di Renzo Rosso *
L’umanità
edifica muri e costruisce ponti da quando Homo Erectus si è fatto Homo
Sapiens. Per alcuni, i ponti sono il simbolo salvifico dell’unione o
dell’eterno passaggio. Per altri, numerosi nell’antica mitologia e nel
Medioevo, uno strumento diabolico e si contano forse un centinaio di ponti del diavolo in Europa. Allo
stesso modo, i muri non sono sempre e soltanto un maligno artifizio che
difende un confine e stabilisce una frattura, ma si possono anche interpretare
come un margine di sutura, un mezzo per evitare i conflitti. E, come
scrive Claude Quétel in Muri: un’altra storia fatta dagli
uomini, i muri “non pretendono di essere soluzioni. Sono risposte”.
Non parlo
qui del muro di Berlino né della sua edizione contemporanea, tanto cara
alle amministrazioni statunitensi di ieri e di oggi, ma di un muro diverso e,
possibilmente, una risposta concreta al clima che cambia. The Great Green Wall
è un movimento a guida africana con l’ambizione epica di far crescere la Grande
Muraglia Verde, una meraviglia naturale lunga quasi 8mila chilometri
attraverso l’Africa in tutta la sua larghezza. Dopo dieci anni, circa il
15% della foresta è già stata piantata e sta riportando in vita i
paesaggi degradati dell’Africa subsahariana, poiché garantisce a milioni di
persone che vivono lungo il suo tracciato sia una sicurezza alimentare prima
neppure immaginabile, sia posti di lavoro – e un motivo concreto per rimanere.
La Grande
Muraglia Verde viene costruita nella regione del Sahel, sul margine
meridionale del deserto del Sahara, uno dei luoghi più poveri della
Terra. Più di altre regioni del pianeta, il Sahel è sensibile al cambiamento
climatico e milioni di nativi ne stanno già affrontando l’impatto
devastante. Persistenti siccità e una inesorabile crisi alimentare producono
conflitti diffusi, innescati dalla riduzione delle risorse naturali, e una migrazione
di massa verso l’Europa. Per rispondere in modo credibile alle istanze delle
comunità locali, più di venti Paesi – dal Senegal in Occidente a Gibuti
in Oriente – hanno deciso di combattere il destino, in apparenza ineluttabile.
E l’iniziativa guidata dall’Unione africana – nata durante la Conferenza
dei capi di Stato e di Governo della Comunità degli stati del Sahel e del
Sahara di Ouagadougou del 2005 e avviata nel 2007 – sta iniziando a dare
qualche frutto concreto.
La forestazione
ha una reale consistenza scientifica. Un articolo pubblicato da poco su Theoretical and Applied
Climatology dimostra come l’iniziativa possa portare a un aumento
delle precipitazioni tra 2 e 4 millimetri al giorno sulle aree boschive, se
fosse estesa ancora a nord. Se mantenuto più a sud, come sta accadendo per ora,
l’aumento delle precipitazioni sarebbe più debole e non necessariamente sulle
aree boschive. Il raffreddamento della temperatura che si osserva nell’area
afforestata si spiega con una diminuzione del flusso di calore
terrestre, legato alla riduzione dell’albedo (potere riflettente) superficiale.
Poiché l’impatto sulle precipitazioni è positivo nel Sahel ma non sulla costa
della Guinea, l’efficacia della forestazione potrebbe essere ancora
migliorata senza troppo sforzo.
Una volta
completata, la Grande Muraglia Verde – frutto dell’intuizione di Richard St.
Barbe Baker nel lontano 1952 – sarà la più grande infrastruttura vivente
del pianeta, tre volte più estesa della Grande barriera corallina. Una
soluzione convincente per molte delle minacce urgenti che incombono non solo
sull’Africa, ma sull’umanità intera. Può aiutare a mitigare gli effetti dei
cambiamenti climatici, le siccità, le carestie, i conflitti e le migrazioni.
Un sistema
grande scala è diverso dalla somma dei suoi componenti individuali e una foresta
non è solo una collezione di alberi. Anche se si tratta di un’intuizione già
presente nelle Odi di Orazio, spesso lo dimentichiamo. La Grande
Muraglia Verde non è soltanto una misura regionale, limitata al Sahel, ma un
simbolo globale per l’umanità se vuole affrontare il degrado sempre più rapido
e apparentemente inesorabile dell’ambiente. Dimostra che se riusciremo a
lavorare con la natura, anche in regioni marginali ed estreme come il Sahel, ai
confini dell’impossibile, potremo superare le avversità e costruire un mondo
migliore per le future generazioni.
*
Docente di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia a Milano
Da
ilfattoquotidiano - 30
aprile 2019
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