di Fernando D‘Aniello *
A distanza
di poco più di un anno dalla formazione del governo di Angela Merkel e della nuova Grande coalizione, le elezioni europee di
maggio costituiscono un primo banco di prova importante della politica tedesca.
A maggio il voto a Brema e a settembre, poi, le elezioni in tre Bundesländer
rappresenteranno un nuovo test, tanto per i conservatori che per i
socialdemocratici: lo scorso anno furono proprio le elezioni in Baviera e Assia
a convincere Angela Merkel a non ricandidarsi alla guida della CDU. Da allora la cancelliera, sostituita da Annegrett Kramp-Karrenbauer, è
sembrata più libera, decisa ad arrivare alla fine della legislatura,
concludendo così il patto di coalizione sottoscritto lo scorso anno.
Il suo
partito ha avviato una nuova stagione con Kramp-Karrenbauer, considerata una delfina della
Merkel: per molti è lei la prossima cancelliera federale. Tuttavia, ai
conservatori tedeschi manca ancora molto per definire un programma coerente per
andare oltre il ‘merkelismo’, che non è solo uno stile di governo ma
rappresenta la capacità di fare del partito il baricentro istituzionale del
Paese, senza pretese assolutiste, ma anzi coinvolgendo altri soggetti politici
e sociali al raggiungimento di precisi obiettivi e al rispetto dei valori di
quel Grundgesetz che proprio quest’anno compie settant’anni.
Il programma per le europee è un esempio di questa
fase di transizione: l’Union di CDU e CSU ha assunto un profilo più ‘radicale’, molto
diverso da quello sperimentato nella gestione Merkel. L’obiettivo è contenere i
populisti di Alternative für Deutschland (AfD), cercando di drenarne il
consenso. Una preoccupazione, per la verità, eccessiva, visto che AfD sembra
aver perso la sua spinta iniziale e si sta confrontando con le difficoltà
legate al suo essere ormai una forza politica ‘tradizionale’, che, dilaniata da
scandali e correnti, non appare poi molto diversa da quelle élites che fino a
ieri contestava (più problematico quello che potrebbe accadere nei Bundesländer
dove occorre trovare una soluzione per la formazione di governi stabili
tenendo presente la ormai assodata pluralità di partiti e la crisi di quelli
tradizionali).
Si spiegano
così alcune formulazioni del programma sui richiedenti asilo (la sezione è
interamente dedicata al far convivere (sic!), gli obblighi giuridici e morali
con l’intenzione di ridurre il numero di rifugiati in Germania) e, persino,
sulla possibilità di reintrodurre (temporanei) controlli alle frontiere con
Stati membri dell’UE, ipotesi che la scorsa estate provocò una
profonda crisi tra Angela Merkel e il suo ministro degli Interni, il bavarese
Seehofer.
Quello dei
conservatori appare un europeismo preoccupato di non essere ‘troppo’
europeista, per vincere la sfida con AfD che, certamente non
parla più di un’uscita immediata dall’euro (la cosiddetta Dexit), ma che vuole
eliminare il Parlamento europeo e le altre istituzioni e riconsegnarne tutte le
competenze agli Stati nazionali. Così se per i populisti l’Europa è una
“comunità economica e di interessi di Stati sovrani”, per la CDU è “una salda
associazione di Stati, uno spazio economico di successo e un’ancora di stabilità
globale”. In questo modo, mentre AfD si configura come una forza nazionalista
in senso stretto, fortemente identitaria e ‘sovranista’ (lo Stato difende le
proprie tradizioni e la propria identità, e torna a utilizzare la svalutazione
per fare fronte alle difficoltà della propria economia, consiglio non richiesto
per i Paesi del Sud Europa), la CDU prova a superare gli anni di Merkel con una
miscela di pragmatismo, fedeltà alla tradizione europeista e una robusta
iniezione di conservatorismo vecchio stile.
Tuttavia, se
i populisti sanno perfettamente di non poter costruire alcuna connessione con
altri partiti ‘fratelli’ se non al fine di rendere ingovernabile l’Europa e
inevitabile il collasso della moneta unica, ai conservatori tedeschi manca, al
momento, tanto un chiaro programma politico di riforma dell’Unione – quanto a
scetticismo, diffidenza e ostilità sulle politiche sociali europee i
conservatori non sono poi così distanti da AfD – tanto un sistema di alleanze
per implementarlo.
Il programma
esplicita, anzi, una chiara frattura con la Francia di Macron, il cui attivismo in politica estera è
avvertito con sempre maggiore insofferenza da Berlino. Le sue proposte, ad
esempio quella sul ministro degli Esteri e sul bilancio comune, sono state
bocciate, mentre l’obiettivo resta sempre quello della realizzazione del
meccanismo di stabilità (dunque del metodo intergovernativo, originariamente
un’idea di Schäuble poi fatta propria anche da Merkel) e una politica comune
sui rifugiati. Anche qui le priorità appaiono da un lato scelte per non
impensierire troppo l’elettorato tedesco, dall’altro prive di un disegno
unitario ed efficace: la situazione europea è al momento di estrema divisione,
con Berlino e Parigi in una situazione di reciproca diffidenza, Londra
impelagata nella Brexit, Roma ormai divenuta una preoccupante incognita per le
altre capitali.
Certamente
la nomina del bavarese Manfred Weber quale candidato alla presidenza della Commissione europea evidenzia come la Germania
intenda impegnarsi direttamente per individuare un compromesso per le
necessarie riforme istituzionali di cui l’Unione necessita. Va sottolineato che
in questo modo i conservatori aderiscono al modello delle candidature indicate
dai partiti e che devono poi passare al vaglio degli elettori: si tratta di un
primo, indispensabile passaggio verso un ruolo più attivo dei cittadini e di
partiti realmente europei.
Il campo
progressista tedesco è, invece, caratterizzato dalla ormai cronica crisi della SPD, data dai sondaggi ben sotto il 20% e
superata dai Grünen, mentre la Linke non approfitta della debolezza dei
socialdemocratici. I Grünen sono certamente una sorpresa di questi
anni: una forza politica pragmatica, presente, nei governi dei Bundesländer,
in ogni sorta di coalizione (con i conservatori, con i liberali, con la SPD
etc.) e capace di intercettare il voto giovane, prevalentemente delle città
medio-grandi. Un elettorato poco ideologizzato che vede negli ecologisti la
sola forza pronta a rappresentare le proprie istanze in qualsiasi coalizione,
cosa che, invece, non riesce alla SPD e tantomeno alla Linke.
La
socialdemocrazia tedesca, che da circa un anno ha una nuova Vorsitzende,
Andrea Nahles, cerca di uscire dalla crisi nella
quale è precipitata. Il programma è indubbiamente quello più completo e
avanzato, anche abbastanza interessante per le riforme suggerite (seppur ancor
troppo timide, sia sul piano istituzionale sia su quello sociale e per le
politiche del lavoro). Soffre, tuttavia, di due grandi handicap.
In primo
luogo l’incapacità di costruire un fronte europeo socialdemocratico, di tipo
nuovo, con il quale fronteggiare tanto il populismo nazionalista quanto il
conservatorismo classico: la socialdemocrazia dovrebbe essere chiamata al
compito di governare davvero la globalizzazione e non soltanto a quello di
provvedere ad una gestione delle sue criticità. Il suo europeismo è ancora
estremamente immaturo ed esposto ai contraccolpi della Brexit, problema comune
anche alla Linke. Se, infatti, la Brexit dovesse andare in porto, potrebbe
rafforzarsi, sulla scia di un ipotetico successo di Corbyn, l’idea di quanti a sinistra propongono
una valutazione estremamente negativa dei trattati europei e delle attuali
istituzioni, che sarebbero strutturalmente fondati sull’ideologia neoliberale
e, pertanto, ‘irriformabili’. Questa impostazione era rappresentata nella Linke
da Sahra Wagenknecht che, dopo aver tentato invano la costruzione di un
movimento trasversale ai partiti progressisti, si è ormai defilata, annunciando
persino di non volersi ricandidare alla guida del gruppo parlamentare, ma che
potrebbe tornare a bersagliare il proprio partito, che ha invece scelto una
prospettiva decisamente europeista, in caso di un risultato elettorale non
soddisfacente.
In secondo
luogo, se nel capitalismo renano una mediazione di alto profilo tra capitale e
lavoro sembrava possibile (e in parte fu realizzata), oggi la socialdemocrazia
sembra priva di un’ipotesi alternativa a quella di un capitalismo del tutto
libero da controlli, mentre, ad esempio, la questione ambientale ci riporta
quotidianamente al tema dei limiti e della qualità della crescita. Su questo
anche i Grünen potrebbero a breve palesare tutte le ambiguità del loro successo
e, soprattutto, l’impossibilità di esportare a livello federale in Germania o
europeo la loro ‘elasticità’ nelle coalizioni sperimentate a livello locale.
Il rischio è
una progressiva marginalizzazione, fino alla scomparsa della socialdemocrazia e
dell’intero campo progressista: uno scenario che, ha ricordato Jürgen Habermas, è sempre coinciso con
profondissime crisi della democrazia tedesca ed europea.
* da www.treccani.it 3 maggio 2019
Nella foto: Manifesti delle campagne elettorali
di CDU, SPD, Die Linke e Alliance 90/The Greens, i partiti politici tedeschi
per le elezioni del Parlamento europeo di maggio, a Berlino, Germania (14
aprile 2019). Crediti: Cineberg / Shutterstock.com
(nota
mm : il contributo pubblicato sul tema non comporta da parte mia la
condivisione del contenuto )
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