16 maggio 2014

Le “cave aperte” del Belpaese



di Alessandro Graziadei  *

Sì, forse il richiamo letterario di questo titolo può sembrare esagerato. Le vene aperte dell’America Latina, il saggio di Eduardo Galeano che dal 1971 denuncia l’ingiustizia economica e la mai tramontata speranza di nuove condizioni di vita per il continente latino americano ha ben altre prospettive rispetto all’ultimo Rapporto cave 2014 (.pdf) e all’ebook L’Italia delle cave (.pdf) sui paesaggi distrutti dalle attività estrattive in Italia fotografati da Marco Valle. Tuttavia, come il saggio di Galeano, anche le ultime iniziative editoriali curate da Legambiente e presentate a Roma lo scorso 29 aprile, denunciano le enormi ferite morali e soprattutto fisiche che costellano il Belpaese da Nord a Sud con le sue 5.592 cave attive, le 16.045 dismesse ma monitorate e le addirittura 17 mila se si considerano anche quelle delle Regioni che non hanno ancora un monitoraggio come Calabria e Friuli Venezia Giulia. 

Nel complesso, la situazione si può giudicare leggermente migliore al centro-nord, dove il quadro delle regole è in buona parte coperto dai Piani cava, uno strumento che indica le quantità di materiale estraibile e le aree dove è consentita l’attività di cava, mentre per il momento non esistono Piani di questo tipo in almeno 9 Regioni: Veneto, Abruzzo, Molise, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Sicilia, Calabria e Basilicata.
Questa situazione di incertezza legislativa, che deriva dall’assenza di regole adeguate per tutelare il territorio, lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede le autorizzazioni, ma considerando il peso che interessi economici e criminalità organizzata hanno nella gestione del ciclo del cemento e nel controllo della aree cava, si comprende perché bisogna correre ai ripari e regolamentare un settore che muove enormi quantità di denaro. Prelevare e vendere materie prime del territorio è, infatti, un’attività altamente redditizia anche se i canoni di concessione pagati da chi "cava" sono ben poca cosa. In media si paga il 3,5% del prezzo di vendita degli inerti, ma esistono situazioni limite come nel Lazio, in Valle d’Aosta e in Puglia dove il prelievo degli inerti costa solo pochi centesimi e regioni come Basilicata e Sardegna dove è addirittura gratuito. Le entrate degli enti pubblici attraverso i canoni di prelievo sono dunque ridicole in confronto ai guadagni del settore: il totale nazionale dei canoni pagati nelle diverse regioni, per sabbia e ghiaia, è arrivato nel 2012 a 34,5 milioni di euro, mentre il ricavato annuo dei cavatori risulta pari a un miliardo di euro. “Solo per fare un esempio, in Puglia nel 2012 sono stati cavati 10,3 milioni di metri cubi di inerti che hanno fruttato 129 milioni di euro di introiti ai cavatori e solamente 827mila euro al territorio. Ma anche dove si pagano canoni leggermente superiori, come nel Lazio ed in Valle d’Aosta, il rapporto tra le entrate regionali e quelle delle aziende è di 1 a 40. 

Nel Lazio la Regione ricava meno di 4,5 milioni di euro contro i quasi 190 milioni di euro del volume d’affari complessivo con i prezzi di vendita” si legge sul rapporto di Legambiente. In molte regioni, quindi, il canone richiesto non arriva nemmeno ad un decimo del loro prezzo di vendita come in Piemonte, in Provincia di Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana ed Umbria. In Sicilia e Calabria, con l’introduzione per il primo anno del canone di concessione, le regioni ricavano rispettivamente 208 e 420mila euro per l’estrazione di sabbia e ghiaia a fronte dei 10 milioni ricavati dai cavatori in Sicilia ed ai quasi 15 milioni ricavati in Calabria.  
Quello che emerge dunque, è l’enorme e netta differenza tra ciò che viene richiesto e incassato dagli enti pubblici ed il volume d’affari generato dalle attività estrattive in tutto il Belpaese e “In un periodo di tagli alla spesa pubblica - ha spiegato il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini - è inaccettabile che un settore tanto rilevante da un punto di vista economico e ambientale venga completamente trascurato dalla politica nazionale”. Il problema, anche se certamente più impattante, sembra molto simile a quello delle acque minerali e il dubbio che questa “trascuratezza” nasconda solo gli interessi di potenti lobby sembra più che concreto visto che gli attuali 34,5 milioni di euro guadagnati dalle Regioni italiane per l’estrazione di sabbia e ghiaia, potrebbero diventare ben 239 milioni, se solo fossero applicati i canoni in vigore oggi nel Regno Unito.  

Per Legambiente, quindi, “Occorre adeguare i canoni e puntare sul riciclo degli inerti, per creare lavoro e nuove aziende della green economy” visto che nonostante siamo nel 2014 a governare un settore così importante e delicato per gli impatti ambientali è a livello nazionale tuttora un Regio Decreto del 1927, con indicazioni chiaramente improntate a un approccio allo sviluppo dell’attività oggi decisamente datato. Inoltre in molte regioni, a cui sono stati trasferiti i poteri in materia nel 1977, esiste un quadro normativo inadeguato, una pianificazione incompleta e l’assenza di controlli sulla gestione delle attività estrattive. “Occorre promuovere una profonda innovazione nel settore delle attività estrattive - ha proposto Zanchini - attraverso regole di tutela efficaci in tutta Italia e canoni come quelli in vigore negli altri Paesi Europei. Ridurre il prelievo di materiali e l’impatto delle cave nei confronti del paesaggio è quanto mai urgente e oggi assolutamente possibile. Lo dimostrano i tanti Paesi dove si sta riducendo la quantità di materiali estratti attraverso una politica incisiva di tutela del territorio, una adeguata tassazione e la spinta al riutilizzo dei rifiuti inerti provenienti dalle demolizioni edili”.
Il risultato delle nostre scelte o meglio “non scelte” politiche lo si vede! Nonostante la crisi del settore edilizio abbia contribuito a ridurre le quantità dei materiali estratti, infatti, i numeri rimangono comunque impressionanti: 80milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia, 31,6milioni di metri cubi di calcare e oltre 8,6 milioni di metri cubi di pietre ornamentali estratti nel solo 2012 per un totale di un miliardo di euro di ricavo. Sabbia e ghiaia rappresentano il 62,5% di tutti i materiali cavati in Italia, soprattutto nel Lazio, Lombardia, Piemonte e Puglia, dove ogni anno vengono prelevati circa 50 milioni di metri cubi di queste materie prime. Rilevanti sono anche gli impatti e i guadagni legati all’estrazione di pietre ornamentali, ossia di materiali di pregio dove sono minori le quantità estratta, ma rilevantissimi i guadagni e drammatici gli impatti, come dimostrano alcune foto delle Alpi Apuane, delle cave di marmo di Botticino a Brescia, o quelle della pietra di Trani.

All’Italia per curare le sue ferite e prevenirne di nuove occorre ora intraprendere la strada già fissata per il 2020 dalla Direttiva 2008/98 quando dovremo raggiungere l'obiettivo del 70% di recupero di materiali inerti. Raggiungerlo in tempi brevi, secondo Legambiente è possibile, e per questo l’associazione chiede al Governo: di rafforzare la tutela del territorio e la legalità attraverso nuovi controlli, l’obbligo di valutazione d’impatto ambientale e l’individuazione delle aree da escludere; l'aumento dei canoni di concessione per equilibrare i guadagni pubblici e privati e tutelare il paesaggio e infine di spingere per l’utilizzo di materiali riciclati nell’industria delle costruzioni. Solo così sarà possibile creare filiere innovative di lavoro e ricerca applicata, ridurre il prelievo di cava attraverso il recupero di materiali provenienti dall’edilizia e ripristinare quella legalità e quella trasparenza indispensabili alla tutela del territorio.

* da www.unimondo.org 10 Maggio 2014

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