di Alberto
Crepaldi *
Ieri
pomeriggio, nel comizio improvvisato ai
piedi del cavallo morente della sede Rai di viale Mazzini, Beppe
Grillo ha fatto un passaggio che mi ha incuriosito. Ha detto che la
televisione pubblica è “un’azienda con 600 dirigenti”.
Ho pensato
si trattasse di uno scherzo. Cosicché sono voluto andare a verificare quel
numero, scorrendo l’ultimo bilancio Rai,
chiuso, come noto, con poco meno di 250 milioni di buco.
E la realtà
in cui mi sono imbattuto è ben più grave di quella sintetizzata dalla battuta
del leader del Movimento 5 Stelle. Limitando il controllo sul conti della
capogruppo, emerge come i relativi dirigenti sono per l’esattezza 579.
Ma di questi addirittura 324 sono giornalisti. Un numero, questo, che
sarebbe necessario per dirigere almeno 160 testate giornalistiche.
L’elemento
decisamente sorprendente attiene però al rapporto tra dirigenti e dipendenti
nel confronto con il settore privato. Ebbene, l’indicatore
universalmente riconosciuto per misurare il grado di diffusione del lavoro
manageriale è nella capogruppo il 5,5 per cento, contro un valore medio
riscontrato nelle imprese private italiane pari allo 0,9%.
In Rai
dunque la percentuale è superiore del 500 per cento a quella delle
aziende private.
Il quadro
appare ancora più allarmante se ai dirigenti si aggiungono i quadri,
che, sempre nella sola capogruppo, sono una enormità: 1097! Questo
significa che le figure apicali della capogruppo, pari a 1676 unità,
rappresentano incredibilmente il 16 per cento della forza lavoro: una cifra,
questa, a dir poco folle.
È poi un vero
peccato che il bilancio Rai, diversamente da quanto avviene nell’esposizione
dei conti di società di peso anche minore, non fornisca il dato dello stipendio
medio percepito dai dipendenti e con particolare riferimento a quello di
dirigenti e quadri. Che però nell’azienda radiotelevisiva pubblica la
retribuzione sia decisamente superiore a quella media, si ricava non solo
semplicemente suddividendo il costo di salari e stipendi per il numero dei
dipendenti. Ma anche guardando agli oneri, pari a circa 60 milioni di euro,
ascritti alle voci “trattamento di fine rapporto” (48,1 milioni di euro) e
“trattamento di quiescenza e simili” (12,2). Considerando infatti come nel 2012
ci sono state 184 cessazioni, il valore medio della cifra erogata ad ogni
pensionato, tra tfr e incentivazioni di vario tipo, è stato pari a 326
mila euro.
La [...]
prossima revisione del modello organizzativo consentirà di migliorare il
livello dell’efficienza operativa [...]”, si legge nelle note accompagnatorie
del bilancio 2012.
Certo, dovendo
fare i conti con il tasso di managerialità più alto al mondo, il percorso di
riorganizzazione appare decisamente in salita.
* da ilfattoquotidiano.it 1 ottobre 2013
Nessun commento:
Posta un commento