Nei mesi scorsi, in uno
dei tentativi di spin più patetici e meno riusciti della storia, il Governo
delle larghe intese ha ripetutamente cercato di convincerci che la Fine Della Crisi & Il Ritorno
Alla Crescita™ erano vicini. Il 6 agosto 2013 Enrico Letta dichiarava raggiante
che: “i segnali ci sono tutti e indicano
che siamo a un passo dal possibile. A un passo, cioè, dall’inversione di rotta
e dall’uscita dalla crisi più drammatica e buia che le attuali generazioni
abbiano mai vissuto”.
Il Ministro
dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, rincarava la dose qualche giorno più tardi a Sky Tg24: «Credo che l’economia entrerà in ripresa,
siamo a un punto di svolta del ciclo». Insomma, la recessione è praticamente
finita: in fondo al tunnel si vede addirittura «un po’ di luce». E non si tratta, assicurava uno scherzoso
Saccomanni, di quella del «treno che ci
sta venendo incontro». Clicca qui per vedere il video incorporato.
Il 19 settembre gli
entusiasmi del Governo Letta sono stati smorzati dal Documento di Economia e
Finanza presentato dallo stesso Governo Letta, che ha rivisto al ribasso sia le
stime per il Pil del 2013 (-1.7%), che quelle per il deficit/Pil (sforerà il
3%). Il «punto di svolta» invocato dal Ministro dell’Economia non è dunque la
ripresa, ma il collasso definitivo della narrativa della ripresa – una patetica
storiella tagliata con ottimismo scadente che l’esecutivo ha provato a rifilare
ai cittadini.
La realtà è che l’Italia
di questi anni non sarà ricordata per i post di Vito Crimi su Facebook o le
violente sfuriate televisive della Santanchè. Diventerà – come ha scritto
Roberto Orsi sul blog
della London School of Economics – un perfetto caso di studio su come è
possibile scaraventare un paese florido e industrializzato in una condizione di
«desertificazione economica, tracollo
demografico, “terzomondializzazione” galoppante, crollo della produzione
culturale e un totale caos politico-costituzionale».
Tutti i dati che servono
a comprendere la gravità del dissesto sono pubblici – e sono impietosi. Nel
rapporto sulla Competitività UE, presentato il 25 settembre, si scrive chiaro e tondo che l’Italia sta vivendo «una vera e propria deindustrializzazione»
e che la competitività sul costo del lavoro «si è erosa in modo considerevole negli ultimi 10 anni». A luglio,
infatti, la produzione industriale su base mensile ha segnato un ribasso dell’1.1%; e la contrazione in termini tendenziali,
la 23esima, è stata del 4,3%.
Uno studio della Confindustria presentato lo scorso giugno illustrava i
devastanti effetti della crisi, che «ha
già causato la distruzione di oltre il 15% del potenziale manifatturiero
italiano, con una punta del 40% negli autoveicoli e cali di almeno un quinto
in 14 settori su 22». Tra il 2007 e il 2012, il numero di imprese
manifatturiere è diminuito dell’8,3%, con un saldo negativo tra imprese
nate/cessate di 32mila unità. 55mila aziende hanno chiuso i battenti nel solo
triennio 2009-2012. Dal 2007 si sono persi 539mila posti di lavoro nel settore,
e il credit crunch perenne ora rischia di mettere in ginocchio anche le
aziende sane e di spedire a casa altri lavoratori.
Sul versante del lavoro
– e soprattutto della sua mancanza – la situazione è sempre più drammatica. Il
1 ottobre 2013 sono usciti il rapporto del Cnel sul mercato del lavoro e i nuovi dati Istat sulla disoccupazione in Italia, che hanno
raggiunto i livelli del 1977. La disoccupazione generale è salita al 12.2
percento (agosto), in rialzo di 1.5 punti su base annua; quella giovanile ha
superato la soglia del 40 percento. Per il Cnel il 2013 è l’anno «peggiore della storia dell’economia italiana
dal secondo Dopoguerra», e tra il 2008 e il 2012 si sono persi più di un
milione di posti di lavoro con il rischio che «molti di coloro che sono stati espulsi dal mercato, o non sono neanche
riusciti a entrarvi, restino a lungo fuori dal processo produttivo».
I precari sono 3,3 milioni e guadagnano in media 836 euro, mentre le
persone che hanno la partita Iva, oltre a non essere praticamente rappresentate
a livello sindacale, arrivano a lasciare il 60% dei loro introiti tra tasse e contributi (nel 2014
l’aumento dell’aliquota INPS raggiungerà il 33%). Un rapporto del World Economic Forum, inoltre, ha piazzato
l’Italia al 37esimo posto – e basta leggere cosa succede nello stabilimento Fiat a Melfi per rendersene conto
– nella classifica sul trattamento dei propri lavoratori, dietro al Cile e
subito prima della Lettonia.
Sempre negli ultimi
anni, inoltre, una serie sterminata di grandi e medie aziende italiane è stata
acquistata da gruppi stranieri. Si tratta, per la precisione, di 352 aziende
per 45 miliardi di euro – più di una manovra finanziaria. Di questi 45 miliardi,
riporta il Corriere Economia, «la parte maggiore, 15 miliardi (34%) è
finita al retail, cioè a lusso, moda, design, alimentari, grande distribuzione:
il boccone più ambito. Segue il manifatturiero con 10,4 miliardi, quindi
un’altra decina di miliardi (9,4) per partecipazioni in banche e servizi
finanziari».
L’ultima azienda (in
ordine cronologico e di grandezza) è stata la Telecom, passata sotto il
controllo della spagnola Telefonica. Come ha scritto Mario Seminerio su Phastidio, l’intero caso
Telecom è il risultato di un vergognoso, e italianissimo, saccheggio più che
decennale nonché il portato inevitabile di una «sinergia parassitaria tra una classe politica vocata ad esercitare una
continua predazione sulle energie vitali della società italiana, ed una
oligarchia di capitalisti finanziari a debito».
La «predazione sulle energie vitali» è ben rappresentata anche da altri
fattori che stanno soffocando l’economia. Che l’Italia abbia uno dei livelli di
tassazione più alti al mondo è ormai un fatto noto; nonostante ciò, nel
tentativo disperato di far cassa il Governo ha recentemente aumentato l’Iva al
22%. Resta da capire che frutti possa portare questa misura, visto che nei
primi otto mesi del 2013 il gettito dell’Iva – che era stata a sua volta
aumentata di un punto dal Governo Berlusconi nel 2011 – è calato del 5.2% (-3 miliardi di euro).
In più ci sono i soliti
problemi strutturali del Paese: infrastrutture inadeguate, corruzione endemica
(la Commissione UE stima che la metà dei 120 miliardi di euro sottratti
ogni anno all’economia continentale sia di nostra competenza), una giustizia
civile allo sfascio e una burocrazia ipertrofica e fuori ogni controllo.
A quest’ultimo
proposito, il caso della bonifica di Porto Marghera illustra bene cosa succede
quando s’intrecciano burocrazia e deindustrializzazione. Il 21 gennaio 2013
erano stati finalmente approvati i quattro protocolli attuativi destinati a
sbloccare le bonifiche di cui si parla da almeno 10 anni. Lo scorso 17 giugno,
però, nella conferenza dei servizi decisoria si è rimessa in discussione una procedura che era già stata condivisa
e approvata, «riaprendo la porta alle
burocrazia e al sistema delle autorizzazioni». Di fatto si è bloccato tutto
un’altra volta.
Nel frattempo, la
situazione dei lavoratori rimasti a Marghera è sempre più catastrofica. Dopo
aver effettuato un sopralluogo negli impianti Vynils (su invito degli operai),
l’assessore all’ambiente del Comune di Venezia Gianfranco Bettin ha rilasciato
questo durissimo comunicato:
Il quadro che abbiamo potuto verificare è tale da
causare gravissime preoccupazioni sia per l’ambiente e la salute sia per le
condizioni nelle quali si trovano a operare gli addetti, i quali sono di fatto
“comandati”, pagati pochissimo, mentre attendono tuttora decine e decine di
migliaia di euro ciascuno di salari e stipendi a lungo non pagati in passato,
con grave disagio sopportato insieme alle famiglie. La sala controllo nella
quale svolgono i turni “H24”, notte compresa, ai quali sono tenuti, versa in
condizioni fatiscenti. Vi piove dentro, a volte è assalita da ratti e serpenti
che hanno colonizzato gli spazi inselvatichiti dentro e intorno agli impianti da
tempo fermi, mentre d’estate, per mancanza di condizionatori, è rovente.
Per quanto riguarda
l’istruzione, un’indagine dell’Ocse ha fotografato l’agghiacciante condizione culturale in
cui versano gli italiani: siamo «ultimi
in classifica per competenze alfabetiche, ovvero di lettura e comunicazione,
tra 24 stati tra i più industrializzati» e penultimi per competenze
matematiche. Soltanto una piccola parte della popolazione, meno del 30%,
possiede i livelli di conoscenza che l’Ocse considera «il minimo per vivere e lavorare nel XXI secolo». L’Ocse ha anche
evidenziato il netto divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno e il deficit
abissale tra la nostra offerta formativa di alto livello e quella dei paesi più
avanzati.
Insomma, la rapidità del
declino in tutti i campi è così impressionante che – argomenta Orsi sul blog
della LSE – se si continua così, nell’arco di meno di una generazione non
rimarrà più nulla dell’Italia come moderna nazionale industriale.
Il punto è che l’attuale
classe dirigente non ha né l’abilità né probabilmente l’intenzione di tirare
fuori il Paese dal baratro. Anzi. Come dice Orsi, «Monti ha aggravato una recessione già pesante, e Letta sta percorrendo
la stessa identica strada. Tutto deve essere sacrificato in nome della
stabilità». L’ignobile spettacolo della crisi di governo del 2 ottobre ha mostrato chiaramente che l’unica cosa
stabile nella politica italiana è lo stato d’emergenza – uno stato che Giorgio
Agamben ha definito «incompatibile
con la democrazia». Se la retorica della «ripresa» ha subito una brusca
battuta d’arresto, quella de “L’Italia È Un Grande Paese” continua tuttavia a
rimanere piuttosto radicata nel discorso pubblico. Lo scorso 23 settembre, ad
esempio, la Presidente della Camera Laura Boldrini ha detto: Il nostro è un grande Paese, non dobbiamo
dimenticarlo. Ha una storia millenaria, ha i propri talenti in ogni parte del
mondo ed è ancora, nonostante i colpi della crisi, una notevole potenza
industriale. […] L’Italia è tra i Paesi fondatori dell’Unione europea e merita
di più. Merita di riconquistare con la forza delle idee e con la dignità del
lavoro il posto che le spetta. A me sembra che l’Italia abbia ormai deciso
quale posto occupare all’interno dell’Unione Europea: quello di un Paese
corrotto fino al midollo, senza prospettive, insicuro, impoverito, incattivito
e popolato da masse di analfabeti funzionali. E no, non ci meritiamo di più. Ci
meritiamo ampiamente tutto quello che sta succedendo.
da
Mente Critica, di AM PDT -
grafici, fonte: Repubblica
- 14 ottobre 2013
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