da www.geopoliticamente.wordpress.com 3 febbraio 2012
Cosa hanno in comune Obama e Romney? Entrambi vantano, tra i propri fans, una folta schiera di miliardari. I quali non lesinano ricche donazioni per sostenere l’immagine dei propri beniamini in vista delle presidenziali di novembre.
Cerchiamo di capire di chi i candidati alla casa Bianca sono i burattini.
Questo articolo del Washington Post rivela che Romney ha ricevuto 42 donazioni alla sua campagna da parte di miliardari. Obama non è molto indietro, con almeno 30 sostenitori a nove zeri. Rick Perry (ritirato) e John Huntsman seguono rispettivamente con 20 e 12. Nessuno ha puntato su Ron Paul.
Il più ricco donatore di Romney è il finanziere John Paulson, 16 miliardi di dollari di patrimonio e oltre un milione donato all’ex governatore del Massachusetts; seguono l’immobiliarista Donald Bren (12 miliardi) e l’editore Sam Zell (5 miliardi).
Il più ricco donatore di Obama è l’industriale di origine russa Len Blavatnik (10,1 miliardi), il quale ha foraggiato anche Romney. Altri sovventori sono Peter Lewis, presidente della compagnia di assicurazioni Progressive, l’ex CEO di Google Eric Schmidt (7 miliardi) e il finanziere John Doerr (2,2 miliardi). Tuttavia il contributo maggiore è giunto da un non miliardario, e precisamente dal produttore di Hollywood Jeffey Katzenberg, 800 milioni di patrimonio, che ha donato al presidente in carica ben 2 milioni.
In ogni caso, non è un mistero che il mondo di Wall Street abbia scelto Romney.
Che una campagna elettorale più “ricca” possa far pendere l’ago della bilancia per un candidato piuttosto che per un altro è risaputo, soprattutto negli Stati Uniti. Come non è un mistero che i donatari, una volta eletto il proprio favorito, si aspettino un “dividendo” politico dal loro investimento.
I ragazzi di Occupy Wall Strett ci ricordano che nel 2010 il 94% dei candidati vincitori delle elezioni di mid-term aveva avuto a disposizione più soldi rispetto agli avversari sconfitti. Questo offre un’idea dell’importanza del fattore $ nel processo democratico d’oltreoceano. E non vi è dubbio che un ruolo di primo piano nella macchina del consenso spetti alle cosiddette lobby.
Oggi a Washington sono registrate 1.900 società di lobbying nelle quali lavorano oltre 11.000 lobbisti a tempo pieno. Tutto alla luce del sole, in virtù di quel primo emendamento della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini la libertà di stampa e d’espressione. O meglio, di una interpretazione estensiva di tale norma affermata dalla Corte Suprema in una controversa pronuncia del 21 gennaio 2010, in cui si dice che non c’è limite ai finanziamenti elettorali da parte delle grandi aziende. Unica condizione: deve avvenire tutto nella massima trasparenza, ragione per cui dati di cui sopra sono perfettamente reperibili da chiunque. Ma le lobby sanno come aggirare anche questo limite.
La decisione della Corte ha contrariato lo stesso Obama, secondo cui “questa sentenza offre alle lobby un potere ancora superiore a Washington, mentre indebolisce l’influenza dei semplici cittadini che possono versare solo modesti contributi ai loro candidati”. Solo nel 2009, ad esempio, i lobbisti hanno speso per influenzare la politica 3,49 miliardi di dollari. Cifre di cui la gente comune non potrà mai disporre.
In altre parole la Corte Suprema, i cui giudici sono a maggioranza filorepubblicani perché nominati in passato da Reagan e da Bush padre e figlio, ha incluso nel concetto di libertà d’espressione il diritto delle multinazionali di finanziare i candidati al Congresso o alla Casa Bianca, pagando di tasca propria tutti gli spot necessari a farli eleggere.
Sono così nati i Super-PAC. I PAC (Political Action Committees) sono dei comitati d’azione politica attraverso i quali i cittadini possono contribuire allo svolgimento delle elezioni federali. Fino al 2010 potevano ricevere finanziamenti limitati, ma la sentenza della Corte Suprema ha aperto la strada ad una valanga di soldi privati. I Super PAC sono attivamente impegnati nelle primarie repubblicane in corso, pur non avendo alcun legame ufficiale con i singoli candidati. E proprio in virtù di questa distanza formale possono permettersi di fare cose che i candidati stessi non farebbero, come attaccare e distruggere in tv l’immagine dei propri avversari: pensiamo alla martellante campagna denigratoria che Restore Our Future, il Super PAC vicino a Romney, ha scatenato contro Newt Grinrich.
Ad aggravare la situazione si aggiunge il fatto che, per una serie di cavilli legali, i Super PAC possono mantenere segreti i nomi dei finanziatori fino a dopo le elezioni, alla faccia della trasparenza.
Ancora più controversi sono i legami tra lobby economiche e il Tea Party, movimento populista anti-Stato e anti-regole che condivide con il capitalismo il solo obiettivo di far fuori Obama. C’è chi lo chiama Koch Party, dal nome dei due magnati meno trasparenti del capitalismo americano: le loro aziende guadagnano tanto, inquinano tantissimo, non sono neppure quotate in borsa. E sottobanco finanziano l’agitazione popolare nato dalla pancia dell’America delusa. C’è da riflettere.
L’azione dei Super PAC comporta effetti facilmente immaginabili. Da un lato, il sistema democratico viene di fatto drogato dall’iniezione di finanziamenti senza eguali, dietro i quali si celano grossi centri di interesse, più o meno gli stessi che questa crisi l’hanno provocata. Dall’altro, la qualità del confronto politico si sta “italianizzando”, ossia sta scadendo a mero scontro frontale senza contenuti.
Conscio di questa realtà, per mantenere la sua aura trasparenza (e per ingraziarsi quel cosiddetto 99% di OWS) Obama ha annunciato che non accetterà più donazioni da lobby. Tuttavia si tratta di fumo negli occhi per due ordini di ragioni. Primo, dipende dalla definizione che lo stesso Obama vuole dare al termine “lobbysta”. Secondo, i gruppi di interesse e lo avevano abbandonato già da tempo.
D’altra parte il presidente in carica non è immune da colpe. Nel 2008 rifiutò di accontentarsi del finanziamento pubblico della sua campagna elettorale per sfruttare la straordinaria mobilitazione di base a sostegno della sua candidatura. Se avesse rinunciato alle donazioni, la sua scelta avrebbe vincolato lo sfidante repubblicano McCain a fare lo stesso. Invece Obama accettò a man bassa dei contributi che arrivavano copiosi, polverizzando tutti i record in termini di piccole elargizioni di cittadini, ma aprendo la strada anche a quelle grandi da parte di soggetti più facoltosi.
Molti si stupiranno nell’apprendere che le vituperate BP, Exxon, Chevron, Goldman Sachs e le Big Pharma, solo per fare alcuni nomi, hanno dato più soldi ad Obama che McCain. E quando Obama ha cercato di riformare la norma sui finanziamenti questo è stato il risultato.
Cosa hanno in comune Obama e Romney? Entrambi vantano, tra i propri fans, una folta schiera di miliardari. I quali non lesinano ricche donazioni per sostenere l’immagine dei propri beniamini in vista delle presidenziali di novembre.
Cerchiamo di capire di chi i candidati alla casa Bianca sono i burattini.
Questo articolo del Washington Post rivela che Romney ha ricevuto 42 donazioni alla sua campagna da parte di miliardari. Obama non è molto indietro, con almeno 30 sostenitori a nove zeri. Rick Perry (ritirato) e John Huntsman seguono rispettivamente con 20 e 12. Nessuno ha puntato su Ron Paul.
Il più ricco donatore di Romney è il finanziere John Paulson, 16 miliardi di dollari di patrimonio e oltre un milione donato all’ex governatore del Massachusetts; seguono l’immobiliarista Donald Bren (12 miliardi) e l’editore Sam Zell (5 miliardi).
Il più ricco donatore di Obama è l’industriale di origine russa Len Blavatnik (10,1 miliardi), il quale ha foraggiato anche Romney. Altri sovventori sono Peter Lewis, presidente della compagnia di assicurazioni Progressive, l’ex CEO di Google Eric Schmidt (7 miliardi) e il finanziere John Doerr (2,2 miliardi). Tuttavia il contributo maggiore è giunto da un non miliardario, e precisamente dal produttore di Hollywood Jeffey Katzenberg, 800 milioni di patrimonio, che ha donato al presidente in carica ben 2 milioni.
In ogni caso, non è un mistero che il mondo di Wall Street abbia scelto Romney.
Che una campagna elettorale più “ricca” possa far pendere l’ago della bilancia per un candidato piuttosto che per un altro è risaputo, soprattutto negli Stati Uniti. Come non è un mistero che i donatari, una volta eletto il proprio favorito, si aspettino un “dividendo” politico dal loro investimento.
I ragazzi di Occupy Wall Strett ci ricordano che nel 2010 il 94% dei candidati vincitori delle elezioni di mid-term aveva avuto a disposizione più soldi rispetto agli avversari sconfitti. Questo offre un’idea dell’importanza del fattore $ nel processo democratico d’oltreoceano. E non vi è dubbio che un ruolo di primo piano nella macchina del consenso spetti alle cosiddette lobby.
Oggi a Washington sono registrate 1.900 società di lobbying nelle quali lavorano oltre 11.000 lobbisti a tempo pieno. Tutto alla luce del sole, in virtù di quel primo emendamento della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini la libertà di stampa e d’espressione. O meglio, di una interpretazione estensiva di tale norma affermata dalla Corte Suprema in una controversa pronuncia del 21 gennaio 2010, in cui si dice che non c’è limite ai finanziamenti elettorali da parte delle grandi aziende. Unica condizione: deve avvenire tutto nella massima trasparenza, ragione per cui dati di cui sopra sono perfettamente reperibili da chiunque. Ma le lobby sanno come aggirare anche questo limite.
La decisione della Corte ha contrariato lo stesso Obama, secondo cui “questa sentenza offre alle lobby un potere ancora superiore a Washington, mentre indebolisce l’influenza dei semplici cittadini che possono versare solo modesti contributi ai loro candidati”. Solo nel 2009, ad esempio, i lobbisti hanno speso per influenzare la politica 3,49 miliardi di dollari. Cifre di cui la gente comune non potrà mai disporre.
In altre parole la Corte Suprema, i cui giudici sono a maggioranza filorepubblicani perché nominati in passato da Reagan e da Bush padre e figlio, ha incluso nel concetto di libertà d’espressione il diritto delle multinazionali di finanziare i candidati al Congresso o alla Casa Bianca, pagando di tasca propria tutti gli spot necessari a farli eleggere.
Sono così nati i Super-PAC. I PAC (Political Action Committees) sono dei comitati d’azione politica attraverso i quali i cittadini possono contribuire allo svolgimento delle elezioni federali. Fino al 2010 potevano ricevere finanziamenti limitati, ma la sentenza della Corte Suprema ha aperto la strada ad una valanga di soldi privati. I Super PAC sono attivamente impegnati nelle primarie repubblicane in corso, pur non avendo alcun legame ufficiale con i singoli candidati. E proprio in virtù di questa distanza formale possono permettersi di fare cose che i candidati stessi non farebbero, come attaccare e distruggere in tv l’immagine dei propri avversari: pensiamo alla martellante campagna denigratoria che Restore Our Future, il Super PAC vicino a Romney, ha scatenato contro Newt Grinrich.
Ad aggravare la situazione si aggiunge il fatto che, per una serie di cavilli legali, i Super PAC possono mantenere segreti i nomi dei finanziatori fino a dopo le elezioni, alla faccia della trasparenza.
Ancora più controversi sono i legami tra lobby economiche e il Tea Party, movimento populista anti-Stato e anti-regole che condivide con il capitalismo il solo obiettivo di far fuori Obama. C’è chi lo chiama Koch Party, dal nome dei due magnati meno trasparenti del capitalismo americano: le loro aziende guadagnano tanto, inquinano tantissimo, non sono neppure quotate in borsa. E sottobanco finanziano l’agitazione popolare nato dalla pancia dell’America delusa. C’è da riflettere.
L’azione dei Super PAC comporta effetti facilmente immaginabili. Da un lato, il sistema democratico viene di fatto drogato dall’iniezione di finanziamenti senza eguali, dietro i quali si celano grossi centri di interesse, più o meno gli stessi che questa crisi l’hanno provocata. Dall’altro, la qualità del confronto politico si sta “italianizzando”, ossia sta scadendo a mero scontro frontale senza contenuti.
Conscio di questa realtà, per mantenere la sua aura trasparenza (e per ingraziarsi quel cosiddetto 99% di OWS) Obama ha annunciato che non accetterà più donazioni da lobby. Tuttavia si tratta di fumo negli occhi per due ordini di ragioni. Primo, dipende dalla definizione che lo stesso Obama vuole dare al termine “lobbysta”. Secondo, i gruppi di interesse e lo avevano abbandonato già da tempo.
D’altra parte il presidente in carica non è immune da colpe. Nel 2008 rifiutò di accontentarsi del finanziamento pubblico della sua campagna elettorale per sfruttare la straordinaria mobilitazione di base a sostegno della sua candidatura. Se avesse rinunciato alle donazioni, la sua scelta avrebbe vincolato lo sfidante repubblicano McCain a fare lo stesso. Invece Obama accettò a man bassa dei contributi che arrivavano copiosi, polverizzando tutti i record in termini di piccole elargizioni di cittadini, ma aprendo la strada anche a quelle grandi da parte di soggetti più facoltosi.
Molti si stupiranno nell’apprendere che le vituperate BP, Exxon, Chevron, Goldman Sachs e le Big Pharma, solo per fare alcuni nomi, hanno dato più soldi ad Obama che McCain. E quando Obama ha cercato di riformare la norma sui finanziamenti questo è stato il risultato.
Nessun commento:
Posta un commento