuovo passo per la pace. Ma c'è una condizione: la liberazione di Abdullah Ocalan
Le montagne del Kurdistan hanno vissuto domenica una giornata che resterà negli annali di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi del Medio Oriente contemporaneo. La leadership del Movimento per la Libertà del Kurdistan ha annunciato l’avvio del ritiro di tutte le forze di guerriglia dalla Turchia verso le Zone di Difesa di Medya, nella Regione del Kurdistan in Iraq, in quello che viene definito un passo decisivo per l’apertura della seconda fase del processo di «Pace e Società Democratica».
NON SI TRATTA della prima iniziativa di questo genere, già nel 2013 la guerriglia del Pkk aveva lasciato la Turchia in risposta ad una appello del suo fondatore, Abdullah Öcalan, salvo poi tornarvi a seguito del collasso del processo di pace che innescò un’escalation culminata con l’assedio e la distruzione di intere città da parte dell’esercito turco. L’annuncio è stato dato nel cuore di Qandil, in una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di giornalisti internazionali, tra cui inviati di Bbc, Reuters, Afp e Al Arabiya. Alla guida dei guerriglieri comparsi davanti alle telecamere, si sono presentati Sabri Ok, membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (Kck) insieme a Vejîn Dersîm, comandante provinciale delle Yja Star, struttura autonoma delle donne nella guerriglia, e a Devrîm Palu del Consiglio di comando delle Forze di Protezione del Popolo (Hpg).
Nella dichiarazione letta in turco e curdo, Sabri Ok ha affermato che il Movimento ha deciso di attuare le risoluzioni del XII congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, svoltosi lo scorso maggio, «ponendo fine alla struttura organizzativa del partito e alla strategia di lotta armata». Il documento sottolinea come le decisioni siano state prese «sulla base delle direttive del leader Abdullah Öcalan», che il 27 febbraio aveva lanciato l’«Appello per la Pace e una Società Democratica». «Abbiamo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale il primo marzo – si legge nel testo – Successivamente, trenta combattenti per la libertà, guidati dalla co-presidente del Kck Besê Hozat, hanno bruciato le proprie armi in una cerimonia pubblica, manifestando così la nostra volontà di porre fine alla lotta armata». Secondo la leadership curda, il ritiro delle unità dalla Turchia è volto a «prevenire scontri e provocazioni» e a consolidare un contesto politico utile alla prosecuzione del processo. «La pratica dimostrerà l’efficacia di questi passi unilaterali», ha dichiarato Sabri Ok, sottolineando che «è ora necessario adottare determinati approcci giuridici e politici, in linea con le risoluzioni del congresso».
NEL SUO INTERVENTO, il dirigente del Kck ha precisato che il Movimento chiede «una legge transitoria specifica per il Pkk» e la promulgazione di «leggi per l’integrazione» che permettano ai militanti di partecipare alla politica legale. La conferenza stampa è stata accompagnata da misure di sicurezza eccezionali: telefoni sequestrati, disturbatori di segnale, accesso controllato. Alla fine della dichiarazione, i guerriglieri hanno salutato militarmente Sabri Ok prima di rientrare nelle loro aree operative. Poche ore dopo, è arrivato il sostegno del Congresso Nazionale del Kurdistan (Knk), che ha definito il passo del Movimento «un atto di coraggio e determinazione per una pace giusta». Il Consiglio esecutivo del Knk ha infine invitato l’Unione europea, il Consiglio d’Europa e gli Stati uniti a «sostenere il processo e a rimuovere immediatamente il Pkk dalle liste delle organizzazioni terroristiche». Anche Ankara ha reagito, ma in tutt’altra chiave. Il portavoce del partito di governo Akp, Ömer Çelik, ha rivendicato la decisione del Pkk come «un risultato concreto della tabella di marcia per una Turchia libera dal terrorismo». Secondo Çelik, il ritiro e l’annuncio di nuovi passi verso il disarmo rappresentano «progressi in linea con l’obiettivo strategico di liberare la nostra democrazia da ogni minaccia». Il vicepresidente dell’Akp, Efkan Ala, ha aggiunto che «con il sostegno della nostra amata nazione, stiamo marciando con determinazione verso l’obiettivo di una Turchia libera dal terrorismo», definendo le ultime dichiarazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan «il completamento di un’altra importante tappa».
DUE NARRAZIONI, dunque, che scorrono parallele. Da un lato quella curda, che parla di pace, democrazia e libertà di Abdullah Öcalan, «che deve ottenere la sua libertà fisica il prima possibile»; dall’altro quella del governo turco, che legge la mossa come un passo nella propria agenda di sicurezza e sovranità. I monti che per decenni sono stati fronte di una guerra senza tregua tornano a essere teatro di speranze. «Non vogliamo immaginare una mancata risposta – ha detto Sabri Ok – Risolvere la questione curda è impossibile nelle attuali condizioni di detenzione del leader Apo. Deve vivere e lavorare liberamente».
nella foto: combattenti curde tra le montagne di Qandil
* da il manifesto 27/10/2025
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La società curda tra prudenza e speranza
Pace o miraggio? Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di «fine definitiva della strategia militare» e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri
Pace o miraggio? È la domanda di fronte al ritiro totale della guerriglia curda dalla Turchia e la ridefinizione della politica curda. Con l’annuncio ufficiale del ritiro completo delle forze del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) dal territorio turco verso il nord dell’Iraq, si chiude uno dei conflitti più lunghi e complessi del Medio Oriente. La decisione, resa pubblica il 26 ottobre 2025 dalle montagne di Qandil, segna non solo la fine di oltre quarant’anni di guerra, ma anche l’inizio di una nuova fase nella ridefinizione della politica curda in Turchia e nella regione.
NATO NEL 1978 come movimento di liberazione d’ispirazione marxista-leninista, il Pkk ha progressivamente trasformato la propria strategia, passando dalla lotta armata alla via politica e democratica. Nel comunicato letto a Qandil, il gruppo ha spiegato che il ritiro risponde alle decisioni del dodicesimo congresso e all’appello del suo leader incarcerato Abdullah Öcalan per «una società pacifica e democratica». Nelle immagini diffuse, venticinque combattenti – otto donne tra loro – attraversano il confine turco verso le aree difensive nel nord dell’Iraq.
I passaggi precedenti di questo processo sono noti: il cessate il fuoco del primo marzo, la decisione di sciogliere le strutture militari a maggio e la cerimonia simbolica di disarmo svoltasi a Suleymaniya a luglio. Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di «fine definitiva della strategia militare» e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri. «Non vogliamo solo un’amnistia generale – ha dichiarato il dirigente Sabri Ok – ma norme che garantiscano una reale partecipazione politica». Sull’intero processo pesa però una lunga storia di sfiducia. Il precedente tentativo di pace del 2015 fallì nel sangue, con l’arresto di migliaia di attivisti, giornalisti e deputati del Partito democratico dei popoli (Hdp, poi costretto a sciogliersi). Molti temono che il governo di Recep Tayyip Erdogan possa utilizzare questo nuovo percorso per ottenere legittimità internazionale senza attuare vere riforme.
ANKARA, dal canto suo, definisce il ritiro «un passo concreto verso una Turchia senza terrorismo» e ha istituito una commissione parlamentare di 51 membri per elaborare un quadro legale al processo di pace. I media turchi parlano di un imminente incontro tra Erdogan e una delegazione del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem, successore dell’Hdp), che in seguito si recherà sull’isola di Imrali per consultare Öcalan.
Gli attivisti curdi accolgono il processo con cautela. Finché non saranno garantite le libertà politiche e rimossi i vincoli imposti ai partiti curdi, dicono, «questa sarà una pace dall’alto, non una pace dal basso». Intanto, la società curda, stremata da decenni di conflitti, guarda con speranza alla possibilità di una nuova stagione politica. Per molte donne curde, la transizione ha un doppio significato: la fine della guerra e l’inizio di una nuova battaglia per la parità nel campo politico. Le conseguenze del ritiro superano i confini turchi. Baghdad teme un aumento della presenza del Pkk nel nord dell’Iraq, Teheran guarda con sospetto alla crescente influenza dei curdi vicini a Öcalan in Iran occidentale, mentre in Siria le forze curde alleate del Pkk tentano di consolidare la propria posizione di fronte ad Ankara.
SECONDO DIVERSI analisti occidentali, se il processo di transizione verrà consolidato, potrebbe alterare gli equilibri di sicurezza lungo le frontiere siriane e irachene. Sul piano giuridico, il futuro di Abdullah Öcalan e la sorte dei combattenti disarmati rappresentano la prova più delicata. L’esperienza internazionale mostra che ogni transizione priva di leggi chiare e di un monitoraggio indipendente rischia di fallire. Se Ankara approverà in tempi rapidi le norme su amnistia e integrazione e renderà la liberazione di Öcalan parte del processo di legittimazione politica, Qandil potrà trasformarsi da simbolo di guerra a simbolo di pace. In caso contrario, il rischio di un ritorno alla violenza rimane reale. In un Medio Oriente ancora prigioniero di guerre infinite, la scelta del Pkk di deporre le armi ricorda una verità semplice ma radicale: nessuno Stato può costruire la propria stabilità eliminando l’altro. La pace – come gridano le donne curde a Qandil – non nasce dalle armi, ma dall’uguaglianza e dalla giustizia.
nella foto: componenti del Pkk depongono e distruggono le proprie armi a Suleimaniya
* Maysoon Majidi è scrittrice, regista, giornalista e attivista per i diritti umani - Il manifesto 28/10/2025






